giovedì 31 luglio 2008

Quel che penso del Figlio dell'uomo (o meglio...quel che pensavo!)

Quando ho iniziato a confrontarmi con l'intricata questione dei detti sinottici sul Figlio dell'uomo, ero dell'opinione che ad essere nel giusto fosse, sostanzialmente, la "scuola" che sosteneva l'autenticità dei detti apocalittici sulla venuta futura del F.d.U., e l'origine secondaria e comunitaria di tutti gli altri (F.d.U. sofferente, F.d.U. che ha autorità nel presente). In sostanza, si trattava di dare ragione ad autori come Bultmann, Tödt, Fuller, Higgins, Yarbro Collins, Becker. In realtà non ero così convinto che Gesù veramente attendesse il F.d.U. come se si trattasse di un personaggio celeste che avrebbe portato la salvezza definitiva (da questo punto di vista, avrebbero ragione i Vielhauer e i Conzelmann ad osservare che la "soteriologia" del Regno - già presente - propria di Gesù, non ammette spazio per un ulteriore figura di redentore futuro), e pensavo quindi che avesse ragione Becker a sostenere che, più che una figura vera e propria, "Figlio dell'uomo" era impiegato da Gesù come "simbolo" per indicare il giudizio (Becker si riferisce in particolare a Lc 12,8 e Lc 17,26-30).
Ora, la tesi di Becker non ha smesso di convincermi. Tuttavia ho cominciato a inquadrarla entro una più ampia tesi - di tradizione inglese - che guarda al Figlio dell'uomo nei detti di Gesù come ad un simbolo corporativo (conformemente allo stretto legame tra "uno come un figlio d'uomo" e il "popolo dei santi dell'Altissimo" in Daniele; vedi anche quello tra il F.d.U. come "eletto" e gli "eletti" in 1Enoch) con cui Gesù poteva esprimere il destino, di sofferenza prima e di giustificazione e conferimento del potere poi, che attendeva lui e il suo gruppo. Ciò mi ha condotto alle seguenti conclusioni:

1) la possibile autenticità di Mc 9,31: "Il Figlio dell'uomo è consegnato nelle mani degli uomini, e lo uccideranno, e ucciso, dopo tre giorni risorgerà" (difendibile del resto anche per altre vie: Maurice Casey pensa che "F.d.U." fosse solo un'espressione generica, che nulla aveva a che fare con la visione di Daniele, ma difende nondimeno con forza l'autenticità del detto).
Esso esprimerebbe, appunto, il destino di sofferenza e di tribolazione (cf. Mt 11,12: il regno soffre violenza; Mc 10,38: Gesù e discepoli devono ricevere un "battesimo" e bere un "calice" (della morte); Mc 8,35: seguire Gesù può significare perdere la vita; Lc 12,49,50: Gesù porta un fuoco sulla terra ed è angustiato finché non riceve un "battesimo"; Thom. 82: essere vicini a Gesù, è essere vicini al fuoco...ma chi sceglie di stargli lontano, si allontana oltre che dal fuoco, anche dal Regno) che attende Gesù e il suo gruppo, prima che Dio li vendichi (come i santi dell'Altissimo) conferendo loro il regno e il giudizio (Lc 12,32: il piccolo gregge riceverà il regno; Lc 22,28.30: i discepoli siederanno su troni - cf. i troni in Dn 7 - a giudicare le 12 tribù di Israele).

2) La visione del F.d.U. che viene sulle nubi non era intesa da Gesù letteralmente: egli si riallacciava all'immagine danielica come simbolo per esprimere il destino del suo gruppo. Il "venire sulle nubi" non è anzitutto un discendere dalla terra al cielo, bensì un ascendere verso il trono alla destra di Dio, il che è a sua volta il simbolo visionario per indicare il conferimento del regno e del giudizio al proprio gruppo, nell'ambito di una escatologia di restaurazione d'Israele.
Ciò mi induce, molto a malincuore, a dar ragione - ma solo su questo preciso punto! - a N.T. Wright che nei suoi libri argomenta in continuazione che né Gesù né i suoi uditori si sarebbero mai sognati di concepire qualcosa di così "crassamente letteralistico" come un essere celeste che scende sulla terra cavalcando le nuvole: essi sapevano invece riconoscere una buona metafora, quando ne vedevano una. Specifico però che su tutto il resto Wright ha rigorosamente torto.

