domenica 22 giugno 2008

Attesa imminente ed "errore" di Gesù. Il dato storico e il "problema" teologico.

Vorrei rispondere qui, in “prima pagina”, a una questione postami in un commento al precedente post, quella del carattere problematico dell’attesa escatologica imminente di Gesù.

Con essa si intende il fatto che Gesù guardasse alla venuta del Regno di Dio non solo come a un evento futuro (meno che mai indefinitamente futuro, al punto da inglobare 2000 anni!), oltre che già presente, ma precisamente come un evento futuro IMMINENTE, appunto in quanto ha già fatto irruzione … e quando il fico mette le foglie, l’estate non tarda (meno che mai di 2000 anni).
Ora, questa nota dell’imminenza è un dato assolutamente innegabile della tradizione più antica, e i soli “storici” che la negano a Gesù (attribuendola alla comunità post-pasquale) sono quelli che fanno riferimento al Jesus Seminar. Consultate Meier, Sanders, Theissen, Schlosser e tutti gli altri migliori studiosi del Gesù storico e vedrete l’aspettativa imminente chiaramente affermata.
Lo studioso cattolico Bruce Malina (pioniere dell’applicazione degli studi antropologici a quelli biblici) addirittura afferma che un’ ottica di futuro distante o remoto era semplicemente estranea alle categorie mentali di un contadino mediterraneo, la cui attenzione si concentrava sul presente o, al più, sul futuro concepito come necessariamente imminente.
Ed è questa aspettativa escatologica imminente a cui un bravo teologo come Paolo Gamberini si riferisce quando scrive: “Gesù pensava che Dio nell’immediato futuro avrebbe agito in maniera ancora più profonda, creando cieli e terra nuovi. Avrebbe restaurato le dodici tribù di Israele, e la pace e la giustizia avrebbero prevalso. Gesù non si aspettava dunque una fine del mondo nel senso di distruzione, ma una trasformazione per opera del diretto intervento di Dio secondo lo spirito del Libro dei Giubilei, in cui si fa menzione di un nuovo tempio. La realtà cosmica e celeste, attesa da Gesù, non esclude la risurrezione dei morti” (…) Se da un lato deve essere esclusa una comprensione politica e militare del regno di Dio (messianismo davidico) da un altro bisogna evitare di comprendere il Regno come un semplice riordinamento o svelamento del mondo presente. Dio sta irrompendo ora nel presente, ma di più si sta preparando nel futuro: questo “magis” è di carattere cosmico e sociale e in esso i peccatori e tutti coloro che stanno ai margini troveranno un posto”(P. Gamberini, Questo Gesù, EDB, Bologna, 2005, p. 93).
Questo è il regno di Dio che Gesù ritiene già aver fatto irruzione con la sua stessa persona e ministero, e che sarebbe presto “sbocciato” in tutta la sua pienezza, tanto presto quanto l’estate segue alla comparsa delle foglie del fico: un regno di dimensioni indubbiamente cosmiche e miracolose (risurrezione dei morti, ritorno delle dieci tribù perdute d’Israele), ma anche politiche (romani ed erodiani avrebbero lasciato il posto a una nuova modalità di esercizio del potere - come servizio – i cui rappresentati sarebbero stati i Dodici discepoli di Gesù) e sociali (i peccatori e tutti coloro che vivono ai margini vi avrebbero partecipato e ai primi posti).
Ora, questo Regno, quale Gesù lo concepiva, è semplicemente un fatto che non venne mai.
Ciò che venne è la risurrezione di Gesù stesso (che diede un ulteriore impulso escatologico ai discepoli: “se Gesù è risorto, allora la fine dei tempi è già iniziata!) e la conseguente formazione della Chiesa come “Israele escatologico” ora aperto anche alle Genti (conformemente ad una particolare linea tra le concezioni escatologiche giudaiche).
Ma ciò non è propriamente ciò che Gesù aveva annunciato e si attendeva. Dunque come stanno le cose: Gesù si è sbagliato? Sì? No? Totalmente? In parte? In che senso? E’ un errore grave? Va a contraddire la sua divinità, il suo essere il “rivelatore”? O è solo un errore umano, segno della autenticità e integrità della kenosi e dell’incarnazione del Verbo?
Questi sono interrogativi teologici e io – che, almeno in questo blog, teologo non vorrei essere – lascio dunque la parola a due teologi (Pannenberg – protestante – Rahner - cattolico) e a un biblista (Ben Meyer - cattolico. N.B. Ben Meyer non è John Paul Meier! Si tratta di un eccellente neotestamentarista deceduto nella metà degli anni '90, discepolo dichiarato – in materia di epistemologia – di Bernard Lonergan, ma purtroppo praticamente ignoto in Italia – la sua opera principale è The Aims of Jesus, 1979).

