mercoledì 17 dicembre 2008

Jesus of Nazareth: a marginal Essene? Dubbi su una recente ipotesi

Secondo John Dominic Crossan è necessario distinguere due tipi di apocalittica o millenarismo: una versione letterata e una illetterata, una fatta di parole e una fatta di segni, una per le classi alte e una per le classi basse, una per gli scribi e una per i contadini (cf. The Historical Jesus, p. 158).
La puntualizzazione di Crossan è quanto mai opportuna. Ed è anche in base ad essa che guardo con un certo scetticismo a una recentissima proposta (in verità, per il momento soltanto accennata e non ancora formulata) che vorrebbe ricondurre Gesù nel mondo enochico-essenico (cf. Gabriele Boccaccini, Oltre l'ipotesi essenica, Morcelliana).
La cosiddetta "ipotesi di Groningen" su una differenziazione tra qumranici ed esseni (i primi sarebbero un'ala estrema e distaccata dei secondi) e il quadro del "mediogiudaismo" delineato da Boccaccini, mi sembrano interessanti e abbastanza convincenti. Trovo altresì verosimile che il cristianesimo nascente abbia mosso alcuni passi importanti della sua vita nell'alveo dell'essenismo, e di ciò si potrebbe trovare testimonianza persino nel vangelo di Matteo, il cui materiale sul Figlio dell'uomo, a differenza di quello di Marco e di Q, presenta alcuni punti di contatto con le Parabole di Enoc.
Ma una cosa è Gesù e un'altra il cristianesimo nascente.
Per parte mia, fatico molto a vedere in Gesù un esseno (e non mi sto riferendo ovviamente ai qumranici: sto invece ragionando all'interno della ipotesi portata avanti da Boccaccini).
Ci sono molti aspetti concreti dell'attività di Gesù che mal s'inquadrano con le caratteristiche degli esseni: questi, costituivano delle comunità abbastanza chiuse ed esclusive, benché non "separate" come quella di Qumran; Gesù invece porta avanti un ministero all'insegna della più radicale inclusività: donne, gente cronicamente impura e peccatori sono al centro della sua attenzione e ricevono una considerazione altamente positiva, certamente in stridente contrasto con quella che ne potevano avere gli esseni.
Gesù non pare affatto concentrato su un'osservanza meticolosa e rigorosa delle leggi di purità e del sabato: forse anche per ragioni pratiche, il suo atteggiamento su entrambi i punti sembra abbastanza "liberale". Gli esseni, al contrario, rappresentavano un esempio di osservanza molto rigida, probabilmente più ancora di quella farisaica.
Da ultimo, gli esseni - vista la loro collocazione marginale e parzialmente conflittuale nel giudaismo dell'epoca - avevano certamente dei vincoli di solidarietà interna molto forti e intensi, e anche questo elemento, senza essere decisivo, non depone certo a favore di un'appartenenza di Gesù a tale ambiente. Gesù infatti ebbe come obiettivo sistematico di spezzare i legami familiari e sociali che gli individui, specialmente la generazione intermedia, avevano con la loro household di appartenenza (su tutto questo si veda M. Pesce - A. Destro, L'uomo Gesù, 2008). Per cui, quand'anche si voglia sostenere che Gesù provenisse da un'ambiente esseno, è certo che egli se ne stacco in modo radicale.

Oltre a questo, bisogna dire che ciò che conosciamo degli esseni (non dei qumraniani!) non è certo molto. Certamente, Flavio Giuseppe e Filone (oltre a storici romani come Plinio) ci danno una preziosa serie di informazioni, da parte di osservatori "esterni". La voce degli esseni, o almeno la loro speciale tradizione fondante, la potremmo individuare nell'abbondante corpus della letteratura enochica. Benissimo. Ma proprio su questo punto interviene il monito di Crossan: le apocalissi enochiche s'inquadrano sociologicamente in un mondo elitario, di sacerdoti (benché esclusi) e di scribi. Ma questo non è affatto il mondo di Gesù.
Per cui, il massimo che si può concedere è che nell'humus religioso galilaico in cui Gesù si è formato, potevano circolare influenze enochico-esseniche (ad es. la figura del Figlio dell'uomo, che Gesù d'altra parte potrebbe anche aver valorizzato a prescindere dalla tradizione enochica, rifacendosi semplicemente a Daniele). Questa possibilità sembra essere sostenuta anche da una certa rilevanza che nella letteratura enochica riveste un antico santuario del nord della Galilea (ora non mi viene il nome...scrivo mentre sono a lavoro), un elemento di connessione che è stato sottolineato anche da Sean Freyne (Gesù. Ebreo di Galilea, San Paolo).
Ma questo significa soltanto che le idee caratteristiche di un movimento, hanno le braccia lunghe e circolano anche al di fuori del movimento che se ne fa portatore. Da questo punto di vista, Gesù può aver ripreso e fatto proprie idee tipicamente essene come idee tipicamente farisaiche (sotto la spessa scorza degli aspri conflitti gesuano-farisaici che troviamo nei vangeli - i quali, pur avendo certamente un fondamento storico, rappresentano in buona parte una retroproiezione di una successiva situazione di conflitto in cui si trovava la chiesa - troviamo che tra Gesù e i farisei intercorre un rapporto di vicinanza e di interesse)
In conclusione, trovo che parlare di un "Gesù esseno" abbia poco fondamento e ancor meno senso. Se Gesù provenne dall'ambiente essenico, fu un esseno talmente marginale, che perde di senso lo stesso identificarlo come tale.


lunedì 15 dicembre 2008

Cominciando da Gerusalemme (...chissà quando si finisce!)

Bene, bene, bene. Questa primavera non potremo certo dire di non avere niente da leggere!
Alcuni post fa, parlavamo del quarto volume di A Marginal Jew di John Meier, la cui uscita è nel frattempo slittata al 26 maggio (rispetto all'annunciato 1 aprile). E guarda un po' chi salta fuori nel frattempo? Jimmy Dunn, l'autore del poderoso Jesus Remembered, da molti considerato (in modo particolare, anche negli ambienti cattolici) la grande alternativa al Meier.
A differenza del gesuita americano, però, nel nuovo libro Dunn si lascia alle spalle la questione sul Gesù storico e prosegue invece nel progetto originale (concepito in tre volumi) di ripercorrere la storia complessiva del cristianesimo nascente, dagli inizi in Gesù fino al 150 d.C. circa (analogo progetto è stato intrapreso anche dall'esegeta e vescovo anglicano N.T. Wright, il quale però, dopo tre volumi, si trova ancora fermo a Gesù - risorto -).
Questo secondo volume della trilogia, dunque, s'intitola Beginning from Jerusalem.
Eccone una breve presentazione:

The second volume of this notable trilogy, Beginning from Jerusalem covers the early formation of the Christian faith from 30-70 c.e. After outlining the quest for the historical church (parallel to the quest for the historical Jesus) and reviewing the sources, Dunn follows the course of the movement stemming from Jesus 'beginning from Jerusalem.'
Dunn opens this book with a close analysis of what can be said of the earliest Jerusalem community, the Hellenists, the mission of Peter, and the emergence of Paul. In the second part, Dunn focuses solely on Paul the chronology of his life and mission, his understanding of his call as apostle, and the character of the churches which he founded. The third part traces the final days and literary legacies of the three principal figures of first generation Christianity: Paul, Peter, and James, brother of Jesus. Each section includes detailed interaction with the most important of the vast wealth of secondary literature on these matters.


Che dire? Attendiamo con ansia questo nuovo lavoro, la cui lettura ci impegnerà per sole 1392 pagine, che l'editore Paideia - presumo - cercherà di pubblicare qui da noi in quattro o magari anche cinque volumi, giusto per far spendere al lettore italiano 150-170 euro, a fronte dei 30 dollari o delle 42 sterline scuciti ai nostri fortunati amici anglosassoni (con ciò ci riferiamo ovviamente alla frammentazione del precedente Jesus Remembered in ben tre volumi: si potevano capire due...ma l'esistenza del terzo, con le sue insulse 120 pagine di testo e 100 di bibliografia, è una vergogna editoriale!).

lunedì 24 novembre 2008

In a no man's land. Quei cristiani che non avevano dove posare il capo

"In questo breve intervallo, dalla Resurrezione alla Parusia, i Gentili di Paolo, abilitati dallo Spirito, dovevano vivere come se si trovassero già nell'età messianica. (...) Insistendo sia sul fatto di non convertirsi al Giudaismo (mantenendo così il loro status pubblico e legale di pagani), sia su quello di non adorare le divinità (un diritto protettivo proprio solo dei Giudei), Paolo fece incamminare questi Gentili-in-Cristo in una "terra di nessuno" sociale e religiosa. Nel tempo precedente alla Parusia, essi non avevano letteralmente alcun posto dove stare. Una posizione che, sul lungo periodo, si sarebbe rivelata impossibile da mantenere. E' precisamente questo gruppo Gentile ad essere vittima delle persecuzioni anti-cristiane durante i lunghi secoli precedenti la conversione di Costantino nel 312. Ma Paolo non si aspettava un lungo periodo".
(P. Fredriksen, Jesus of Nazareth. King of the Jews, Vintage Books, New York, 1999, p. 135)

sabato 22 novembre 2008

Mark’s Gospel: apocalyptic or alcohol-addicted?


Surprising and provocative, sure to cause controversy, Mark as Recovery Story interprets the Gospel of Mark in terms of alcoholism and Twelve-Step recovery. Identifying numerous previously unrecognized ambiguities in the Gospel’s Greek text, John Mellon portrays Mark’s mysterious “insider” audience as a fellowship of ex-inebriates turned waterdrinkers, alcoholics whose whose spirituality of powerlessness resembled that of Alcoholics Anonymous today.
Mellon discovers in Mark, the most enigmatic of the Jesus narratives, genre features of the former drunkard’s sobriety story, and he reconstructs the first-person story Jesus would have told on his return to Galilee, culminating his Last Supper words about wine and his Gethsemane prayer for removal the cup.
Prophetic in outlook, Mark as Recovery Story, suggest a radical new theology of the ritual drinking in Christian and Jewish worship. Academically it sheds new light on such problematic aspects of the gospel as its dual audiences, peculiar apocalyptic, clandestine content, conflicting Messianic titles, and idiosyncratic passion narrative. And it traces intertextual linkages between the message of recovery in Mark and key passages in the Bible.
(from book’s front flap)

Semplicemente straordinario. E il bello viene guardando l’indice finale degli autori citati, pieno zeppo di nomi come: M. Black, R.E. Brown, M.J. Borg, R. Bultmann, M. Casey, A.Y. Collins, H. Conzelmann, J.D. Crossan, J. Fitzmyer, P. Fredriksen, S. Freyne, J. Gager, M. Hengel, R. Horsley, J. Jeremias, H.C. Kee, H. Koester, B. Lindars, B. Mack, B.J. Malina, E.P. Sanders, E. Schillebeeckx, A. Schweitzer, G. Theissen, G. Vermes, N.T. Wright etc.
Giù il cappello. Questa sì che è SCOLAR-ship seria…

mercoledì 19 novembre 2008

.... se esistesse il premio Nobel per l'editoria .... non l'avrebbe vinto Albert Schweitzer

"C'è silenzio tutto intorno. Il Battista appare e grida: "Pentiti, poiché il regno di Dio è vicino". Poco dopo viene Gesù, che, nella consapevolezza di essere il Figlio dell'uomo, lascia la presa della ruota del mondo per mettere in moto l’ultima rivoluzione che deve condurre alla fine della storia ordinaria. La ruota si rifiuta di girare ed egli si lancia sopra di lei. Quindi la ruota si muove e lo schiaccia. Invece di realizzare le condizioni escatologiche, egli le distrugge. La ruota si è mossa in avanti e il corpo maciullato di quell’uomo incredibilmente grande, che era forte abbastanza per pensare di essere il capo spirituale dell’umanità e di piegare ai suoi fini la storia, è ancora appeso ad essa. Questo è il suo regno e la sua vittoria".

Dite la verità... avete passato anche voi ore a setacciare la voluminosa Storia della ricerca sulla vita di Gesù di Schweitzer pubblicata da Paideia nel 1986, cercando INVANO di trovare questo celebre passo che vi era entrato nelle orecchie chissà quando, chissà dove.
Purtroppo, infatti, l'edizione Paideia riproduce la seconda edizione che Schweitzer fece del libro nel 1913, dalla quale il grande telogo-medico-organista alsaziano eliminò - ironia della sorte - proprio quello che era destinato a divenire forse il più immortale tra i passi della sua immortale opera.