3) Contrariamente a proponenti di questa interpretazione "corporativa" del F.d.U., come Morna Hooker, non sono però convinto che si possano salvare i detti sull' "autorità del F.d.U. nel presente: Mc 2,10 (il F.d.U. ha potere di perdonare i peccati sulla terra) e Mc 2,28 (il F.d.U. è signore del sabato). Ritengo che qui ci sia lo "zampino" della comunità primitiva. Ma non è questa la sede per argomentarlo.

Qual è il punto forte di questa tesi? Beh, se il Figlio dell’uomo non è altro che un simbolo per indicare la consegna del Regno e del giudizio da parte di Dio al gruppo di Gesù, allora i detti sul F.d.U. si armonizzano alla perfezione con i detti sul Regno: i due principali filoni della tradizione sinottica che, tuttavia, non comparendo praticamente mai insieme, avevano indotto qualcuno (Philipp Vielhauer) a pensare che soltanto uno dovesse essere originario e l’altro (quello del F.d.U.) secondario. Ma, come si vede, quello di Vielhauer è un aut-aut mal posto: Figlio dell’uomo e Regno di Dio sono le due facce della stessa medaglia (con il Figlio dell’uomo che rappresentava, forse, la “cifra” centrale dell’auto-identità del gruppo di Gesù).

Seguono ora le due citazioni (una cortissima e una lunghissima) che mi hanno instradato verso questa tesi.


R. PENNA, I ritratti originali di Gesù il Cristo, San Paolo, Cinisello Balsamo, 1996, p. 143

“Mi sento quindi vicino a M.D. Hooker, The Son of Man in Mark, London, 1967, pp. 174-198, che aggiunge all’espressione una dimensione corporativa (cfr. l’identificazione danielica tra il figlio dell’uomo e il popolo dei santi dell’Altissimo): Gesù si presenterebbe come il nucleo della comunità dei giusti ed eletti, e in quanto tale lascia aperta la strada a chi è pronto ad unirsi a lui”

DALE C. ALLISON Jr., Jesus of Nazareth. Millenarian Prophet, Fortress, Minneapolis, 1998, pp. 65-66