PANNENBERG:
“Non c’è alcun dubbio che Gesù si sia sbagliato annunciando che la signoria di Dio avrebbe avuto inizio nella sua stessa generazione. La fine del mondo non si verificò né nella generazione di Gesù né in quella dei discepoli, i testimoni della risurrezione. Qui ci troviamo di fronte al noto problema del ritardo della parusia, il problema dei duemila anni da allora trascorsi senza che giungesse la fine del mondo e la signoria universale di Dio.
L’aspettativa imminente di Gesù non rimase, tuttavia, incompiuta. Trovò compimento nel solo modo secondo cui sia possibile parlare del compimento di proclamazioni e promesse profetiche, ossia, in modo tale che il senso originale della profezia venga rivisto a partire da un evento che corrisponde ad essa, ma nondimeno presenta un carattere più o meno differente rispetto a ciò che poteva essere conosciuto dalla profezia stessa. Il messaggio pasquale cristiano testimonia questa modalità di adempimento dell’aspettativa imminente di Gesù. Essa fu compiuta da lui stesso, nella misura in cui la realtà escatologica della risurrezione dei morti comparve in Gesù stesso”.
(W. Pannenberg, Jesus – God and Man, SCM Press, London, 2002, p. 251 - traduzione mia)

RAHNER:
“Il suo rapporto verso Dio dato a lui e (solo) in lui, Gesù lo oggettiva e lo verbalizza per sé e per I suoi uditori mediante quell ache viene detta apocalittica, attesa prossima ed escatologica del presente.
(…) Se uno trascura la questione lasciata aperta da Gesù circa il senso ultimo del “presto” del veniente giorno di JHWH (…) allora egli può parlare di un “errore” nell’attesa prossima nutrita da Gesù, il quale in questo “errore” avrebbe solo condiviso il nostro destino, perché per l’uomo storico, e dunque anche per Gesù, è meglio “errare” così piuttosto che essere già a conoscenza di tutto. Se però presupponiamo e conserviamo l’esatto concetto ontologico-esistenziale di “errore”, non c’è motivo di parlare di un errore di Gesù nella sua attesa prossima: una coscienza autenticamente umana deve avere davanti a sé un futuro ignoto. L’attesa prossima nutrita da Gesù era per lui il vero modo nel quale egli doveva cogliere nella sua situazione la vicinanza di Dio chiamante a una decisione incondizionata.
(K. Rahner, Corso fondamentale sulla fede, San Paolo, Cinisello Balsamo, 1990, p. 324-25)

BEN MEYER:
“Ci sono alcune caratteristiche distintive ricorrenti nella profezia biblica (…). Appartiene al fenomeno della profezia biblica che messaggi riguardanti il futuro siano espressi in simboli (…). La sua [di Gesù] parola sul futuro prevedeva un dramma, simbolicamente caratterizzato, in due atti di crisi e risoluzione. La crisi era la tribolazione escatologica inaugurata dal suo stesso ripudio e dalla sua sofferenza. La risoluzione era il giorno del Figlio dell’uomo che avrebbe posto fine alla tribolazione con il trionfo del regno di Dio.
La tesi che propongo fa leva sulla natura della profezia. Nella profezia, ciò che viene inteso con il simbolo, è ciò che Dio, in nome del quale il profeta parla, intende. Ciò evidentemente non fa mai ingresso negli orizzonti e nelle prospettiva del profeta sotto la forma di conoscenza determinata del futuro. La questione “Gesù si sbagliò riguardo al futuro?” dovrebbe pertanto essere riformulata nella seguente: “Gesù aveva una conoscenza determinata di ciò che Dio intendeva mediante lo schema simbolico che Gesù era incaricato di annunciare?”. La risposta a questa questione sembra essere abbastanza chiaramente: no.
(…) Perché mai dovremmo pensare della profezia, nella misura in cui riguarda il futuro, come un tipo di conoscenza empirica per anticipazione? Nulla nella letteratura profetica suggerisce che la conoscenza profetica abbia questa natura. Non dovremmo immaginare in modo “naif” che qualunque profeta abbia mai avuto davanti al suo sguardo interiore quel genere di scenario che la storia potrebbe poi letteralmente seguire. (…) Tutta la profezia parla nella lingua del simbolo. C’è una irriducibile disparità tra questa lingua e e gli eventi effettivi. Tale disparità non è descritta correttamente come “errore”. Nessuno dei profeti si è sbagliato, meno che mai il più grande di essi.
(B. Meyer, Christus Faber. The Master-Builder & the House of God, Pickwick Publications, Allison Park,1992, p. 54-56 - traduzione mia)