Tuttavia, non disperate, il brano in questione lo potete pur sempre leggere seduti comodamente alla vostra scrivania cliccando qui , alle pagine 368-369 di una edizione inglese del 1911.

L'uomo Gesù. Giorni, luoghi, incontri di una vita

"Uomo della mobilità e della convivialità,
rimarrà totalmente solo e immobilizzato sul legno"

(M. Pesce-A. Destro, L'uomo Gesù. Giorni, luoghi, incontri di una vita, Mondadori, 2008, p. 214)

Dunque, per il momento, ho letto introduzione, primi due capitoli, metà del terzo e conclusione.
Davvero un bel libro. Ce ne sarà da parlare...

martedì 18 novembre 2008

Shorter is better !

Qual è la migliore, più completa, convincente - e pure avvincente - ricostruzione del Gesù storico mai scritta, nel minor numero di pagine possibile?

Tra ciò che ho letto finora, direi questa:

Paula Fredriksen, From Jesus to Christ. The Origins of the New Testament Images of Jesus, Yale University Press, New Haven/London, 2nd ed., 2000 (1st ed. 1988), pp. 94-130.

Naturalmente nulla di questa grandissima studiosa (che è pure venuta in Italia, dove ha dialogato con un allucinante Eugenio Scalfari e lo scadente Floris D'Arcais, vedi il filmato su YouTube), verrà mai pubblicato qui da noi, per non parlare del più grande di tutti, Dale Allison.
Forse è un miracolo che siano arrivati Sanders (che però nelle librerie è irreperibile già da alcuni anni) e Meier. Ce ne faremo una ragione. Comunque oggi grande attesa per l'uscita del nuovo libro di Pesce.

venerdì 7 novembre 2008

Larry Hurtado, parole sacrosante

(…) Prima di esaminare la venerazione di Cristo come fenomeno storico può essere tuttavia utile considerare un presupposto sintomatico (e a mio parere fuorviante) condiviso dalla concezione precritica e anticritica e da quella della storia delle religioni. Merita parlarne perché esso non cessa di influenzare gil ambienti sia popolari che colti.
Si tratta dell’idea che la validità di una concezione o di una pratica religiosa sia messa in discussione se la si può dimostrare come fenomeno autenticamente storico e come risultato di fattori e forze storici che è possibile tentare di precisare e studiare. Si attribuisce a D.F. Strauss, controverso biblista dell’inizio del XIX secolo, un motto spesso citato: “La vera critica del dogma è la sua storia”.
(…) Volendo salvaguardare la validità religiosa e teologica delle concezioni cristologiche tradizionali, la prospettiva anticritica ha tentato di negare o minimizzare per quanto possibile la natura storicamente condizionata della prima venerazione di Cristo. D’altra parte gli storici delle religioni erano convinti che la loro dimostrazione della natura storicamente condizionata della prima venerazione di Cristo significava che non la si doveva più considerare teologicamente valida o vincolante per i cristiani moderni.
In entrambi i punti di vista il presupposto è il medesimo: se si può dimostrare con certezza che qualcosa è emerso grazie a un processo storico, questo non può essere “rivelazione” divina o beneficiare di una validità teologica permanente.
(…) Il presupposto è di dubbio valore (…). Non ci sono motivi validi per pensare, in linea di principio, che la rivelazione divina non possa passare attraverso lunghi processi storici che coinvolgono persone e avvenimenti di tempi e luoghi particolari e che sono condizionati da culture specifiche.
(…) Il fatto di essere in grado di mostrare che determinate persone e avvenimenti rientravano in e dipendevano da processi storici, non significa che queste stesse persone e avvenimenti storicamente condizionati siano destituiti di autorità come rivelazioni divine che mantengono una qualche forma di validità permanente. Presupporre altro equivale a un pensiero filosofico superficiale.

(Tratto da: Larry Hurtado, Signore Gesù Cristo. La venerazione di Gesù nel cristianesimo più antico, volume I, Paideia, Brescia, 2006, pp. 24-25)

Dedico queste pagine ai (poveri) lettori dei vergognosi libri di José Miguel Garcia e a tutti coloro che, come Garcia, non si fanno scrupolo a prendere per i fondelli "questi piccoli", facendo passare per "esegesi" e "storia" ciò che è soltanto pura sfrenata e spudorata fantasia, che gonfia il petto di fronte al lettore infarcendo pagine di parole aramaiche, ma sotto la quale c'è il vuoto. Anzi, peggio ancora: la meditata volontà di servire la verità tramite la menzogna, ossia di ri-affermare un'approccio di fede di stampo tradizionalista-fondamentalista indossando gli abiti dell'esegeta e dello storico. Guai a voi, sepolcri imbiancati!

mercoledì 20 agosto 2008

Parusieverzögerung

Ragazzi, sono disperato.

Non so dirvi cosa ho provato,quando, leggendo il blog di Jim West, mi sono imbattuto nella seguente terrificante notizia, da parte di Brand Pitre:

As a former student of Father Meier’s, I just wanted everyone to know that last I spoke with him (July 2007), the Fourth Volume will not–alas!–be the last volume. It’s focus will be entirely on the enigma of Jesus and the Law. The other “enigmas” with which Meier will complete the series–the enigma of Jesus’ self-understanding and the enigma of his death–will have to wait to Volume 5. Sorry to disappoint anyone, but what he has done promises to be far and away the most extensive and authoritative study of Jesus and the Jewish Law.

Nonché la conferma dello stesso Meier, di fronte alla domanda di West se veramente ci sarebbe stato anche un quinto volume:

Dear Jim,
Yes, that is the case.
Best,(Prof.) John P. Meier

Che dire … credo di cominciare a capire come si sentivano i tessalonicesi, quando erano “tristi come gli altri, come quelli che non hanno nessuna speranza” (1 Tess 4,13).

Miseriaccia!... sì, certo il problema del rapporto di Gesù con la Legge è in sé stesso importantissimo e interessantissimo … però non è quello che interessava a me!
Io bramavo, sbavavo, piuttosto di vedere quale posizione avrebbe preso Meier sull'enigma dell'autocomprensione di Gesù (Figlio dell’uomo, Figlio, Messia) e sulle vicende finali del suo ministero.
E non mi si dica che su tali argomenti Meier ha, orientativamente, già espresso il suo parere in altri luoghi … conosco benissimo tali pareri e tali luoghi … ma una conto è un parere prima di aver intrapreso la mole di studio “alla Marginal Jew”, un altro è un parere dopo che tale studio è stato svolto.

Inutile. Rassegniamoci.

Non arriverà. Non avrà mai fine.

Mai.

venerdì 8 agosto 2008

Gesù: cattolico perché apocalittico, secondo George Tyrrell

Anche George Tyrrell, nella sua opera Christianity at the Cross-Roads, si muove sul terreno dell’escatologia conseguente. Il modernista inglese sostiene che Gesù è un apocalittico nelle sue concezioni religiose e un profeta in quelle etiche. Tyrrell ritiene che questa tesi sia molto importante, perché gli permette di sostenere che Gesù nella sua essenza era “cattolico” e la teologia protestante liberale non può farne un garante della sua religiosità.
In sostanza il vero cristianesimo è, a suo avviso, sempre “cattolico”, poiché è “escatologico”. Ogni epoca deve trasfigurare nei simboli ad essa familiari la visione del mondo apocalittica. Nessuna comunione spirituale con il Signore è possibile quando nella religione non dominano più questa volontà e questa speranza assolute in un compimento futuro dell’umanità e delle cose.

(da A. Schweitzer, Storia della ricerca sulla vita di Gesù, Paideia, Brescia, 1986, pp. 703-704)

sabato 2 agosto 2008

The Test on the Historical Quest !

Estate. Tempo di vacanze e di relax.
E, tra un bagno e l'altro, cosa c'è di meglio di un bel TEST ?

Se pensate di sapere TUTTO sulla TERZA RICERCA ...
... allora questo è il link che fa per voi !!

giovedì 31 luglio 2008

Quel che penso del Figlio dell'uomo (o meglio...quel che pensavo!)

Quando ho iniziato a confrontarmi con l'intricata questione dei detti sinottici sul Figlio dell'uomo, ero dell'opinione che ad essere nel giusto fosse, sostanzialmente, la "scuola" che sosteneva l'autenticità dei detti apocalittici sulla venuta futura del F.d.U., e l'origine secondaria e comunitaria di tutti gli altri (F.d.U. sofferente, F.d.U. che ha autorità nel presente). In sostanza, si trattava di dare ragione ad autori come Bultmann, Tödt, Fuller, Higgins, Yarbro Collins, Becker. In realtà non ero così convinto che Gesù veramente attendesse il F.d.U. come se si trattasse di un personaggio celeste che avrebbe portato la salvezza definitiva (da questo punto di vista, avrebbero ragione i Vielhauer e i Conzelmann ad osservare che la "soteriologia" del Regno - già presente - propria di Gesù, non ammette spazio per un ulteriore figura di redentore futuro), e pensavo quindi che avesse ragione Becker a sostenere che, più che una figura vera e propria, "Figlio dell'uomo" era impiegato da Gesù come "simbolo" per indicare il giudizio (Becker si riferisce in particolare a Lc 12,8 e Lc 17,26-30).
Ora, la tesi di Becker non ha smesso di convincermi. Tuttavia ho cominciato a inquadrarla entro una più ampia tesi - di tradizione inglese - che guarda al Figlio dell'uomo nei detti di Gesù come ad un simbolo corporativo (conformemente allo stretto legame tra "uno come un figlio d'uomo" e il "popolo dei santi dell'Altissimo" in Daniele; vedi anche quello tra il F.d.U. come "eletto" e gli "eletti" in 1Enoch) con cui Gesù poteva esprimere il destino, di sofferenza prima e di giustificazione e conferimento del potere poi, che attendeva lui e il suo gruppo. Ciò mi ha condotto alle seguenti conclusioni:

1) la possibile autenticità di Mc 9,31: "Il Figlio dell'uomo è consegnato nelle mani degli uomini, e lo uccideranno, e ucciso, dopo tre giorni risorgerà" (difendibile del resto anche per altre vie: Maurice Casey pensa che "F.d.U." fosse solo un'espressione generica, che nulla aveva a che fare con la visione di Daniele, ma difende nondimeno con forza l'autenticità del detto).
Esso esprimerebbe, appunto, il destino di sofferenza e di tribolazione (cf. Mt 11,12: il regno soffre violenza; Mc 10,38: Gesù e discepoli devono ricevere un "battesimo" e bere un "calice" (della morte); Mc 8,35: seguire Gesù può significare perdere la vita; Lc 12,49,50: Gesù porta un fuoco sulla terra ed è angustiato finché non riceve un "battesimo"; Thom. 82: essere vicini a Gesù, è essere vicini al fuoco...ma chi sceglie di stargli lontano, si allontana oltre che dal fuoco, anche dal Regno) che attende Gesù e il suo gruppo, prima che Dio li vendichi (come i santi dell'Altissimo) conferendo loro il regno e il giudizio (Lc 12,32: il piccolo gregge riceverà il regno; Lc 22,28.30: i discepoli siederanno su troni - cf. i troni in Dn 7 - a giudicare le 12 tribù di Israele).

2) La visione del F.d.U. che viene sulle nubi non era intesa da Gesù letteralmente: egli si riallacciava all'immagine danielica come simbolo per esprimere il destino del suo gruppo. Il "venire sulle nubi" non è anzitutto un discendere dalla terra al cielo, bensì un ascendere verso il trono alla destra di Dio, il che è a sua volta il simbolo visionario per indicare il conferimento del regno e del giudizio al proprio gruppo, nell'ambito di una escatologia di restaurazione d'Israele.
Ciò mi induce, molto a malincuore, a dar ragione - ma solo su questo preciso punto! - a N.T. Wright che nei suoi libri argomenta in continuazione che né Gesù né i suoi uditori si sarebbero mai sognati di concepire qualcosa di così "crassamente letteralistico" come un essere celeste che scende sulla terra cavalcando le nuvole: essi sapevano invece riconoscere una buona metafora, quando ne vedevano una. Specifico però che su tutto il resto Wright ha rigorosamente torto.

3) Contrariamente a proponenti di questa interpretazione "corporativa" del F.d.U., come Morna Hooker, non sono però convinto che si possano salvare i detti sull' "autorità del F.d.U. nel presente: Mc 2,10 (il F.d.U. ha potere di perdonare i peccati sulla terra) e Mc 2,28 (il F.d.U. è signore del sabato). Ritengo che qui ci sia lo "zampino" della comunità primitiva. Ma non è questa la sede per argomentarlo.