“L’interpretazione collettiva del “Figlio dell’uomo” nella tradizione su Gesù era un tempo popolare presso gli esegeti britannici (ad es. J.R. Coates, A.T. Cadoux, T.W. Manson, C.J. Cadoux, C.H. Dodd, il tardo Vincent Taylor) ma ha perso credito negli ultimi tempi (sebbene Morna Hooker e C.F.D. Moule l’abbiano ancora promossa). Essa merita di essere riesaminata:
1) Se Gesù non utilizzò “il Figlio dell’uomo” come un auto-designazione esclusiva, si spiegherebbe perché, al di fuori della tradizione su Gesù, il termine non divenne mai un titolo cristologico.
2) In generale, molti detti su Gesù hanno in vista ciò che Gerd Theissen chiama Gruppenmessianismus; vedi il suo articolo “Gruppenmessianismus: Überlegungen zum Ursprung der Kirche im Jüngerkreis Jesu”, Jahrbuch für Biblische Theologie 7 (1992), pp. 101-23. E il Giudaismo conosceva un tale “messianismo di gruppo”; vedi Hartmut Stegemann, “Some Remarks to 1QSa, to 1QSb, and to Qumran Messianism”, RevQ 65-68 (1996), pp. 479-505, e Annette Steudel, “The Eternal Reign of the People of God – Collective Exprectations in Qumran Texts (4Q246 and 1QM)”, RevQ 65-68 (1996), pp. 507-25.
3) In Daniele 7 “uno come un figlio d’uomo” può essere identificato con i santi dell’Altissimo, e alcuni esegeti pre-moderni lo leggevano in questo modo; vedi Maurice Casey, Son of Man: The Interpretation and Influence of Daniel 7 (London: SPCK, 1979, pp. 51-98.
4) Se “il Figlio dell’uomo” per Gesù significava i santi degli ultimi giorni, allora possiamo comprendere perché, in un testo come Q 12,8-9, Gesù è strettamente associato con il “Figlio dell’uomo” e tuttavia i due non sembrano essere identici.
5) L’interpretazione collettiva spiega perché alcuni interpreti siano riusciti a trovare in molti testi sul “Figlio dell’uomo” un senso generico.
6) Questa interpretazione chiarifica inoltre il misterioso Mc 9,12b; vedi il mio articolo “Q 12:51-53 and Mk 9:9-11 and the Messianic Woes”.
7) 1Tess 4,15-17 è strettamente imparentato con Mc 9,1; 13, 24-27, e Mt 24,30-31. Ma laddove nei testi sinottici è il Figlio dell’uomo che viene sulle nubi, in Paolo sono il Signore Gesù e i santi, sia risorti che vivi. Il che significa che in 1Tess 4,15-17 i santi non attendono che Gesù venga sulla terra, bensì lo raggiungono sulle nuvole. Ciò ha senso se la tradizione primitiva prevedeva la venuta del Figlio dell’uomo come la venuta dei santi.
8) Il “troni” (plurale) di Dn 7,9 può essere meglio compreso come riferimento ai troni di Dio e dell’ “uno come un figlio d’uomo”. Ciò ha importanza, in quanto Q 22,30, che potrebbe risalire a Gesù, probabilmente allude a Daniele 7 e colloca una collettività (i seguaci di Gesù in Luca, i dodici in Matteo) su “troni”. In altre parole, il testo può essere interpretato come se significhi che i discepoli avranno il ruolo dell’ “uno come un figlio d’uomo” (cfr. Ap 20,4).
9) In Lc 12,32, che può risalire anch’esso a Gesù, ai discepoli di Gesù viene detto che essi riceveranno il regno. In Dn 7,14 il figlio dell’uomo riceve il regno, come avviene per i santi nei versi 18 e 27. Di nuovo, è possibile comprendere il detto nel senso che il “resto” che circonda Gesù adempie il ruolo della figura in Daniele.
10) Come T.W. Manson osservò molto tempo addietro, c’è una sorprendente corrispondenza “tra le predizioni del Figlio dell’uomo e le richieste fatte da Gesù ai discepoli. Sempre e di nuovo viene impresso loro che il discepolato è sinonimo di sacrificio e sofferenza, e della croce stessa. Questo suggerisce che ciò Gesù aveva in mente era che lui e i suoi seguaci insieme dovessero condividere quel destino che egli descrive come la passione del Figlio dell’uomo, il Resto che salva attraverso il servizio e l’auto-sacrificio” (The Teaching of Jesus, 2d ed. Cambridge: Cambridge University Press, 1935, p. 231).

P.S. giugno 2009: questo post non rappresenta più la mia posizione sul problema del Figlio dell'uomo, che si caratterizza ora come un "misto" tra quelle - tra loro tutte diverse - di J. Becker, A. Yarbro Collins, J. Dunn e B. Chilton... ma non dico di più!

martedì 29 luglio 2008

Ancora sull' "Hazon Gabriel": articolo pubblicato per un settimanale diocesano

LA TAVOLA DEL MESSIA CHE RISORSE PRIMA DI CRISTO
La Visione di Gabriele, un importante reperto archeologico da cui si pretende un po’ troppo

Il 6 luglio il Corriere della Sera ha ripreso un articolo del New York Times a proposito di un reperto archeologico giudaico che, da circa un anno a questa parte, ha acceso un importante dibattito tra gli studiosi. Si tratta di una tavola di pietra di circa 90 cm, in cui è riportato un testo in ebraico di 87 righe, disposte su due colonne, di carattere apocalittico (Hazon Gabriel, Visione di Gabriele). Lo scritto – definito un “rotolo del Mar Morto su pietra” -, dal punto di vista linguistico, risulta collocabile intorno alla fine del I sec. a.C., una datazione che sembra confermata anche dal punto di vista paleografico.
La stele è stata ritrovata una decina di anni fa, ma è solo all’anno scorso che risale la prima pubblicazione scientifica del testo, ad opera di Ada Yardeni e Binyamin Elitzitur. Sfortunatamente, il testo che i due studiosi sono riusciti a ricostruire risulta estremamente lacunoso e pertanto di difficile interpretazione.