[Sul problema dell' "attesa imminente" si può inoltre consultare la decina di pagine che ad esso dedica Heinrich Fries - il grande "padre" della teologia fondamentale cattolica -, nella sua Teologia fondamentale (Queriniana, Brescia, 1987 - volume purtroppo esaurito). Fries, tra le altre cose, cita (evidentemente approvandolo) un brano di Essere cristiani di Hans Kung, dove si dice "Gesù parlò in modo ovvio all’interno di una cornice di riferimento apocalittica e nelle forme concettuali del suo tempo. Questa cornice di comprensione è stata resa obsoleta dallo sviluppo storico, l’orizzonte apocalittico è svanito – questo deve essere chiaro. Dalla prospettiva del nostro tempo, dobbiamo dire: circa la questione dell’attesa imminente, si ha meno a che fare con un errore che con un modo temporalmente condizionato di guardare al mondo, che Gesù condivideva con i suoi contemporanei".]

E io?
Io diciamo che inclino verso Pannenberg.
Tuttavia trovo accattivante la pista di soluzione rahneriana, secondo cui l'attesa imminente, propria dell'apocalittica, fatta propria da Gesù, sarebbe una traduzione categoriale, secondo appunto le categorie culturali di cui egli poteva disporre, della sua costituzione ontologica profonda, totalmente relativa al Padre. Non solo un Dio-Abbà, dunque, ma un Dio-Abbà che, proprio perché tale, non può fare altro che venire presto, prestissimo.


P.S. per Lypocodium: nei commenti del post precedente ho appena aggiunto la risposta alla questione dell' "insight" di Gesù.

4 commenti:

massimo-ekpyrosis05 ha detto...

Gentilissimo Johannes Weiss,
A me sembra, molto più semplicemente di quanto non sia stato qui prospettato, che la nozione di "imminenza" non sia in alcun modo falsificabile. Essa ha un significato oggettivo di per sé non specificabile, ma ha anche un senso soggettivo, ancor meno determinabile secondo una misura matematica, che entra in stretta relazione con il primo. Insomma non è solo, per dirla con Aristotele una misura del divenire, ma anche, per dirla con Agostino, una distentio animi. Dunque chi può dire che l'imminenza non sia concepita a partire da un punto di vista molto più vasto di quello del contadino mediterraneo (tra l'altro: messa così, appare veramente un' enormità quella di attribuire a Gesù un orizzonte di pensiero che non va oltre a quello del "contadino mediterraneo" - a parte che Gesù non mi risulta che facesse il contadino, si pensi solo alla possibilità di leggere una frase simile in un libro di storia della filosofia, applicata a Socrate: faremmo un salto sulla nostra sedia per l'indignazione nel sentire che uno come Socrate "non poteva" pensare in un dato modo perché quello era lo stile della borghesia ateniese del V secolo.Ebbene, forse che Gesù "non poteva" essere più intelligente di un "contadino del mediterraneo"? Qui temo che non si faccia sociologia, ma del determinismo sociologico un po' dilettantesco)? Chi può dire che nell' "imminenza" non vi sia l'accento su una dimensione kairologico-esistenziale e non solo cronologica-reale (pur senza indulgere a nessuna forma di psicologizzazione della realtà del Regno)? Non c'è in quest'idea di un'imminenza cartesiana, il pregiudizio di Loisy secondo cui "Gesù predicò il Regno e venne la Chiesa", laddove tra l'uno e l'altra è posta un'alternativa che non è storicamente plausibile, visto che "un movimento di riforma del giudaismo non si concepisce - anche nell'attesa del Regno imminente - al di fuori di un gruppo organizzato" (M. Simon)? In sostanza mi pare che si debba essere molto prudenti nel pensare che Gesù si sia semplicemente sbagliato indicando nel Regno imminente una "realtà che non venne mai". Forse con più attenzione alla Stimmung gesuana bisognerebbe dire che egli volle significare una realtà "che non è ancora venuta". E' ovvio che nella fede che così intese suscitare c'è un'impazienza dell'agape, un'impazienza nel voler vedere realizzato qui e ora quel Regno che rende giustizia al prossimo e incarna la speranza più vera dell'uomo nella redenzione da ogni male,ma tutto ciò non ha niente a che fare con una garanzia da capostazione con la conseguente richiesta di risarcimento perché l'intercity del Regno è arrivato con più di mezz'ora di ritardo!!!
Dunque preferisco pensare che i vari Loisy, Schweitzer, Pannenberg etc. si siano sbagliati, e che Gesù, l'uomo Gesù che credo essere stato fattualmente e storicamente più che uomo, c'abbia azzeccato...sta a noi fare uno sforzo in più per comprenderlo.
Un cordiale saluto
Massimo - ekpyrosis05

Johannes Weiss ha detto...