Qual è il punto forte di questa tesi? Beh, se il Figlio dell’uomo non è altro che un simbolo per indicare la consegna del Regno e del giudizio da parte di Dio al gruppo di Gesù, allora i detti sul F.d.U. si armonizzano alla perfezione con i detti sul Regno: i due principali filoni della tradizione sinottica che, tuttavia, non comparendo praticamente mai insieme, avevano indotto qualcuno (Philipp Vielhauer) a pensare che soltanto uno dovesse essere originario e l’altro (quello del F.d.U.) secondario. Ma, come si vede, quello di Vielhauer è un aut-aut mal posto: Figlio dell’uomo e Regno di Dio sono le due facce della stessa medaglia (con il Figlio dell’uomo che rappresentava, forse, la “cifra” centrale dell’auto-identità del gruppo di Gesù).

Seguono ora le due citazioni (una cortissima e una lunghissima) che mi hanno instradato verso questa tesi.


R. PENNA, I ritratti originali di Gesù il Cristo, San Paolo, Cinisello Balsamo, 1996, p. 143

“Mi sento quindi vicino a M.D. Hooker, The Son of Man in Mark, London, 1967, pp. 174-198, che aggiunge all’espressione una dimensione corporativa (cfr. l’identificazione danielica tra il figlio dell’uomo e il popolo dei santi dell’Altissimo): Gesù si presenterebbe come il nucleo della comunità dei giusti ed eletti, e in quanto tale lascia aperta la strada a chi è pronto ad unirsi a lui”

DALE C. ALLISON Jr., Jesus of Nazareth. Millenarian Prophet, Fortress, Minneapolis, 1998, pp. 65-66

“L’interpretazione collettiva del “Figlio dell’uomo” nella tradizione su Gesù era un tempo popolare presso gli esegeti britannici (ad es. J.R. Coates, A.T. Cadoux, T.W. Manson, C.J. Cadoux, C.H. Dodd, il tardo Vincent Taylor) ma ha perso credito negli ultimi tempi (sebbene Morna Hooker e C.F.D. Moule l’abbiano ancora promossa). Essa merita di essere riesaminata:
1) Se Gesù non utilizzò “il Figlio dell’uomo” come un auto-designazione esclusiva, si spiegherebbe perché, al di fuori della tradizione su Gesù, il termine non divenne mai un titolo cristologico.
2) In generale, molti detti su Gesù hanno in vista ciò che Gerd Theissen chiama Gruppenmessianismus; vedi il suo articolo “Gruppenmessianismus: Überlegungen zum Ursprung der Kirche im Jüngerkreis Jesu”, Jahrbuch für Biblische Theologie 7 (1992), pp. 101-23. E il Giudaismo conosceva un tale “messianismo di gruppo”; vedi Hartmut Stegemann, “Some Remarks to 1QSa, to 1QSb, and to Qumran Messianism”, RevQ 65-68 (1996), pp. 479-505, e Annette Steudel, “The Eternal Reign of the People of God – Collective Exprectations in Qumran Texts (4Q246 and 1QM)”, RevQ 65-68 (1996), pp. 507-25.
3) In Daniele 7 “uno come un figlio d’uomo” può essere identificato con i santi dell’Altissimo, e alcuni esegeti pre-moderni lo leggevano in questo modo; vedi Maurice Casey, Son of Man: The Interpretation and Influence of Daniel 7 (London: SPCK, 1979, pp. 51-98.
4) Se “il Figlio dell’uomo” per Gesù significava i santi degli ultimi giorni, allora possiamo comprendere perché, in un testo come Q 12,8-9, Gesù è strettamente associato con il “Figlio dell’uomo” e tuttavia i due non sembrano essere identici.
5) L’interpretazione collettiva spiega perché alcuni interpreti siano riusciti a trovare in molti testi sul “Figlio dell’uomo” un senso generico.
6) Questa interpretazione chiarifica inoltre il misterioso Mc 9,12b; vedi il mio articolo “Q 12:51-53 and Mk 9:9-11 and the Messianic Woes”.
7) 1Tess 4,15-17 è strettamente imparentato con Mc 9,1; 13, 24-27, e Mt 24,30-31. Ma laddove nei testi sinottici è il Figlio dell’uomo che viene sulle nubi, in Paolo sono il Signore Gesù e i santi, sia risorti che vivi. Il che significa che in 1Tess 4,15-17 i santi non attendono che Gesù venga sulla terra, bensì lo raggiungono sulle nuvole. Ciò ha senso se la tradizione primitiva prevedeva la venuta del Figlio dell’uomo come la venuta dei santi.
8) Il “troni” (plurale) di Dn 7,9 può essere meglio compreso come riferimento ai troni di Dio e dell’ “uno come un figlio d’uomo”. Ciò ha importanza, in quanto Q 22,30, che potrebbe risalire a Gesù, probabilmente allude a Daniele 7 e colloca una collettività (i seguaci di Gesù in Luca, i dodici in Matteo) su “troni”. In altre parole, il testo può essere interpretato come se significhi che i discepoli avranno il ruolo dell’ “uno come un figlio d’uomo” (cfr. Ap 20,4).
9) In Lc 12,32, che può risalire anch’esso a Gesù, ai discepoli di Gesù viene detto che essi riceveranno il regno. In Dn 7,14 il figlio dell’uomo riceve il regno, come avviene per i santi nei versi 18 e 27. Di nuovo, è possibile comprendere il detto nel senso che il “resto” che circonda Gesù adempie il ruolo della figura in Daniele.
10) Come T.W. Manson osservò molto tempo addietro, c’è una sorprendente corrispondenza “tra le predizioni del Figlio dell’uomo e le richieste fatte da Gesù ai discepoli. Sempre e di nuovo viene impresso loro che il discepolato è sinonimo di sacrificio e sofferenza, e della croce stessa. Questo suggerisce che ciò Gesù aveva in mente era che lui e i suoi seguaci insieme dovessero condividere quel destino che egli descrive come la passione del Figlio dell’uomo, il Resto che salva attraverso il servizio e l’auto-sacrificio” (The Teaching of Jesus, 2d ed. Cambridge: Cambridge University Press, 1935, p. 231).

P.S. giugno 2009: questo post non rappresenta più la mia posizione sul problema del Figlio dell'uomo, che si caratterizza ora come un "misto" tra quelle - tra loro tutte diverse - di J. Becker, A. Yarbro Collins, J. Dunn e B. Chilton... ma non dico di più!

martedì 29 luglio 2008

Ancora sull' "Hazon Gabriel": articolo pubblicato per un settimanale diocesano

LA TAVOLA DEL MESSIA CHE RISORSE PRIMA DI CRISTO
La Visione di Gabriele, un importante reperto archeologico da cui si pretende un po’ troppo

Il 6 luglio il Corriere della Sera ha ripreso un articolo del New York Times a proposito di un reperto archeologico giudaico che, da circa un anno a questa parte, ha acceso un importante dibattito tra gli studiosi. Si tratta di una tavola di pietra di circa 90 cm, in cui è riportato un testo in ebraico di 87 righe, disposte su due colonne, di carattere apocalittico (Hazon Gabriel, Visione di Gabriele). Lo scritto – definito un “rotolo del Mar Morto su pietra” -, dal punto di vista linguistico, risulta collocabile intorno alla fine del I sec. a.C., una datazione che sembra confermata anche dal punto di vista paleografico.
La stele è stata ritrovata una decina di anni fa, ma è solo all’anno scorso che risale la prima pubblicazione scientifica del testo, ad opera di Ada Yardeni e Binyamin Elitzitur. Sfortunatamente, il testo che i due studiosi sono riusciti a ricostruire risulta estremamente lacunoso e pertanto di difficile interpretazione.

L’interpretazione della stele di Israel Knohl
Tutto questo non ha impedito però ad un altro studioso, Israel Knohl, professore di studi biblici all’Università di Gerusalemme, di proporre una teoria secondo cui l’Hazon Gabriel testimonierebbe l’esistenza di una concezione giudaica del Messia che muore e risorge, antecedente l’annuncio pasquale cristiano.
Secondo Knohl, si tratterebbe del “messia figlio di Giuseppe” (ossia Efraim, nell’Hazon Gabriel), che compare nel Talmud (Sukkah 52a) come il “messia ucciso”, figura che - ad avviso dello studioso - farebbe riferimento ad un personaggio storico reale, che egli individua nel pretendente messianico Simone di cui narra Giuseppe Flavio: uno schiavo che, in seguito alla morte di Erode il Grande nel 4 a.C., “facendo affidamento sulla bellezza delle sue forme e sulla prestanza fisica, si cinse del diadema” (Guerra giudaica II:57-59), e “avendo raccolto un corpo di uomini, si fece proclamare re da quei fanatici” (Antichità giudaiche 17,273), dando vita così ad un’insurrezione popolare che venne immediatamente repressa nel sangue dallo sforzo congiunto dei romani e delle truppe erodiane, il cui comandante, Grato, intercettò Simone mentre cercava di fuggire attraverso un burrone e lo decapitò.
In poche parole la tesi di Knohl è la seguente: “Simone, il principe dei principi, era il leader messianico di un gruppo attivo in Transgiordania. L’Apocalisse di Gabriele sembra pertanto essere stata scritta dai suoi seguaci, di cui rifletterebbe il tentativo di far fronte al fallimento della rivolta e alla morte del loro leader”.
L’analisi che Knohl fa dell’Hazon Gabriel si incentra in particolare su alcuni versi in cui si dice anzitutto che “in tre giorni, conoscerai – dice il Signore degli eserciti, il Dio d’Israele – che il male è stato spezzato dalla giustizia” (righe 19-21) e soprattutto sulle righe 80-81, dove, secondo Knohl l’arcangelo Gabriele comanderebbe al messia morto di tornare alla vita (“in tre giorni, vivrai, io, Gabriele, te lo comando, principe dei principi”).
In realtà le cose non sono così semplici. Infatti, come accennato, il testo della tavola è colmo di lacune e di vocaboli indecifrabili, che riguardano anche punti chiave per la teoria di Knohl, ad esempio la stessa parola “vivrai”, hayeh: questa infatti era stata infatti ritenuta illeggibile da Ada Yardeni, che per prima aveva edito il testo, la quale tuttavia, una volta venuta a conoscenza dell’interpretazione di Knohl, ha detto di ritenere in effetti probabile che tale parola possa essere proprio hayeh (Yardeni invece si dichiara scettica circa la proposta di Knohl di identificare il personaggio che torna alla vita con Simone lo schiavo, un punto quest’ultimo che, del resto, lo stesso Knohl ha definito “congetturale”).