L’interpretazione della stele di Israel Knohl
Tutto questo non ha impedito però ad un altro studioso, Israel Knohl, professore di studi biblici all’Università di Gerusalemme, di proporre una teoria secondo cui l’Hazon Gabriel testimonierebbe l’esistenza di una concezione giudaica del Messia che muore e risorge, antecedente l’annuncio pasquale cristiano.
Secondo Knohl, si tratterebbe del “messia figlio di Giuseppe” (ossia Efraim, nell’Hazon Gabriel), che compare nel Talmud (Sukkah 52a) come il “messia ucciso”, figura che - ad avviso dello studioso - farebbe riferimento ad un personaggio storico reale, che egli individua nel pretendente messianico Simone di cui narra Giuseppe Flavio: uno schiavo che, in seguito alla morte di Erode il Grande nel 4 a.C., “facendo affidamento sulla bellezza delle sue forme e sulla prestanza fisica, si cinse del diadema” (Guerra giudaica II:57-59), e “avendo raccolto un corpo di uomini, si fece proclamare re da quei fanatici” (Antichità giudaiche 17,273), dando vita così ad un’insurrezione popolare che venne immediatamente repressa nel sangue dallo sforzo congiunto dei romani e delle truppe erodiane, il cui comandante, Grato, intercettò Simone mentre cercava di fuggire attraverso un burrone e lo decapitò.
In poche parole la tesi di Knohl è la seguente: “Simone, il principe dei principi, era il leader messianico di un gruppo attivo in Transgiordania. L’Apocalisse di Gabriele sembra pertanto essere stata scritta dai suoi seguaci, di cui rifletterebbe il tentativo di far fronte al fallimento della rivolta e alla morte del loro leader”.
L’analisi che Knohl fa dell’Hazon Gabriel si incentra in particolare su alcuni versi in cui si dice anzitutto che “in tre giorni, conoscerai – dice il Signore degli eserciti, il Dio d’Israele – che il male è stato spezzato dalla giustizia” (righe 19-21) e soprattutto sulle righe 80-81, dove, secondo Knohl l’arcangelo Gabriele comanderebbe al messia morto di tornare alla vita (“in tre giorni, vivrai, io, Gabriele, te lo comando, principe dei principi”).
In realtà le cose non sono così semplici. Infatti, come accennato, il testo della tavola è colmo di lacune e di vocaboli indecifrabili, che riguardano anche punti chiave per la teoria di Knohl, ad esempio la stessa parola “vivrai”, hayeh: questa infatti era stata infatti ritenuta illeggibile da Ada Yardeni, che per prima aveva edito il testo, la quale tuttavia, una volta venuta a conoscenza dell’interpretazione di Knohl, ha detto di ritenere in effetti probabile che tale parola possa essere proprio hayeh (Yardeni invece si dichiara scettica circa la proposta di Knohl di identificare il personaggio che torna alla vita con Simone lo schiavo, un punto quest’ultimo che, del resto, lo stesso Knohl ha definito “congetturale”).