Riguardo al "contadino mediterraneo", Gesù ovviamente era un "tekton", ma qui il "contadino" va interpretato in senso lato, nel senso cioè di individuo appartenente, sociologicamente e culturalmente, alla "società contadina".
Ora, il rivendicare per Gesù la possibilità che egli abbia trasceso i confini culturali del suo ambiente immediato, o addirittura quelli del suo tempo, è un'operazione tipica del credente e del teologo, che è irresistibilmente portato a guardare Gesù sotto le lenti del "nuovo", dell' "unico".
Al contrario, lo storico ci va molto più prudente con il "nuovo": per lui il nuovo è soltanto il "relativamente nuovo" e non l' "assolutamente nuovo", così come la categoria di "unico", lascia il passo a quella di "originale" o "distintivo".
Lo storico, insomma, guarda le cose sotto la lente dell' "analogia".
Ad ogni modo, non è necessario fissarsi sull'osservazione di Bruce Malina sulla concezione del tempo tipica della società contadina mediterranea.
Le tradizioni evangeliche che testimoniano l'attesa imminente propria della predicazione escatologica di Gesù sono semplicemente schiaccianti. Bastano da sé.
Ebbene, questa "attesa imminente" poteva avere in Gesù un carattere esistenziale-kairologico, piuttosto che temporale?
Io sono profondamente scettico a riguardo. Siamo noi che, come ha fatto ad es. Bultmann, possiamo trovare nell' "attesa imminente" un senso esistenziale (visto che quello temporale, dopo 2000 anni, ci è definitivamente precluso).
Ma perché, laddove tutti i contemporanei di Gesù intendevano il linguaggio dell'imminenza in senso temporale, Gesù avrebbe dovuto essere così inconcepibilmente fuori dal suo tempo da reinterpretare tale linguaggio in senso esclusivamente esistenziale? Perchè dovremmo attribuire questa capacità di "demitizzazione" a Gesù? Non è più semplice - e teologicamente, io credo, assai più appropriato - ammettere che Gesù - Verbo incarnato - abbia veramente pensato secondo le categorie del suo tempo, assumendole proprio nei modi in cui erano comunemente intese e impiegate, anziché stravolgendole in modo anacronistico?
Per me, il massimo che si può pensare - da teologi - circa l'attesa imminente di Gesù, è che - come suggerisce Rahner - essa poteva costituire una categoria idonea a tradurre l'intima relazione al Padre costitutiva dell'identità ontologica profonda di Gesù in quanto Verbo incarnato. Come ho detto, un Dio-Abbà che, proprio perché Abbà, non può che venire presto, prestissimo.
Tutto questo però è riflessione teologica. Il dato storico è semplicemente che Gesù ha fatto propria quell'attesa escatologica imminente che era assai diffusa tra i suoi contemporanei (Giovanni il Battista su tutti), e che, dal punto di vista storico, deve essere messa in profonda connessione con problematiche politiche e sociali.
Per me quindi è qualcosa di molto semplice ed onesto il dire che Gesù si è sbagliato a proposito dell'imminente venuta del Regno. Tuttavia, per come la vedo io, questo "errore" non costituisce alcunché di scandaloso e meno che mai comporta implicazioni corrosive in questioni dogmatiche.
Si tratta di un "errore" necessariamente implicato dalla autentica e integrale incarnazione del Verbo, e forse (come sostiene Ben Meyer) anche dalla specificità del linguaggio profetico.
Per di più, a ben vedere - come nota Pannenberg - non è nemmeno vero che Gesù si sia sbagliato del tutto, perché, anzi, in ciò che è veramente essenziale, ci ha "preso in pieno", dal momento che - secondo le testimonianze pasquali - l'evento escatologico definitivo si è veramente realizzato...anche se solo per lui.

massimo-ekpyrosis05 ha detto...