L’eredità del libro di Daniele tra Hazon Gabriel e Gesù
Ma il punto principale è che, quand’anche l’autenticità, l’antichità e l’interpretazione della stele fornita da Knohl venissero confermate (ma, a riguardo, è quanto mai doveroso invitare alla prudenza e ad attendere gli sviluppi di un dibattito accademico che è soltanto agli inizi), non ne segue affatto che tale ritrovamento dovrebbe “sconvolgere la nostra visione del cristianesimo”, come ha dichiarato Knohl, ritenendo che quest’idea del Messia che muore e risorge sarebbe stata adottata dai seguaci di Gesù e applicata a lui.
Di per sé, l’Hazon Gabriel, testimonierebbe semplicemente che tra le varie concezioni messianiche che caratterizzano il periodo noto come “giudaismo del secondo tempio” ce n’era anche una che attribuiva al Messia un destino di sofferenza salvo poi essere vendicato da Dio tramite risurrezione.
Ciò costituirebbe certamente un’acquisizione di grande importanza per la nostra conoscenza storica, e tuttavia non rappresenterebbe nulla di realmente “rivoluzionario”, una volta che si considera come in un testo fondamentale per l’epoca – specialmente per gli sviluppi messianici di cui è stato oggetto – quale il libro di Daniele, si afferma chiaramente che il popolo dei santi dell’Altissimo (Israele) subisce prima un destino di persecuzione e distruzione per poi ricevere da parte di Dio il regno eterno e il dominio su tutti i popoli (cf. Dn 7,25-27; ma si veda anche il riferimento ai maskilim in Dn 11,33, i saggi che pagano con il martirio la loro fedeltà e l’ammaestramento verso il popolo nel tempo della dell’apostasia, e che in Dn 12,3 vengono vendicati da Dio nella risurrezione, dove “risplenderanno come le stelle per sempre”).
Ed è con tutta probabilità al libro di Daniele che lo stesso Gesù si riallacciò con la sua particolare “teologia messianica” del Figlio dell’uomo sofferente, che deve essere consegnato nelle mani degli uomini e ucciso, per poi risorgere dopo tre giorni (cf. Mc 9,31). Questo detto marciano è stato considerato da molti esegeti un vaticinium ex eventu, ossia una profezia che gli evangelisti avrebbero posto sulla bocca di Gesù a seguito degli eventi pasquali.
In realtà esso (nell’assenza di dettagli che lo differenzia rispetto ad un detto analogo, ma fin troppo particolareggiato, come Mc 10,34), potrebbe costituire, più che un’anticipazione miracolosa dei successivi eventi pasquali, uno squarcio della “teologia” del Gesù storico che, rifacendosi probabilmente a Daniele, prevedeva per quell’ “Israele in nuce” che erano i Dodici un destino di sofferenza e tribolazione, prima di ricevere la giustificazione ed esaltazione da parte di Dio.
Ed è interessante, a riguardo, quanto afferma lo stimato esegeta cattolico Romano Penna (in una nota del suo I ritratti originali di Gesù il Cristo vol. I, p. 143) a seguito di una corrente di studiosi prevalentemente britannici, circa una possibile valenza anche “collettiva” dell’espressione Figlio dell’uomo, che poteva quindi, all’occasione, riferirsi non solo a Gesù, ma anche al gruppo dei discepoli avente Gesù al centro; un uso quindi che si accorderebbe all’immagine danielica del Figlio dell’uomo, che è al tempo stesso una figura individuale e il rappresentante del popolo dei santi dell’Altissimo (un altro studioso cattolico, Sean Freyne, ha invece interpretato Gesù e il suo gruppo lungo l’ “altra” linea danielica, quella dei maskilim).
Gesù dunque, con questo messianismo del Figlio dell’uomo avente carattere individuale/collettivo (Gerd Theissen parla di un Gruppenmessianismus, in cui le prerogative messianiche erano allargate ai discepoli, i quali, secondo Mt 19,28/Lc 22,28-30, avrebbero dovuto giudicare e governare le dodici tribù d’Israele nel veniente regno di Dio), fece propria una particolare concezione messianica articolata in due stadi: sofferenza prima, esaltazione poi. Con tutta probabilità, egli elaborò tale teologia alla luce del libro di Daniele. E come lo fece lui, nulla impedisce che anche altri potessero essere giunti a sviluppare intuizioni simili.
E tra questi ci potrebbe essere proprio l’autore di Hazon Gabriel, testo in cui peraltro i richiami danielici sono evidenti (si pensi anche solo ad elementi macroscopici come le rivelazioni da parte dell’angelo Gabriele e il riferimento al “principe dei principi”, figura presente anche in Dn 8,25, dove si dice che un “re sfacciato e intrigante” gli insorge contro, ma – a differenza che nella stele – senza successo).
La Visione di Gabriele, dunque, annunciando che dopo tre giorni il male sarà spezzato dalla giustizia e che il Messia sofferente sarà vendicato da Dio con il ritorno alla vita (verosimilmente in un contesto di risurrezione generale, sebbene quel che rimane del testo non lo dica), costituirebbe l’esempio di una particolare linea di sviluppo del pensiero escatologico-messianico, a partire dal libro di Daniele, lungo la quale, in modo analogo ma indipendente, si colloca il messianismo gesuano del Figlio dell’uomo che muore e risorge.

Scoperta rivoluzionaria? Sarà per un’altra volta
Ora, la conclusione di tutto questo è che l’Hazon Gabriel, lungi dallo sconvolgere la nostra immagine del cristianesimo delle origini, non farebbe altro che confermare ciò che già sappiamo: quanto, cioè, esso (persino nel suo elemento più distintivo, il kerygma pasquale) fosse profondamente inserito nell’ebraismo e compenetrato delle sue categorie (sebbene si debba precisare che tale concezione giudaica del Messia che muore e risorge, se davvero ci fu, ebbe sicuramente una diffusione marginale, dal momento che altrimenti non si spiegherebbe la generale resistenza che gli apostoli incontrarono con il loro annuncio della risurrezione del Crocifisso).
Coloro che invece, in modo molto superficiale, vorrebbero precipitarsi a concludere che i discepoli di Gesù, conoscendo l’Hazon Gabriel, lo avrebbero poi applicato (con una sorta di “copia-incolla”) alla vicenda del loro leader, non tengono minimamente conto del fatto che una cosa è trovare due concezioni tra loro analoghe, e tutt’altra cosa è concludere che una dipenda dall’altra. Per fare quest’ultimo passo, è necessario dimostrare che effettivamente esiste un legame di dipendenza delle testimonianze neotestamentarie rispetto allo Hazon Gabriel. Ma questa appare decisamente una causa persa.
Infine, da ultimo, bisogna ricordarsi che c’è una differenza fondamentale e irriducibile che permane: la risurrezione del Messia che (forse) troviamo nell’Hazon Gabriel è, sostanzialmente, soltanto un’idea, una “profezia” (non si parla del fatto che essa sia avvenuta), laddove lo specifico neotestamentario è l’annuncio di un evento già verificatosi, del quale dei testimoni affermano di aver avuto concreta esperienza.
In questo sta lo specifico cristiano rispetto al giudaismo da cui è nato: non nell’idea che la vittoria di Dio possa passare attraverso le vie della sofferenza, dell’umiliazione e della sconfitta (Israele conosceva già fin troppo bene – anche allora, assai prima della Shoah - quale amara verità potesse rivelarsi l’essere il popolo di Dio), bensì nell’annuncio che tale “vittoria di Dio nella sconfitta” ha già avuto definitivamente luogo nella croce di Gesù il Nazareno.

lunedì 14 luglio 2008

Un ebreo marginale, volume 4: l'atto finale!

Disperavate di vivere abbastanza a lungo da poterlo stringere tra le vostre mani?

Gente di poca fede! Convertitevi, perché l'epilogo si è fatto vicino:


In verità vi dico: molti profeti, sapienti e comuni lettori desiderarono vedere ciò che voi state per vedere, ma non lo videro!

Vegliate dunque!
Dovete infatti sapere che verranno negli ultimi giorni molti schernitori beffardi, i quali si comporteranno secondo le loro passioni e diranno: "Dov'è la promessa della sua venuta?".
Non vi sia perciò tra voi chi, mormorando, dica: "la traduzione tarda" oppure "era solo un pesce d'aprile". Vegliate dunque, poiché non sapete in quale giorno la traduzione arriverà, affinché non giunga all'improvviso, trovandovi addormentati.
Ecco, io vi ho predetto tutto.

martedì 8 luglio 2008

Hazon Gabriel: le possibili implicazioni del messia che muore e risorge per lo studio del Gesù storico

A quanto pare, la notizia dell’Hazon Gabriel e del suo messia morente e risorgente (secondo l’interpretazione offerta da Israel Knohl. Cf. "’By three days, live’: Messiahs, Resurrection, and Ascent to Heaven in Hazon Gabriel” in The Journal of Religion, 88:147-158, April 2008) comincia a fare rumore.
Io, purtroppo, sono assolutamente lontano dal disporre dei mezzi per pronunciarmi sulla correttezza della tesi di Knohl.
In attesa che il dibattito accademico faccia progressi, mi limito pertanto a qualche ipotetica considerazione a partire dalla eventualità che effettivamente la stele in questione ci abbia messo di fronte all’esistenza, tra le varie concezioni messianiche del giudaismo del secondo tempio, anche di una linea di pensiero che attribuisce al messia un destino di morte e risurrezione. Quali sarebbero le implicazioni di tutto questo?

A me pare, anzitutto, che tale testimonianza costituirebbe una ulteriore conferma di come fosse nel giusto quella linea di studiosi che - a partire da Schweitzer, e, passando per Jeremias e Ben Meyer, giunge fino ad Allison – facevano della cosiddetta “tribolazione escatologica” un elemento centrale della predicazione di Gesù (linea rinnovata di recente dal volume di Brant Pitre, Jesus, the Tribulation and the End of the Exile, Mohr Siebeck, Tubingen, 2005).
Ca va sans dire che un detto quale Mc 9,31 ("Il Figlio dell`uomo sta per esser consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma una volta ucciso, dopo tre giorni, risusciterà"), solitamente interpretato come vaticinium ex eventu, riappare ora in una luce completamente nuova: lo storico infatti disporrebbe ora, grazie all’Hazon Gabriel, di un’analogia più che sufficiente per poter guardare al logion citato come ad un’attestazione di un particolare schema escatologico-messianico presente tra le varie concezioni del giudaismo del tempo di Gesù, e nulla vieta che esso possa esser stato fatto proprio dallo stesso Gesù, prima ancora che dai suoi discepoli a seguito degli eventi pasquali.
Insomma, sarebbe storicamente molto plausibile che Gesù - venendo a contatto con l’humus da cui è sorto l’Hazon Gabriel, oltre che, in modo più fondamentale, riallacciandosi alla visione danielica del Figlio dell’uomo e del popolo dei santi dell’Altissimo, ad esso connesso, che passa dalla persecuzione al trionfo – avesse pensato il suo ministero nell’ottica di una già iniziata tribolazione escatologica (cf. Q 16,16 ; Q 12,51-53) destinata a trovare risoluzione in tempo brevissimo con la venuta del Regno di Dio in potenza (Mc 9,1 – dove, come suggerisce Jeremias, gli “alcuni qui presenti” che non gusteranno la morte non sono discepoli particolarmente longevi, bensì discepoli sopravvissuti alla tribolazione; il che fa di questo logion un detto di incoraggiamento).
Al banchetto del Regno, alcuni (quelli di cui parla Mc 9,1) sarebbero giunti passando indenni attraverso la tribolazione; altri invece (tra cui forse, a giudicare anche da Mc 14,25 , Gesù stesso) vi avrebbero presenziato mediante un miracoloso intervento di Dio, quello, appunto, di cui si parla in Mc 9,31 e in Hazon Gabriel.

Un risvolto leggermente più "scomodo" (ma, in fin dei conti, nemmeno troppo, io credo) per chi si muove entro l’ottica della fede cristiana è invece che l’annuncio pasquale (ferme restando la salda attestazione delle apparizioni del Risorto e la intrinseca "non giudicabilità" da parte dello storico della realtà del loro oggetto) sembrerebbe essere una prevedibile e quasi doverosa (alla luce della autenticità di un detto quale Mc 9,31) interpretazione da parte dei discepoli della vicenda del loro leader, ricalcante un già esistente “schema” giudaico di messia sofferente e risuscitato.

In un post precedente, avevo parlato dell’esperienze pasquali come evento “dissonante” rispetto alle aspettative escatologiche dei discepoli, che verosimilmente si aspettavano la restaurazione di Israele, l’affermazione definitiva del regno di Dio (con loro stessi nel ruolo di rappresentanti e giudici), il giudizio universale e, concomitantemente la risurrezione generale dei morti. Non rientrava invece nel loro orizzonte mentale invece la possibilità che a risorgere fosse uno soltanto, il loro leader. Le cose cambierebbero di parecchio tuttavia se si potesse ritenere ragionevolmente possibile che tra le concezioni escatologiche di Gesù e dei suoi discepoli ci fosse pure quella di un messia il cui trionfo passa per la morte e la risurrezione dopo tre giorni, e che l’influenza di tale concezione sarebbe testimoniata in un detto come quello di Mc 10,31. In questo caso, le esperienze pasquali non sarebbero affatto qualcosa di “dissonante”, anzi, sarebbero precisamente ciò che ci si sarebbe dovuti aspettare.

Comunque, se anche le cose stessero così, non sarebbe troppo grave: qualunque fossero le particolari aspettative escatologiche pre-pasquali dei discepoli, l’attestazione delle apparizioni pasquali conserva la sua forza, e chi vuole pertanto continuare a vedere in tale attestazione il frutto di una reale e singolarissima esperienza dei discepoli, piuttosto che di una semplice operazione “ermeneutica” nei confronti del destino del loro leader alla luce delle concezioni escatologiche che egli stesso aveva instillato in loro, non si può affatto dire che lo faccia contro l’evidenza delle testimonianze.