L’eredità del libro di Daniele tra Hazon Gabriel e Gesù
Ma il punto principale è che, quand’anche l’autenticità, l’antichità e l’interpretazione della stele fornita da Knohl venissero confermate (ma, a riguardo, è quanto mai doveroso invitare alla prudenza e ad attendere gli sviluppi di un dibattito accademico che è soltanto agli inizi), non ne segue affatto che tale ritrovamento dovrebbe “sconvolgere la nostra visione del cristianesimo”, come ha dichiarato Knohl, ritenendo che quest’idea del Messia che muore e risorge sarebbe stata adottata dai seguaci di Gesù e applicata a lui.
Di per sé, l’Hazon Gabriel, testimonierebbe semplicemente che tra le varie concezioni messianiche che caratterizzano il periodo noto come “giudaismo del secondo tempio” ce n’era anche una che attribuiva al Messia un destino di sofferenza salvo poi essere vendicato da Dio tramite risurrezione.
Ciò costituirebbe certamente un’acquisizione di grande importanza per la nostra conoscenza storica, e tuttavia non rappresenterebbe nulla di realmente “rivoluzionario”, una volta che si considera come in un testo fondamentale per l’epoca – specialmente per gli sviluppi messianici di cui è stato oggetto – quale il libro di Daniele, si afferma chiaramente che il popolo dei santi dell’Altissimo (Israele) subisce prima un destino di persecuzione e distruzione per poi ricevere da parte di Dio il regno eterno e il dominio su tutti i popoli (cf. Dn 7,25-27; ma si veda anche il riferimento ai maskilim in Dn 11,33, i saggi che pagano con il martirio la loro fedeltà e l’ammaestramento verso il popolo nel tempo della dell’apostasia, e che in Dn 12,3 vengono vendicati da Dio nella risurrezione, dove “risplenderanno come le stelle per sempre”).
Ed è con tutta probabilità al libro di Daniele che lo stesso Gesù si riallacciò con la sua particolare “teologia messianica” del Figlio dell’uomo sofferente, che deve essere consegnato nelle mani degli uomini e ucciso, per poi risorgere dopo tre giorni (cf. Mc 9,31). Questo detto marciano è stato considerato da molti esegeti un vaticinium ex eventu, ossia una profezia che gli evangelisti avrebbero posto sulla bocca di Gesù a seguito degli eventi pasquali.
In realtà esso (nell’assenza di dettagli che lo differenzia rispetto ad un detto analogo, ma fin troppo particolareggiato, come Mc 10,34), potrebbe costituire, più che un’anticipazione miracolosa dei successivi eventi pasquali, uno squarcio della “teologia” del Gesù storico che, rifacendosi probabilmente a Daniele, prevedeva per quell’ “Israele in nuce” che erano i Dodici un destino di sofferenza e tribolazione, prima di ricevere la giustificazione ed esaltazione da parte di Dio.
Ed è interessante, a riguardo, quanto afferma lo stimato esegeta cattolico Romano Penna (in una nota del suo I ritratti originali di Gesù il Cristo vol. I, p. 143) a seguito di una corrente di studiosi prevalentemente britannici, circa una possibile valenza anche “collettiva” dell’espressione Figlio dell’uomo, che poteva quindi, all’occasione, riferirsi non solo a Gesù, ma anche al gruppo dei discepoli avente Gesù al centro; un uso quindi che si accorderebbe all’immagine danielica del Figlio dell’uomo, che è al tempo stesso una figura individuale e il rappresentante del popolo dei santi dell’Altissimo (un altro studioso cattolico, Sean Freyne, ha invece interpretato Gesù e il suo gruppo lungo l’ “altra” linea danielica, quella dei maskilim).
Gesù dunque, con questo messianismo del Figlio dell’uomo avente carattere individuale/collettivo (Gerd Theissen parla di un Gruppenmessianismus, in cui le prerogative messianiche erano allargate ai discepoli, i quali, secondo Mt 19,28/Lc 22,28-30, avrebbero dovuto giudicare e governare le dodici tribù d’Israele nel veniente regno di Dio), fece propria una particolare concezione messianica articolata in due stadi: sofferenza prima, esaltazione poi. Con tutta probabilità, egli elaborò tale teologia alla luce del libro di Daniele. E come lo fece lui, nulla impedisce che anche altri potessero essere giunti a sviluppare intuizioni simili.
E tra questi ci potrebbe essere proprio l’autore di Hazon Gabriel, testo in cui peraltro i richiami danielici sono evidenti (si pensi anche solo ad elementi macroscopici come le rivelazioni da parte dell’angelo Gabriele e il riferimento al “principe dei principi”, figura presente anche in Dn 8,25, dove si dice che un “re sfacciato e intrigante” gli insorge contro, ma – a differenza che nella stele – senza successo).
La Visione di Gabriele, dunque, annunciando che dopo tre giorni il male sarà spezzato dalla giustizia e che il Messia sofferente sarà vendicato da Dio con il ritorno alla vita (verosimilmente in un contesto di risurrezione generale, sebbene quel che rimane del testo non lo dica), costituirebbe l’esempio di una particolare linea di sviluppo del pensiero escatologico-messianico, a partire dal libro di Daniele, lungo la quale, in modo analogo ma indipendente, si colloca il messianismo gesuano del Figlio dell’uomo che muore e risorge.