In fin dei conti, la tesi di Knohl condurrebbe soltanto ad aggiungere un tassello in più alla nostra considerazione del cristianesimo delle origini come fenomeno da inquadrarsi positivamente all'interno del variegato spettro del giudaismo(i) del secondo tempio, guardando - molto theissenianamente - anche all'annuncio pasquale nell'ottica della plausibilità contestuale, piuttosto che in quella della discontinuità.

venerdì 27 giugno 2008

Ottantasei libri su Gesù ... e nessuna ricerca su Gesù? Lo strano caso della "No Quest" e altri paradossi

Il neotestamentarita di Pittsburgh Dale C. Allison ha dato probabilmente il colpo di grazia a quel luogo comune storiografico che vorrebbe distinguere una First Quest, da Reimarus fino a Schweitzer, una New o Second Quest, coincidente coi lavori dei discepoli di Bultmann, e infine una Third Quest, a partire dal 1980-85 fino ad oggi.
In uno dei saggi del suo recente libro Resurrecting Jesus (T&T Clark, New York-London, 2005), Allison si adopera a mettere impietosamente a nudo una serie di assurdità implicate in tale “fortunata” tripartizione.
La più macroscopica è certamente il fatto di alimentare l’idea secondo cui tra il 1907 – l’anno successivo alla pubblicazione alla Storia della ricerca sulla vita di Gesù di Albert Schweitzer (unanimemente considerata l’orazione funebre della First Quest) - e il 1953 - anno in cui Ernst Kaesemann tenne la sua nota conferenza su Il problema del Gesù storico – non ci sarebbe stata alcuna ricerca storica su Gesù, o, per lo meno, nessuna meritevole di seria considerazione; il che fa sì che alcune periodizzazioni giungano a dare un nome ben preciso a questi quasi cinquant’anni di presunto “vuoto” della ricerca: quello di “No Quest” (si veda ad es. il volume di Salvador Piè i Ninot, La teologia fondamentale, Queriniana, Brescia, p. 327 – N.T. Wright parla – non meno significativamente - di un periodo caratterizzato da una “moratoria” sulla ricerca sul Gesù storico).
Naturalmente, Allison ha buon gioco nel mostrare che in realtà il periodo compreso tra First e Second Quest fu caratterizzato da un'ampia serie di lavori storici su Gesù, alcuni dei quali di importanza fondamentale (si veda la lista alla fine del post). Secondo, il neotestamentarista di Pittsburgh, all’origine di questo paradosso storiografico stanno due fattori principali.
In primo luogo, una confusione su quella che fu la reale portata dell’avvento della critica delle fonti e della critica delle forme: il fatto che esse abbiano fatto crollare la speranza di poter scrivere una “biografia” di Gesù, non significa in alcun modo – come invece, a quanto pare, alcuni devono aver pensato – che con il loro avvento fosse venuta meno anche la possibilità di dire qualcosa sulle parole e gli atti del Gesù storico.
«La morte delle tradizionali ‘vite di Gesù’, l’abbandono della cornice marciana e il rifiuto di tracciare lo sviluppo dell’autocoscienza di Gesù – scrive Allison – non possono essere fatti equivalere con un’eclisse degli studi sul Gesù storico. La prima parte del XX secolo non è stata perciò un periodo di ‘no quest’, bensì di ‘no biography’» (p. 5).
Il secondo fattore all’origine del paradosso “No Quest” è una certa tendenza a guardare al passato della ricerca con “occhi bultmanniani”, come cioè se Bultmann e bultmanniani fossero stati gli unici attori presenti sul palcoscenico degli studi neotestamentari dell’epoca.
Ma questo, puntualizza Allison, è semplicemente falso, anzitutto relativamente al panorama complessivo della ricerca, ma anche in riferimento allo stesso scenario tedesco.
Fino agli anni ’50, infatti, molti seri ricercatori di area anglofona guardavano ancora alla critica delle forme come ad una “tempesta in una tazza da tè”, ed è solamente a partire da allora che, in tale ambito, ci si cominciò a rendere conto della misura in cui i vangeli riflettono gli interessi dei primi cristiani, così da non poter più nutrire quell’atteggiamento di fiducia, ora visto come un po’ a-critico, che si ritrova in lavori come quelli di T.W. Manson o Vincent Taylor.
Tuttavia – nota Allison - nel momento in cui tale consapevolezza emerse, ecco che era nel frattempo già cominciata la New Quest, il che fa sì che nella scena degli studi di lingua inglese non ci fu mai un periodo di “no quest”.
Lo stesso discepolo di Bultmann e noto (ex)new quester James Robinson, nel suo libro del 1959 A New Quest for the Historical Jesus, riconosceva come la ricerca in area anglosassone e francese fosse andata avanti in modo “relativamente indisturbato e ininterrotto”.
Ma anche in riferimento alla sola Germania – sottolinea Allison - la periodizzazione “First-New-Third Quest” fa sì che venga misconosciuta la portata dei lavori di importanti studiosi non bultmanniani come Ethelbert Stauffer e soprattutto Joachim Jeremias, i cui lavori, quali ad es. Le parabole di Gesù (or. ted. 1947) e Le parole di commiato di Gesù (or. ted. 1ed. 1935, 2ed. 1949) sono ancora oggi fondamentali punti di riferimento, così come – tornando all’area anglofona – Le parabole del regno di C.H. Dodd (or. ing. 1935) o il commentario su Q I detti di Gesù di T.W. Manson (or. ing. 1949).
Allison fa poi notare come l’etichetta New Quest sia insufficiente anche a caratterizzare il panorama degli studi compreso nell’arco di tempo che va tra il 1953 e il 1980, poiché è semplicemente falso che durante tutto questo tempo la sola ricerca su Gesù esistente fosse quella dei new questers (mentre il voler far rientrare di forza in tale etichetta i lavori degli studiosi non post-bultmanniani comporterebbe lo svuotamento di significato dell’etichetta stessa); a riguardo Allison cita le importanti cristologie neotestamentarie di Oscar Cullmann (1957), Ferdinand Hahn (1963) e Reginald Fuller (1965) – “that had much to say about Jesus” – e le teologie del Nuovo Testamento di W.G. Kuemmel (1969), Leonhard Goppelt (1975) e Joachim Jeremias (1971), le quali offrono tutte ampie presentazioni del Gesù storico.
Infine, Allison si dichiara perplesso anche a proposito dell’opportunità di parlare di una Third Quest.
Che cosa, infatti – si domanda l’Autore - separerebbe questa supposta Terza Ricerca dalle ricerche precedenti o dai lavori antecedenti al 1980?” (p. 10).
L’attenzione alle fonti extra-canoniche? Ma alcuni tra i più importanti third questers, come Meier e Sanders, non ne fanno il benché minimo uso! La battaglia contro l’escatologia apocalittica, quale si ritrova nei lavori di Crossan, Borg e Mack? Ma qui non c’è niente di nuovo sotto il sole: la causa era già stata portata avanti ben prima da C.H. Dodd, T.F. Glasson e J.A.T. Robinson.
Si tratta allora, forse, dell’enfasi sul contesto giudaico di Gesù e sul carattere giudaico della sua figura e del suo ministero? Sì, certo, gli attuali studi dedicano molta attenzione a questi aspetti. Tuttavia questi ricercatori non fanno altro che continuare a camminare lungo la strada battuta prima da studiosi come Schlatter, Dalman, Klausner e lo stesso Jeremias.
E’ vero, noi ora non possiamo che guardare alle loro ricostruzioni del giudaismo e al loro uso delle fonti giudaiche come meno sofisticati del nostro, e, pertanto, gli attuali studiosi potranno effettivamente vedere più continuità tra Gesù e il giudaismo di quanta ne vedessero i loro predecessori. Tuttavia, con ciò non ci stiamo inoltrando su un sentiero prima inesplorato, bensì proseguiamo, pur con maggior confidenza e abilità, lungo la medesima strada di prima.
O forse, come sostengono alcuni, si dirà che la Third Quest si distingue chiaramente per l’assenza di qualsivoglia interesse teologico. Ciò è indubbiamente vero per un autore come E.P. Sanders, o anche come lo stesso J.P. Meier, il quale cerca di portare avanti il proprio lavoro attraverso una epoché metodologica radicale rispetto alle proprie convinzioni di fede. Ma lo stesso non si può dire di autori come Marcus Borg e N.T. Wright, in cui gli interessi teologici sono evidenti e, come loro stessi riconoscono apertamente, influenzano o guidano i loro progetti.
Nemmeno si può prendere come indice distintivo l’enorme volume di produzione che caratterizza la Third Quest, poiché semplicemente accade che – per ragioni che non hanno nulla a che vedere con la ricerca sul Gesù storico – vi siano più studiosi di Nuovo Testamento e più editori di quel che essi producono, di quanti ve ne fossero in passato.
Insomma – conclude Allison – “io non sono in alcun modo un’antagonista dell’innovazione; tuttavia non desidero strombazzarla là dove essa non esiste. L’asserzione circa una “Third Quest” sulla quale ci siamo imbarcati, può essere parzialmente dovuta – sospetto – a una certa “snobberia” cronologica, alla sempre presente tentazione - istintiva in un mondo tecnologicamente orientato – di guardare al nuovo come automaticamente migliore, di adulare noi stessi attribuendo alla nostra epoca un significato esagerato.
Non è forse una gran bella cosa credere che le promesse della ricerca passata si siano infine adempiute nel nostro proprio lavoro?
” (p. 14).

LIBRI SU GESU’ SCRITTI IN QUELLA PRESUNTA “NO MAN’S LAND” TRA FIRST E SECOND QUEST: 1907-1953

E.D. Burton, The Life of Christ (1907); William Sanday, The Life of Christ in Recent Research (1907); A.T. Robertson, Epochs in the Life of Christ (1907); James Denney, Jesus and the Gospels (1908); Johannes Weiss, Christus (1909); C.G. Montefiore, Some Elements of the Religious Teaching of Jesus (1910); E.F. Scott, The Kingdom and the Messiah (1911), Paul Fiebig, Die Gleichnisreden Jesu im Licht der rabbinischen Gleichnisse (1912); George Holley Gilbert, Jesus (1912); Wilhelm Heitmüller, Jesus (1913); H.L. Jackson, The Eschatology of Jesus (1913); Paul Wernle, Jesus (1916); T.R. Glover, The Jesus of History (1917); W. Manson, Christ’s View of the Kingdom of God (1918); H.G. Enelow, A Jewish View of Jesus (1921); Adolf Schlatter, Die Geschichte des Christus (1921); F.C. Grant, The Life and Times of Jesus (1921); Gustaf Dalman, Jesus-Jeschua (1922); Burton Scott Easton, Christ and His Teaching (1922); Joseph Klausner, Yeshu ha-Notsri (1922); A.C. Headlam, The Life and Teaching of Jesus Christ (1923); A.H. McNeile, Concerning the Christ (1924); James Moffatt, Everyman’s Life of Jesus (1924); E.F. Scott, The Ethical Teaching of Jesus (1924); Maurice Goguel, Vie de Jésus (1925); B.W. Bacon, The Study of Jesus (1926); Shirley Jackson Case, Jesus: A New Biography (1927); Joseph Warschauer, The Historical Life of Christ (1927); Maurice Goguel, Critique et Histoire (1928); W. Michaelis, Täufer, Jesus, Urgemeinde (1928); Walter E. Bundy, Our Recovery of Jesus (1929); B.W. Bacon, Jesus the Son of God (1930); B.H. Branscomb, Jesus and the Law of Moses (1930); Burton Scott Easton, Christ in the Gospels (1930); P. Feine, Jesus (1930); Joachim Jeremias, Jesus als Weltvollender (1930); Robert Eisler, IHΣOYΣ BAΣIΛEYΣ OY BAΣIΛEYΣAΣ (2 vols. 1929-30); James Mackinnon, The Historic Jesus (1931); T.W. Manson, The Teaching of Jesus (1931); H.D. Wendland, Die Eschatologie des Reiches Gottes bei Jesus (1931); F.M. Braun, Où en est le problem de Jésus? (1932); F.C. Burkitt, Jesus Christ (1932); C.A.H. Guignebert, Jésus (1933); James Stewart, The Life and Teaching of Jesus Christ (1933); Rudolf Otto, Reich Gottes und Menschensohn (1934); C.H. Dodd, The Parables of the Kingdom (1935); Joachim Jeremias, Die Abendmahlsworte Jesu (1935); W.O.E. Oesterley, The Gospel Parables in the Light of their Jewish Background (1936); H.J. Cadbury, The Peril of Modernizing Jesus (1937); P. Couchoud, Jésus (1937); C.H. Dodd, History and the Gospels (1938); P. Gardner-Smith, The Christ of the Gospels (1938); G. Lindeskog, Jesusfrge im neuzeitlichen Judentum (1938); H.D.A. Major, T.W. Manson, and C.J. Wright, The Mission and Message of Jesus (1938); Vincent Taylor, Jesus and His Sacrifice (1938); Martin Dibelius, Jesus (1939), A.T. Cadoux, The Theology of Jesus (1940), W. Grundmann, Jesus der Galiläer und das Judentum (1940); C.C. McCown, The Search for the Real Jesus (1940), Rudolf Meyer, Der Prophet aus Galilaäa (1940); G. Ogg, The Chronology of the Public Ministry of Jesus (1940); C.J. Cadoux, The Historic Mission of Jesus (1941); J. Leipoldt, Jesu Verhältnis zu Griechen und Juden (1941); John Knox, The Man Christ Jesus (1942); W. Michaelis, Der Herr verzieht nicht die Verheissung (1942); Anthony Flew, Jesus and His Church (1943); William Manson, Jesus the Messiah (1943); A.E.J. Rawlinson, Christ in the Gospels (1944); H.B. Sharman, Son of Man and Kingdom of God (1944); W.G. Kümmel, Verheissung und Erfüllung (1945); E.C. Colwell, An Approach to the Teaching of Jesus (1946); F.M. Braun, Jesus (1947); H.J. Cadbury, Jesus: What Manner of Man? (1947); Jean G.H. Hoffmann, Les vies de Jésus et le Jésus de l’histoire (1947); G. Lundström, Guds Rike i Jesu Förkunnelse (1947) ; Johw Wick Bowman, The Religion of Maturity (1948) ; C.J. Cadoux, The Life of Jesus (1948) ; George S. Duncan, Jesus, Son of Man (1948); C.W.F. Smith, The Jesus of the Parables (1948); S.H. Hooke, The Kingdom of God in the Experience of Jesus (1949); E.J. Goodspeed, A Life of Jesus (1950); A.M. Hunter, The Work and Words of Jesus (1950); H.A. Guy, The Life of Christ (1951); J. Finegan, Rediscovering Jesus (1952); T.W. Manson, The Servant-Messiah (1953); Ernst Percy, Die Botschaft Jesu (1953).

[La lista è riportata da: D.C. Allison, Resurrecting Jesus. The Earliest Christian Tradition and its Interpreters, T&T Clark, New Yorl-London, p. 23-25. Allison riporta anche una lista di opere su Gesù uscite nel periodo 1954-79, comunemente visto come dominato dalla New Quest]

P.S. Vorrei aggiungere alle riflessioni di Allison, anche la – molto semplice – osservazione che lo stesso Bultmann, che viene appunto visto come l’emblema stesso della No Quest appartiene invece a pieno diritto (e in positivo!) alla storia della ricerca su Gesù. Egli potrà aver liquidato la ricerca storica su Gesù come inutile dal punto di vista teologico, ma non si è mai sognato di negarne la possibilità stessa in quanto storia!
Come scrive lo stesso Bultmann: “se noi sappiamo poco della vita e della personalità di Gesù, sappiamo invece molto della sua predicazione, tanto che siamo in grado di farcene un’immagine coerente” (Gesù, Queriniana, Brescia, p. 12). L’esegeta e teologo di Marburgo insomma, ben lungi dall’aver indetto “moratorie” di sorta sulla ricerca storica su Gesù, vi ha contribuito egli stesso in modo ancor oggi fondamentale, soprattutto con la sua Geschichte der Synoptischen Tradition (1921); ma anche con il volume Jesus del 1926, e, in misura ancor più ridotta, con la trentina di pagine dedicate alla predicazione di Gesù nella sua Teologia del Nuovo Testamento.

domenica 22 giugno 2008

Attesa imminente ed "errore" di Gesù. Il dato storico e il "problema" teologico.

Vorrei rispondere qui, in “prima pagina”, a una questione postami in un commento al precedente post, quella del carattere problematico dell’attesa escatologica imminente di Gesù.

Con essa si intende il fatto che Gesù guardasse alla venuta del Regno di Dio non solo come a un evento futuro (meno che mai indefinitamente futuro, al punto da inglobare 2000 anni!), oltre che già presente, ma precisamente come un evento futuro IMMINENTE, appunto in quanto ha già fatto irruzione … e quando il fico mette le foglie, l’estate non tarda (meno che mai di 2000 anni).
Ora, questa nota dell’imminenza è un dato assolutamente innegabile della tradizione più antica, e i soli “storici” che la negano a Gesù (attribuendola alla comunità post-pasquale) sono quelli che fanno riferimento al Jesus Seminar. Consultate Meier, Sanders, Theissen, Schlosser e tutti gli altri migliori studiosi del Gesù storico e vedrete l’aspettativa imminente chiaramente affermata.
Lo studioso cattolico Bruce Malina (pioniere dell’applicazione degli studi antropologici a quelli biblici) addirittura afferma che un’ ottica di futuro distante o remoto era semplicemente estranea alle categorie mentali di un contadino mediterraneo, la cui attenzione si concentrava sul presente o, al più, sul futuro concepito come necessariamente imminente.
Ed è questa aspettativa escatologica imminente a cui un bravo teologo come Paolo Gamberini si riferisce quando scrive: “Gesù pensava che Dio nell’immediato futuro avrebbe agito in maniera ancora più profonda, creando cieli e terra nuovi. Avrebbe restaurato le dodici tribù di Israele, e la pace e la giustizia avrebbero prevalso. Gesù non si aspettava dunque una fine del mondo nel senso di distruzione, ma una trasformazione per opera del diretto intervento di Dio secondo lo spirito del Libro dei Giubilei, in cui si fa menzione di un nuovo tempio. La realtà cosmica e celeste, attesa da Gesù, non esclude la risurrezione dei morti” (…) Se da un lato deve essere esclusa una comprensione politica e militare del regno di Dio (messianismo davidico) da un altro bisogna evitare di comprendere il Regno come un semplice riordinamento o svelamento del mondo presente. Dio sta irrompendo ora nel presente, ma di più si sta preparando nel futuro: questo “magis” è di carattere cosmico e sociale e in esso i peccatori e tutti coloro che stanno ai margini troveranno un posto”(P. Gamberini, Questo Gesù, EDB, Bologna, 2005, p. 93).
Questo è il regno di Dio che Gesù ritiene già aver fatto irruzione con la sua stessa persona e ministero, e che sarebbe presto “sbocciato” in tutta la sua pienezza, tanto presto quanto l’estate segue alla comparsa delle foglie del fico: un regno di dimensioni indubbiamente cosmiche e miracolose (risurrezione dei morti, ritorno delle dieci tribù perdute d’Israele), ma anche politiche (romani ed erodiani avrebbero lasciato il posto a una nuova modalità di esercizio del potere - come servizio – i cui rappresentati sarebbero stati i Dodici discepoli di Gesù) e sociali (i peccatori e tutti coloro che vivono ai margini vi avrebbero partecipato e ai primi posti).
Ora, questo Regno, quale Gesù lo concepiva, è semplicemente un fatto che non venne mai.
Ciò che venne è la risurrezione di Gesù stesso (che diede un ulteriore impulso escatologico ai discepoli: “se Gesù è risorto, allora la fine dei tempi è già iniziata!) e la conseguente formazione della Chiesa come “Israele escatologico” ora aperto anche alle Genti (conformemente ad una particolare linea tra le concezioni escatologiche giudaiche).
Ma ciò non è propriamente ciò che Gesù aveva annunciato e si attendeva. Dunque come stanno le cose: Gesù si è sbagliato? Sì? No? Totalmente? In parte? In che senso? E’ un errore grave? Va a contraddire la sua divinità, il suo essere il “rivelatore”? O è solo un errore umano, segno della autenticità e integrità della kenosi e dell’incarnazione del Verbo?
Questi sono interrogativi teologici e io – che, almeno in questo blog, teologo non vorrei essere – lascio dunque la parola a due teologi (Pannenberg – protestante – Rahner - cattolico) e a un biblista (Ben Meyer - cattolico. N.B. Ben Meyer non è John Paul Meier! Si tratta di un eccellente neotestamentarista deceduto nella metà degli anni '90, discepolo dichiarato – in materia di epistemologia – di Bernard Lonergan, ma purtroppo praticamente ignoto in Italia – la sua opera principale è The Aims of Jesus, 1979).

PANNENBERG:
“Non c’è alcun dubbio che Gesù si sia sbagliato annunciando che la signoria di Dio avrebbe avuto inizio nella sua stessa generazione. La fine del mondo non si verificò né nella generazione di Gesù né in quella dei discepoli, i testimoni della risurrezione. Qui ci troviamo di fronte al noto problema del ritardo della parusia, il problema dei duemila anni da allora trascorsi senza che giungesse la fine del mondo e la signoria universale di Dio.
L’aspettativa imminente di Gesù non rimase, tuttavia, incompiuta. Trovò compimento nel solo modo secondo cui sia possibile parlare del compimento di proclamazioni e promesse profetiche, ossia, in modo tale che il senso originale della profezia venga rivisto a partire da un evento che corrisponde ad essa, ma nondimeno presenta un carattere più o meno differente rispetto a ciò che poteva essere conosciuto dalla profezia stessa. Il messaggio pasquale cristiano testimonia questa modalità di adempimento dell’aspettativa imminente di Gesù. Essa fu compiuta da lui stesso, nella misura in cui la realtà escatologica della risurrezione dei morti comparve in Gesù stesso”.
(W. Pannenberg, Jesus – God and Man, SCM Press, London, 2002, p. 251 - traduzione mia)

RAHNER:
“Il suo rapporto verso Dio dato a lui e (solo) in lui, Gesù lo oggettiva e lo verbalizza per sé e per I suoi uditori mediante quell ache viene detta apocalittica, attesa prossima ed escatologica del presente.
(…) Se uno trascura la questione lasciata aperta da Gesù circa il senso ultimo del “presto” del veniente giorno di JHWH (…) allora egli può parlare di un “errore” nell’attesa prossima nutrita da Gesù, il quale in questo “errore” avrebbe solo condiviso il nostro destino, perché per l’uomo storico, e dunque anche per Gesù, è meglio “errare” così piuttosto che essere già a conoscenza di tutto. Se però presupponiamo e conserviamo l’esatto concetto ontologico-esistenziale di “errore”, non c’è motivo di parlare di un errore di Gesù nella sua attesa prossima: una coscienza autenticamente umana deve avere davanti a sé un futuro ignoto. L’attesa prossima nutrita da Gesù era per lui il vero modo nel quale egli doveva cogliere nella sua situazione la vicinanza di Dio chiamante a una decisione incondizionata.
(K. Rahner, Corso fondamentale sulla fede, San Paolo, Cinisello Balsamo, 1990, p. 324-25)

BEN MEYER:
“Ci sono alcune caratteristiche distintive ricorrenti nella profezia biblica (…). Appartiene al fenomeno della profezia biblica che messaggi riguardanti il futuro siano espressi in simboli (…). La sua [di Gesù] parola sul futuro prevedeva un dramma, simbolicamente caratterizzato, in due atti di crisi e risoluzione. La crisi era la tribolazione escatologica inaugurata dal suo stesso ripudio e dalla sua sofferenza. La risoluzione era il giorno del Figlio dell’uomo che avrebbe posto fine alla tribolazione con il trionfo del regno di Dio.
La tesi che propongo fa leva sulla natura della profezia. Nella profezia, ciò che viene inteso con il simbolo, è ciò che Dio, in nome del quale il profeta parla, intende. Ciò evidentemente non fa mai ingresso negli orizzonti e nelle prospettiva del profeta sotto la forma di conoscenza determinata del futuro. La questione “Gesù si sbagliò riguardo al futuro?” dovrebbe pertanto essere riformulata nella seguente: “Gesù aveva una conoscenza determinata di ciò che Dio intendeva mediante lo schema simbolico che Gesù era incaricato di annunciare?”. La risposta a questa questione sembra essere abbastanza chiaramente: no.
(…) Perché mai dovremmo pensare della profezia, nella misura in cui riguarda il futuro, come un tipo di conoscenza empirica per anticipazione? Nulla nella letteratura profetica suggerisce che la conoscenza profetica abbia questa natura. Non dovremmo immaginare in modo “naif” che qualunque profeta abbia mai avuto davanti al suo sguardo interiore quel genere di scenario che la storia potrebbe poi letteralmente seguire. (…) Tutta la profezia parla nella lingua del simbolo. C’è una irriducibile disparità tra questa lingua e e gli eventi effettivi. Tale disparità non è descritta correttamente come “errore”. Nessuno dei profeti si è sbagliato, meno che mai il più grande di essi.
(B. Meyer, Christus Faber. The Master-Builder & the House of God, Pickwick Publications, Allison Park,1992, p. 54-56 - traduzione mia)

[Sul problema dell' "attesa imminente" si può inoltre consultare la decina di pagine che ad esso dedica Heinrich Fries - il grande "padre" della teologia fondamentale cattolica -, nella sua Teologia fondamentale (Queriniana, Brescia, 1987 - volume purtroppo esaurito). Fries, tra le altre cose, cita (evidentemente approvandolo) un brano di Essere cristiani di Hans Kung, dove si dice "Gesù parlò in modo ovvio all’interno di una cornice di riferimento apocalittica e nelle forme concettuali del suo tempo. Questa cornice di comprensione è stata resa obsoleta dallo sviluppo storico, l’orizzonte apocalittico è svanito – questo deve essere chiaro. Dalla prospettiva del nostro tempo, dobbiamo dire: circa la questione dell’attesa imminente, si ha meno a che fare con un errore che con un modo temporalmente condizionato di guardare al mondo, che Gesù condivideva con i suoi contemporanei".]