Scoperta rivoluzionaria? Sarà per un’altra volta
Ora, la conclusione di tutto questo è che l’Hazon Gabriel, lungi dallo sconvolgere la nostra immagine del cristianesimo delle origini, non farebbe altro che confermare ciò che già sappiamo: quanto, cioè, esso (persino nel suo elemento più distintivo, il kerygma pasquale) fosse profondamente inserito nell’ebraismo e compenetrato delle sue categorie (sebbene si debba precisare che tale concezione giudaica del Messia che muore e risorge, se davvero ci fu, ebbe sicuramente una diffusione marginale, dal momento che altrimenti non si spiegherebbe la generale resistenza che gli apostoli incontrarono con il loro annuncio della risurrezione del Crocifisso).
Coloro che invece, in modo molto superficiale, vorrebbero precipitarsi a concludere che i discepoli di Gesù, conoscendo l’Hazon Gabriel, lo avrebbero poi applicato (con una sorta di “copia-incolla”) alla vicenda del loro leader, non tengono minimamente conto del fatto che una cosa è trovare due concezioni tra loro analoghe, e tutt’altra cosa è concludere che una dipenda dall’altra. Per fare quest’ultimo passo, è necessario dimostrare che effettivamente esiste un legame di dipendenza delle testimonianze neotestamentarie rispetto allo Hazon Gabriel. Ma questa appare decisamente una causa persa.
Infine, da ultimo, bisogna ricordarsi che c’è una differenza fondamentale e irriducibile che permane: la risurrezione del Messia che (forse) troviamo nell’Hazon Gabriel è, sostanzialmente, soltanto un’idea, una “profezia” (non si parla del fatto che essa sia avvenuta), laddove lo specifico neotestamentario è l’annuncio di un evento già verificatosi, del quale dei testimoni affermano di aver avuto concreta esperienza.
In questo sta lo specifico cristiano rispetto al giudaismo da cui è nato: non nell’idea che la vittoria di Dio possa passare attraverso le vie della sofferenza, dell’umiliazione e della sconfitta (Israele conosceva già fin troppo bene – anche allora, assai prima della Shoah - quale amara verità potesse rivelarsi l’essere il popolo di Dio), bensì nell’annuncio che tale “vittoria di Dio nella sconfitta” ha già avuto definitivamente luogo nella croce di Gesù il Nazareno.

lunedì 14 luglio 2008

Un ebreo marginale, volume 4: l'atto finale!

Disperavate di vivere abbastanza a lungo da poterlo stringere tra le vostre mani?

Gente di poca fede! Convertitevi, perché l'epilogo si è fatto vicino:


In verità vi dico: molti profeti, sapienti e comuni lettori desiderarono vedere ciò che voi state per vedere, ma non lo videro!

Vegliate dunque!
Dovete infatti sapere che verranno negli ultimi giorni molti schernitori beffardi, i quali si comporteranno secondo le loro passioni e diranno: "Dov'è la promessa della sua venuta?".
Non vi sia perciò tra voi chi, mormorando, dica: "la traduzione tarda" oppure "era solo un pesce d'aprile". Vegliate dunque, poiché non sapete in quale giorno la traduzione arriverà, affinché non giunga all'improvviso, trovandovi addormentati.
Ecco, io vi ho predetto tutto.

martedì 8 luglio 2008

Hazon Gabriel: le possibili implicazioni del messia che muore e risorge per lo studio del Gesù storico

A quanto pare, la notizia dell’Hazon Gabriel e del suo messia morente e risorgente (secondo l’interpretazione offerta da Israel Knohl. Cf. "’By three days, live’: Messiahs, Resurrection, and Ascent to Heaven in Hazon Gabriel” in The Journal of Religion, 88:147-158, April 2008) comincia a fare rumore.
Io, purtroppo, sono assolutamente lontano dal disporre dei mezzi per pronunciarmi sulla correttezza della tesi di Knohl.
In attesa che il dibattito accademico faccia progressi, mi limito pertanto a qualche ipotetica considerazione a partire dalla eventualità che effettivamente la stele in questione ci abbia messo di fronte all’esistenza, tra le varie concezioni messianiche del giudaismo del secondo tempio, anche di una linea di pensiero che attribuisce al messia un destino di morte e risurrezione. Quali sarebbero le implicazioni di tutto questo?