E io?
Io diciamo che inclino verso Pannenberg.
Tuttavia trovo accattivante la pista di soluzione rahneriana, secondo cui l'attesa imminente, propria dell'apocalittica, fatta propria da Gesù, sarebbe una traduzione categoriale, secondo appunto le categorie culturali di cui egli poteva disporre, della sua costituzione ontologica profonda, totalmente relativa al Padre. Non solo un Dio-Abbà, dunque, ma un Dio-Abbà che, proprio perché tale, non può fare altro che venire presto, prestissimo.


P.S. per Lypocodium: nei commenti del post precedente ho appena aggiunto la risposta alla questione dell' "insight" di Gesù.

mercoledì 18 giugno 2008

Lettera aperta a un vescovo di Spagna. Quando ad essere scomunicata è la storia.

Due post fa, ho evidenziato come la teologia cattolica stia sostanzialmente recependo i contributi di quella corrente di studi che, benché in modo non troppo significativo, viene denominata “Third Quest”.
Ora, ciò che ho messo in luce in quel post è e rimane vero.
Ad es., sto leggendo l’introduzione alla cristologia del padre gesuita Thomas Rausch, Who is Jesus? Liturgical Press, Collegeville, 2003 (opera decisamente divulgativa, ma proprio per questo significativa), e non posso fare a meno di stupirmi piacevolmente dell’ampio spazio che l’Autore dedica alla presentazione storica del contesto giudaico, del movimento di Gesù in connessione con quello di Giovanni e del ministero vero e proprio di Gesù … e tutto questo – udite udite! – senza dedicare neanche un paragrafo alla più classica delle questione cristologiche: i “titoli” di Figlio di Dio, Figlio dell’uomo, Messia.
Tuttavia è con grande amarezza e preoccupazione che devo riferire di un importante e grave caso in controtendenza con quanto ho esposto. Un caso in cui, per la verità, non si tratta nemmeno di recepire o rifiutare la “Third Quest”, bensì in cui ad essere in gioco è la legittimità tout court della ricerca storica su Gesù.
Mi sto riferendo alla sconcertante polemica in atto in Spagna contro il libro del sacerdote e professore José Antonio Pagola: Jesus. Aproximacion historica (Ppc, Madrid, 2007, pag. 540).
Non si tratta semplicemente di un caso analogo a quello che qui da noi ha visto studiosi ecclesiastici come Cantalamessa e De Rosa criticare aspramente il lavoro di Mauro Pesce e Corrado Augias.
Finché infatti si tratta di critiche di semplici studiosi – non importa quanto ecclesiasticamente rappresentativi - , va benissimo: nessuno contesta ad un biblista o a un teologo il diritto di essere in disaccordo con il lavoro di uno storico. Grave, anzi gravissimo, sarebbe tuttavia se la critica provenisse non più da un biblista o da un teologo privato, bensì da un vescovo, ossia dal massimo grado di autorità esistente nella Chiesa.
Ebbene, purtroppo, questo è proprio ciò che è avvenuto in Spagna grazie al vescovo di Tarazona mons. Demetrio Fernandez. Ex-docente di cristologia all’Istituto Teologico di Toledo, Fernandez ha ritenuto di dover ricorrere addirittura ad una nota ufficiale pur di mettere al sicuro le pecorelle della sua diocesi “piccola e umile, che vive, come tutte, influenzata dai fenomeni di massa, tante volte provocati con grande apparato mediatico” dalle sottili insidie del libro di Pagola che (con ben otto edizioni nei soli primi sei mesi!) rischia di seminare confusione e di arrecare un considerevole danno, specialmente alla fede dei più semplici. “Il libro di Pagola farà danno” – così s’intitola, significativamente, la nota del vescovo iberico.
Ma perché mai farà danno? Cosa c’è di così pericoloso e inaccettabile nel lavoro del professore e sacerdote della diocesi di San Sebastian? Essenzialmente questo: che “il Gesù di Pagola non è il Gesù della fede della Chiesa”.
Mons. Fernandez vede il tentativo di Pagola guastato dalla tecnica della demitizzazione promossa da Bultmann, e fatta propria - afferma - da diversi altri autori, come Schillebeeckx e Sobrino; si tratta, in sostanza, di “applicare acriticamente il metodo storico-critico (in sé stesso valido, ma con i suoi limiti) selezionando quello che quadra con l’a-priori che uno si è formato”.
Secondo il Vescovo di Tarazona, “lungo questa via possiamo presentare un Gesù a nostra misura e a nostro gusto, e farlo per di più con gli argomenti della critica storica. Tuttavia questo Gesù deve sottomettersi criticamente alla fede della Chiesa. Detto chiaramente, in questo modo si presenta un Gesù nel quale si selezionano alcuni tratti, se ne ampliano altri, se ne sopprimono molti, senza nessun riferimento alla fede della Chiesa che in maniera viva ci ha trasmesso lungo il corso dei secoli il Gesù Cristo autentico, l’unico che può salvare”.
Il libro di Pagola è quindi colpevole di un “silenzio totale sulla riflessione che la Chiesa ha realizzato nel corso della storia, in modo particolare nei sette concili ecumenici della Chiesa indivisa durante il primo millennio. E’ come se la Chiesa avesse adulterato il messaggio e dovessimo così raggiungere le fonti più pure per incontrare di nuovo il Gesù perduto – e tutto questo con il pretesto della storicità”.
Secondo mons. Fernandez, nel corso dell’opera appare continuamente la grande “tentazione ariana” con cui Gesù viene ridotto ad un uomo sì eccezionale, ma non consustanziale al Padre.
Di fronte a tentazioni del genere, Fernandez sente il dovere di riaffermare a chiare lettere che, a dispetto dei silenzi di Pagola [sottolineo: silenzi, non negazioni!] “Gesù sapeva di essere Dio” e che “ha avuto coscienza della sua morte redentrice”, offrendo la sua vita in riscatto per tutti e come riparazione all’offesa arrecata a Dio dal peccato.
Infine, il vescovo di Tarazona, rinvia le proprie pecorelle ad una serie di più ampie e altrettanto distruttive recensioni del libro di Pagola, scritte da vari teologi e ospitate in una apposita sezione del sito della diocesi.
Quella del docente di cristologia José Antonio Sayes, ad es., riprende e amplia la linea critica del Vescovo, allorché rimprovera Pagola rammentandogli che “ciò che deve fare un teologo non è eliminare i dati della Scrittura e della Tradizione. Così non si fa teologia” e denunciando come “la categoria che domina questa gesuologia (e non cristologia) è quella di una “esperienza” immanentista priva di capacità di confessare che il Verbo, seconda persona della Trinità, è entrato veramente nella storia per divinizzarci in Cristo e liberarci dalla schiavitù del peccato”.
[annoto anche che Sayes, oltre ad affermare cose del tipo che il metodo della “cristologia implicita”, da Pagola non utilizzato, porterebbe a riconoscere che Gesù “si presenta come Dio costantemente” – mettendo così sottosopra il concetto di cristologia implicita e rendendolo una farsa - o a richiamarsi tranquillamente a detti giovannei come testimonianza della coscienza di Gesù della propria divinità, riesce persino nell’impresa di sostenere che “Gesù Cristo si mostra come Dio quando afferma di sé stesso di essere il Figlio dell’uomo che viene sopra le nubi del cielo”, stuprando così il concetto di “Messia sovrumano” – indipendentemente dalla questione della sua gesuanità - con buona pace degli enochici (cf. il Libro delle Parabole, in cui Enoc viene identificato come il Figlio dell’uomo) ].

Ora, a mons. Fernandez e ai "suoi" teologi, io vorrei chiedere soltanto una cosa: PERCHE’?
Perché questa consapevole falsità e menzogna nel denunciare, nello stroncare e nel bandire un libro per ciò che esso NON E’ ? Diteci, ve ne preghiamo, perché mai uno studioso – sacerdote o laico che sia – che volesse scrivere un libro su Gesù da un punto di vista rigorosamente STORICO, perché mai costui dovrebbe essere tenuto a fondare la propria ricostruzione sulla dottrina ecclesiale, perché mai dovrebbe svolgere il proprio lavoro in riferimento ai sette concili ecumenici della Chiesa indivisa, perché mai dovrebbe sottomettere criticamente alla fede della Chiesa il Gesù STORICO che egli riesce a raggiungere?
Diteci per quale assurda ragione uno storico deve veder stroncato il proprio libro con il rimprovero che “così non si fa teologia” (!!) e sentirsi accusato per una metodologia incapace di “confessare che il Verbo, seconda persona della Trinità, è entrato veramente nella storia”.
Perché, reverendi studiosi e monsignori, state rinnegando in un solo colpo quarant’anni e più di dialogo e sinergia della teologia cattolica con il metodo storico-critico? Perché volete insegnare e ammonire i vostri fedeli che il tentativo di accostarsi a Gesù secondo da una prospettiva storica è illegittimo e incompatibile con la fede?
Perché volete negarci la possibilità di distinguere – non separare! – il Gesù della storia dal Cristo della fede? Perché volete ricondurre i vostri fedeli in uno stato di minorità, impedendo loro di fare storia secondo i criteri e i metodi propri della disciplina storica e comunemente in uso?
Che cos’è – vi prego di spiegarcelo - questo metodo storico che, per essere serio e scientifico, dovrebbe non prescindere dalla fede? Che cosa volete dire con ciò? Che non è possibile guardare alla fede depositata nei testi neotestamentari pregiudizialmente, come a una distorsione e falsificazione del messaggio di Gesù? Se è questo che intendete, sono certamente d’accordo.
Ma è veramente solo questo che volete dire, o, come mi sembra, state avanzando una pretesa molto diversa e di ben altra portata: che cioè non sia possibile accostarsi al Gesù storico prescindendo dalla fede della Chiesa, quale è andata sviluppandosi nella tradizione e nei grandi concili – è questo dunque che state suggerendo?
E allora avanti, coraggio, scrivetecela direttamente voi, dettatela direttamente voi agli storici, “dall’alto”, questa storia di Gesù!
Questo Gesù di cui non si può dire che attendesse il Regno di Dio, e che guardasse ad esso come alla soluzione per la crisi sociale e politica del suo tempo, per il semplice fatto che il regno di Dio non era nient’altro che lui stesso, l’autobasileia; questo Gesù di cui non si può dire – come fa Pagola – che fu “un credente fedele”, poiché egli sapeva benissimo di essere Dio, la seconda persona della Trinità discesa sulla terra per espiare i peccati degli uomini; questo Gesù di cui non si può dire che fosse un profeta ebreo con la missione di radunare e restaurare Israele nella imminente e già sopraggiunta ora escatologica, poiché egli era venuto invece a fondare la Chiesa, fornendole perfino l’ordinamento giuridico necessario per la sua futura millenaria esistenza (alla faccia dell’eschaton).
Perché, perché fate questo? Sì, lo sappiamo benissimo che “i semplici” potrebbero sentirsi smarriti e turbati, trovandosi tra le mani un libro semplicemente storico su Gesù; e questo perché essi non hanno mai nemmeno immaginato che il Gesù risorto, glorificato e dogmaticamente definito che essi adorano (e che è certo reale e vero!) potesse non essere sic et simpliciter il Gesù che camminava per le vie della Galilea. E so benissimo che non è semplice spiegarlo, anzi è un lavoro ingrato.
Ma voi che fate? Vi tirate indietro? Non ci provate nemmeno a raccogliere la sfida che questi tempi vi pongono? Perché? Pensate forse che Dio vi abbia abbandonati, che non cammini più insieme al suo popolo, che lo Spirito abbia esaurito il suo soffio?
Davvero pensate che l’unica soluzione sia emettere documenti ufficiali con cui rassicurare i più semplici tra i figli della Chiesa che il Gesù della fede coincide perfettamente con il Gesù della storia, condannando invece quei figli che sono un po’ meno semplici, e osano fare delle distinzioni, a passare per eretici dentro le mura di casa e per imbecilli al di fuori (in quanto pur sempre pecore di tali pastori) ?
E’ davvero questa la strada giusta?