A me pare, anzitutto, che tale testimonianza costituirebbe una ulteriore conferma di come fosse nel giusto quella linea di studiosi che - a partire da Schweitzer, e, passando per Jeremias e Ben Meyer, giunge fino ad Allison – facevano della cosiddetta “tribolazione escatologica” un elemento centrale della predicazione di Gesù (linea rinnovata di recente dal volume di Brant Pitre, Jesus, the Tribulation and the End of the Exile, Mohr Siebeck, Tubingen, 2005).
Ca va sans dire che un detto quale Mc 9,31 ("Il Figlio dell`uomo sta per esser consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma una volta ucciso, dopo tre giorni, risusciterà"), solitamente interpretato come vaticinium ex eventu, riappare ora in una luce completamente nuova: lo storico infatti disporrebbe ora, grazie all’Hazon Gabriel, di un’analogia più che sufficiente per poter guardare al logion citato come ad un’attestazione di un particolare schema escatologico-messianico presente tra le varie concezioni del giudaismo del tempo di Gesù, e nulla vieta che esso possa esser stato fatto proprio dallo stesso Gesù, prima ancora che dai suoi discepoli a seguito degli eventi pasquali.
Insomma, sarebbe storicamente molto plausibile che Gesù - venendo a contatto con l’humus da cui è sorto l’Hazon Gabriel, oltre che, in modo più fondamentale, riallacciandosi alla visione danielica del Figlio dell’uomo e del popolo dei santi dell’Altissimo, ad esso connesso, che passa dalla persecuzione al trionfo – avesse pensato il suo ministero nell’ottica di una già iniziata tribolazione escatologica (cf. Q 16,16 ; Q 12,51-53) destinata a trovare risoluzione in tempo brevissimo con la venuta del Regno di Dio in potenza (Mc 9,1 – dove, come suggerisce Jeremias, gli “alcuni qui presenti” che non gusteranno la morte non sono discepoli particolarmente longevi, bensì discepoli sopravvissuti alla tribolazione; il che fa di questo logion un detto di incoraggiamento).
Al banchetto del Regno, alcuni (quelli di cui parla Mc 9,1) sarebbero giunti passando indenni attraverso la tribolazione; altri invece (tra cui forse, a giudicare anche da Mc 14,25 , Gesù stesso) vi avrebbero presenziato mediante un miracoloso intervento di Dio, quello, appunto, di cui si parla in Mc 9,31 e in Hazon Gabriel.

Un risvolto leggermente più "scomodo" (ma, in fin dei conti, nemmeno troppo, io credo) per chi si muove entro l’ottica della fede cristiana è invece che l’annuncio pasquale (ferme restando la salda attestazione delle apparizioni del Risorto e la intrinseca "non giudicabilità" da parte dello storico della realtà del loro oggetto) sembrerebbe essere una prevedibile e quasi doverosa (alla luce della autenticità di un detto quale Mc 9,31) interpretazione da parte dei discepoli della vicenda del loro leader, ricalcante un già esistente “schema” giudaico di messia sofferente e risuscitato.

In un post precedente, avevo parlato dell’esperienze pasquali come evento “dissonante” rispetto alle aspettative escatologiche dei discepoli, che verosimilmente si aspettavano la restaurazione di Israele, l’affermazione definitiva del regno di Dio (con loro stessi nel ruolo di rappresentanti e giudici), il giudizio universale e, concomitantemente la risurrezione generale dei morti. Non rientrava invece nel loro orizzonte mentale invece la possibilità che a risorgere fosse uno soltanto, il loro leader. Le cose cambierebbero di parecchio tuttavia se si potesse ritenere ragionevolmente possibile che tra le concezioni escatologiche di Gesù e dei suoi discepoli ci fosse pure quella di un messia il cui trionfo passa per la morte e la risurrezione dopo tre giorni, e che l’influenza di tale concezione sarebbe testimoniata in un detto come quello di Mc 10,31. In questo caso, le esperienze pasquali non sarebbero affatto qualcosa di “dissonante”, anzi, sarebbero precisamente ciò che ci si sarebbe dovuti aspettare.

Comunque, se anche le cose stessero così, non sarebbe troppo grave: qualunque fossero le particolari aspettative escatologiche pre-pasquali dei discepoli, l’attestazione delle apparizioni pasquali conserva la sua forza, e chi vuole pertanto continuare a vedere in tale attestazione il frutto di una reale e singolarissima esperienza dei discepoli, piuttosto che di una semplice operazione “ermeneutica” nei confronti del destino del loro leader alla luce delle concezioni escatologiche che egli stesso aveva instillato in loro, non si può affatto dire che lo faccia contro l’evidenza delle testimonianze.

In fin dei conti, la tesi di Knohl condurrebbe soltanto ad aggiungere un tassello in più alla nostra considerazione del cristianesimo delle origini come fenomeno da inquadrarsi positivamente all'interno del variegato spettro del giudaismo(i) del secondo tempio, guardando - molto theissenianamente - anche all'annuncio pasquale nell'ottica della plausibilità contestuale, piuttosto che in quella della discontinuità.