P.S. per chi non si fosse imbattuto nel libro di José Antonio Pagola – come ritengo probabile, anche se immagino verrà tradotto ben presto anche da noi - specifico che si tratta di un’opera divulgativa, ma molto ben scritta (come riconoscono anche i detrattori – e, del resto, si fa così anche con Crossan), che si muove su un piano rigorosamente storico, rifacendosi ai risultati prodotti dai lavori di tutti i più importanti studiosi degli ultimi vent’anni.
Come ho detto, si tratta di un lavoro divulgativo: quasi mai si vede l’Autore impegnarsi personalmente nel dimostrare qualche tesi o nell’analizzare criticamente questa o quella tradizione; da questo punto di vista, Pagola è un ordinato compilatore dei risultati prodotti dalla più recente ricerca, selezionati e valorizzati attraverso quella che è la lente principale attraverso cui Pagola guarda Gesù: la dimensione di giustizia sociale della vicenda di Gesù e del Regno di Dio da lui annunciato.
[personalmente trovo che l’accento sociale sia effettivamente calcato un po’ troppo rispetto a quello che io trovo essere il punto veramente centrale e fondante dell’annuncio di Gesù: l’escatologia imminente. Ma questo non è un gran problema].
In realtà, pur muovendosi, come ho detto, all’interno di un piano rigorosamente storico (benché in modo divulgativo), lo sguardo che Pagola getta a Gesù non è sempre quello neutrale del “puro storico” (alla Sanders) bensì uno sguardo con una certa sensibilità teologica, all’interno del quale la personalità, il comportamento e la vicenda di Gesù vengono evidenziate come modello di esistenza cristiana.
Infatti - scrive l’Autore nell’introduzione - “Non basta confessare che Gesù è l’incarnazione di Dio se poi non ci si preoccupa di sapere com’era, cosa viveva o come agiva quest’uomo nel quale Dio si è incarnato. A poco serve difendere dottrine sublimi su di lui, se non camminiamo sui suoi passi” (p. 7).
Tuttavia questa sorta di “dimensione teologica” latente nel libro (ma in modo discreto), e che probabilmente ne ha decretato pure il successo, non dà assolutamente a luogo ad alcuno spunto polemico contro la dottrina cristologica tradizionale della Chiesa.
Ed è proprio questo che rende davvero assurde le critiche del Vescovo Fernandez & Co.: Pagola si muove semplicemente al di qua della prospettiva cristologica, senza mai trarre dalla sua esposizione storica implicazioni dogmatiche di sorta, esattamente come dovrebbe fare ogni storico serio, qualunque sia la sua fede o non fede personale. Perché dunque questa “scomunica” contro Pagola, e non invece contro – fatte le debite proporzioni - Un ebreo marginale di J.P. Meier?

P.P.S. La "carta pastoral" contro il libro di José Antonio Pagola, pubblicata da mons. Fernandez, vescovo di Tarazona, può essere letta al seguente link: http://www.diocesistarazona.org/otros/dfp2.pdf.
Qui invece si possono trovare le altre recensioni di altri tre teologi (Rico Paves, Sayes, Iraburu) e del vicario episcopale di Valladold (Arguello): http://www.diocesistarazona.org/Recensiones%20Libro%20de%20Pagola.htm.
Infine, nell'ultimo numero della rivista internazionale di teologia Concilium "Gesù come il Cristo - nel crocevia delle culture" (3/2008), il teologo José Ignacio Gonzalez Faus si sofferma sul "caso Pagola" all'interno del suo articolo "Conflitti cristologici col magistero", che può essere letto qui http://www.queriniana.it/PDF/CNC031611.pdf (nel medesimo numero di Concilium, vi è anche una bibliografia fondamentale sul Gesù storico, curata dallo stesso Pagola).

mercoledì 11 giugno 2008

Ma la Third Quest esiste?

Ma la Third Quest esiste?
Sono d’accordo con Piccolo Zaccheo sul fatto che, fondamentalmente, non è mai esistito nulla come una First, Second e Third Quest. Ciò che è esistito sono solo lavori storici più o meno accomunati, di volta in volta, da certi metodi, criteri, presupposti. First, Second e Third Quest sono soltanto categorie storiografiche utili a livello introduttivo per un orientamento generale, per cogliere una serie di punti fondamentali, ma spesso inadeguate e inservibili non appena si va un po’ più a fondo.
Personalmente, cerco di evitare il più possibile di impiegare l’etichetta “Third Quest”. L’ho fatto nel post precedente, perché comunque ci sono persone che utilizzano tale etichetta, e, nella misura in cui si dialoga con loro, è possibile ricorrervi. Nonostante ciò, io ritengo che, specialmente nel modo spesso impreciso con cui viene impiegata dagli stessi studiosi, la categoria “Third Quest” sia poco utile se non proprio inservibile.

Che cosa è infatti “Third Quest”, quali sono i punti salienti di questa presunta corrente?

1) Mancanza di interessi teologici. Gli studi sul Gesù storico che vanno sotto l’etichetta di “Second Quest”, pur essendo in sé stessi di tipo storico, nascevano a partire da una prospettiva teologica, quella per cui, a partire da Kaesemann, si va retrospettivamente alla ricerca della dimensione storica racchiusa nel Kerygma. In sostanza, la “Second Quest” aveva un’origine teologico-fondamentale. Al contrario, la “Third Quest”, anche quando è rappresentata da studiosi confessionali e perfino ecclesiastici, non è mossa da alcun interesse teologico, è solo e unicamente pura storia. Questo sembra effettivamente essere il caso dei lavori di autori – solo per fare due o tre nomi - come Sanders, Fredriksen, e anche Meier. Tuttavia vi sono ancora studiosi, come Witherington, Penna, Dunn e Schlosser, che continuano a mantenere una certa prospettiva teologica “retrospettiva”, nella misura in cui si propongono di andare alla ricerca della “cristologia di Gesù” e di individuare la sua autoconsapevolezza (che è appunto un interrogativo tipicamente di origine teologica).

2) Considerazione positiva del Giudaismo del Secondo Tempio. Anche gli autori della Second Quest, ovviamente, interpretavano Gesù in relazione al suo ambiente giudaico, tuttavia questo assolveva non di rado la funzione di “fondo scuro” su cui far risaltare la novità di Gesù. Da questo punto di vista, Sanders ha effettivamente rappresentato un punto di cesura nella storia della ricerca, mettendo fine a tutta una serie di caricature del Giudaismo, e affermando la necessità di guardare al Giudaismo del Secondo tempio come al contesto positivo (e non negativo) grazie al quale (e non contro il quale) comprendere Gesù.

3) Ridimensionamento, riformulazione o abbandono del criterio di dissomiglianza. Questa è semplicemente l’altra faccia della medaglia del punto di cui sopra. La precedente accentuazione del criterio di dissomiglianza (appartiene sicuramente al Gesù storico solo ciò che è dissimile e non derivabile dal Giudaismo del suo tempo e dalla predicazione della chiesa primitiva) come principio a partire dal quale cominciare la ricostruzione del Gesù storico (cf. Norman Perrin), faceva necessariamente apparire Gesù come un essere fondamentalmente eccentrico ed estraneo rispetto al proprio ambiente, così da ottenere, in sostanza, un “Gesù contro il giudaismo” piuttosto che un “Gesù nel giudaismo”. Al contrario, la “Third Quest” si caratterizza per A) un ridimensionamento o abbandono del criterio di dissomiglianza come criterio “guida”, in favore della costruzione di un ipotesi generale che inserisca positivamente Gesù nel giudaismo del suo tempo, e che renda ragione al contempo degli esiti peculiari della sua predicazione (la nascita del proto-cristianesimo), come accade nei lavori di Sanders, Fredriksen, Allison, Wright. B) la riformulazione del criterio di dissomiglianza in un criterio di plausibilità contestuale, attraverso il quale le tradizioni gesuane vengono considerate nella loro conformità al contesto giudaico e, al contempo, nella loro relativa specificità rispetto ad esso (cf. Theissen).

4) Abbandono o ridimensionamento di una considerazione “atomistica” del materiale evangelico. Diversi esponenti della Third Quest non procedono più mediante un’analisi “tradizione per tradizione”, con cui i diversi loghia vengono passati al setaccio dei vari criteri e, laddove possibile, ricondotti alla loro ipotetica forma primitiva. Esempi eclatanti di questo abbandono dell’ “approccio atomistico” sono i lavori di Sanders, Fredriksen, Allison e Wright. Tuttavia un esponente eccellente della Third Quest quale John Paul Meier procede proprio mediante un’analisi a dir poco “pachidermica” dei singoli detti, e – da una prospettiva totalmente diversa - abbiamo il Jesus Seminar con la sua ricerca dei detti e fatti autentici di Gesù (cf. The Five Gospels), o anche un Crossan, il quale imposta il suo lavoro su una scrematura generale di tutto il materiale gesuano attraverso una ben precisa (ma anche molto contestabile) stratificazione delle (assai numerose) fonti, congiuntamente al criterio di molteplice attestazione (con la discutibile implicazione di escludere a-priori tradizioni che potrebbero tranquillamente soddisfare criteri come quello di dissomiglianza o di plausibilità contestuale e quello di imbarazzo,qualora queste siano attestate da una sola fonte indipendente).

5) L’impiego di una vasta gamma di fonti per la ricostruzione del Gesù storico. John Dominic Crossan è certamente l’emblema più eclatante di questa nuova tendenza della ricerca, che, qui in Italia, è stata ben recepita (benché non sulla stessa linea complessiva di Crossan) da Mauro Pesce. Persino in un libro sostanzialmente di orientamento conservatore e di taglio divulgativo come quello di Armand Puig i Tarrech è possibile imbattersi in numerose citazioni dei vangeli di Tommaso, di Pietro ed altri ancora. Il vangelo di Tommaso viene considerato da alcuni autori (vedi Patterson) come addirittura la fonte principale per la ricostruzione del Gesù storico insieme all’ipotetico strato primitivo sapienziale di Q. Da altri, viene semplicemente tenuto in considerazione come possibile fonte di alcune tradizioni indipendenti rispetto a quelle sinottiche. Altri ancora, tuttavia, come Meier, negano che Tommaso, e tutti gli “apocrifi” in genere, possano contenere tradizioni indipendenti di qualche valore per lo studio del Gesù storico.

6) L’impiego delle scienze sociali e antropologiche. Molti autori contemporanei fanno abbondante uso dei metodi e dei risultati delle scienze sociali e antropologiche (fondamentali in tal senso i lavori di autori come Bruce Malina, Richard Rohrbaugh, Denis Duling e del Context Group in genere). Crossan ricorre a piene mani all’antropologia culturale, Theissen e Horsely sono gli esempi migliori e più noti dell’applicazione della sociologia allo studio del Gesù storico, e anche in uno studioso “classico” come Dale Allison possiamo notare il ricorso centrale al paradigma “millenaristico” per interpretare la figura di Gesù. Anche in Italia è arrivato un importante esempio di tale linea della ricerca: il volume “Il nuovo Gesù storico”, a cura di B. Malina, W. Stegemann e G. Theissen, edito da Paideia. Tuttavia molti autori continuano a fare ricerca in modo sostanzialmente indipendente dagli studi sociologici e antropologici, ad es. Sanders, Wright, Meier, Schlosser.

In conclusione, sebbene questi sei punti caratterizzino effettivamente in modo significativo il complesso delle opere sul Gesù storico apparse negli ultimi venti-venticinque anni, tuttavia è evidente che nessuno di essi è effettivamente oggetto di un vero e proprio consenso. Se definiamo la Third Quest - come sarebbe corretto fare a partire da come viene definita da colui che ha inventato l’etichetta stessa, ossia N.T. Wright – in relazione alla tendenza a vedere Gesù positivamente all’interno del Giudaismo del Secondo Tempio, è necessario escludere autori come Crossan, Patterson, Mack, Downing e il Jesus Seminar in genere, per i quali la giudaicità di Gesù è di portata marginale (Crossan) o perfino nulla (Mack).
E, ripeto, escludere questa linea di studiosi dalla corrente “Third Quest” è in effetti corretto e doveroso; peccato però che siano molti tra gli stessi studiosi (e non solo qualche approssimativo divulgatore) a inserire nella Third Quest autori come Crossan e Borg (ma Borg in effetti – come riconosce anche Wright – sotto certi aspetti ci può stare), e dal momento che questa inclusione di Crossan e dello stesso Jesus Seminar nella Third Quest si è fatta tutt’altro che rara, è necessario domandarsi quanto sia effettivamente utile l’impiego di tale etichetta storiografica.
E anche le altre divergenze (soprattutto: ipotesi complessiva VS studio atomistico dei logia; ampio ventaglio di fonti VS limitazione sostanziale ai vangeli canonici; ricorso alle scienze sociali e antropologiche VS impiego del metodo storico-critico “classico”) contribuiscono a rendere ulteriormente approssimativo l’impiego del comun denominatore “Third Quest”.