Come sempre accolgo la sua spiegazione, anche se non posso pienamente condividerla. Vorrei solo precisare un dettaglio. Lei ha piegato in senso troppo bultmanniano la mia ipotesi della presenza di un'accezione kairologico-esistenziale nel concetto di "imminenza". In realtà non volevo assolutamente sottacere la dimensione oggettivo temporale. Voleva semplicemente sottolineare la torsione che subisce l'idea, già di per sé non "matematizzante" di imminenza, se in essa vi poniamo anche questo tipo di sfumatura, che secondo me è ineliminabile tanto nei profeti che in Gesù. Se tale dimensione di chiamata personale/comunitaria alla decisione non rappresenta bultmannianamente l'unico criterio di interpretazione del Regno che sta per arrivare, di sicuro non si sbaglia a rilevarne il peso e la presenza.Ma se una siffatta dimensione è presente, l'imminenza acquisisce un nuovo e ulteriore orizzonte di significato che rende _a maggior ragione_ inapplicabile un giudizio di falsità. Nondimeno rimango dell'idea che, anche da un punto di vista temporale, la mancanza, tra le altre cose, di una precisazione del tempo e dell'ora renda ingiustificato il suddetto giudizio. Anche perché, se fosse prodotto un verdetto di falsità sull'attesa del Regno da parte di Gesù, ciò significherebbe che noi non dovremmo più attendere quello che anche Gesù aveva atteso (oltre che inaugurato). Gesù non sarebbe maestro e modello anche nella speranza e ciò impoverirebbe enormemente la fede cristiana. Al contrario, io oggi sono chiamato proprio da Gesù a sperare e ad attendere cioè a pormi nell'ottica concreta dell'imminenza e, per suo mezzo, nell'affascinante e straniante contrazione del tempo che essa comporta.
Un cordiale saluto
Massimo - ekpyrosis05

Johannes Weiss ha detto...

Sì, sono perfettamente d'accordo: l'attesa imminente comportava ANCHE, e in misura nient'affatto secondaria, questa dimensione kairologico-esistenziale (non strettamente bultmanniana - come giustamente precisa), che implicava una dinamica di appello radicale/risposta radicale sulla base della decisività del momento presente (si pensi, tra le altre cose, alla richiesta di Gesù di anteporre la propria sequela al dovere religioso di seppellire il padre).
Tuttavia, tale dimensione esistenziale, è comprensibile solo a partire da una reale convinzione dell'imminenza temporale della risoluzione del dramma escatologico. Gesù era, cioè, veramente convinto che Dio avrebbe di lì a poco instaurato il suo regno definitivo, che avrebbe visto lui e i suoi discepoli giudicare e "governare" (in modo radicalmente diverso dai romani e dagli erodiani) le dodici tribù dell'Israele restaurato.
E, purtroppo, non posso essere d'accordo con Lei quando parla della mancanza di determinazione del tempo. Ci sono diverse tradizioni che testimoniano chiaramente che dal momento presente a quello della risoluzione del dramma escatologico, il passo sarebbe stato brevissimo, non di secoli ma nemmeno di decenni. Penso anzitutto a Mt 10,23 e Mc 9,1. Soprattutto a Mc 9,1 che - ma qui dovremmo entrare nei dettagli - rappresenta una promessa di incoraggiamento rivolta ad un uditorio convinto di stare per attraversare o di attraversare già la "tribolazione escatologica", e non un oracolo di un profeta cristiano che vorrebbe rassicurare la propria comunità turbata dal ritardo della parusia e dai decessi di molti suoi membri (come vorrebbe Meier, il quale è peraltro anch'egli un grande sostenitore dell'attesa imminente).
Penso inoltre al detto sul "frutto della vite" riportato in Mc 14,25 , dove Gesù, ormai consapevole di andare incontro ad una fine violenta, sembra proprio riaffermare la convinzione che il Regno sarebbe nondimeno venuto di lì a breve (è interessante, tra l'altro notare che Mc 9,1 Mt 10,23 e Mc 14,25 presentino tutti una medesima struttura di "negazione + clausola temporale": non...finché).
Infine, come ho già detto, c'è la parabola del fico, di cui Jacques Dupont ha magistralmente mostrato il Sitz im Leben gesuano, e che costituisce un esempio di "determinazione temporale" che più preciso e lampante di così, proprio non si può: la distanza che separa l'irruzione della Basileia in Gesù dal suo pieno stabilimento è quella che separa lo spuntare delle prime foglie del fico dall'arrivo dell'estate.
Insisto perciò nell'opportunità e necessità di affermare che Gesù attese realmente il verificarsi a brevissimo termine di qualcosa che, evidentemente, non è poi (ancora) venuto.
Ciò, a mio avviso non inficia la nostra speranza cristiana. Anche perchè poi qualcosa di pienamente e definitivamente escatologico si è effettivamente verificato - la Risurrezione - ed è su questo evento, piuttosto che sull'attesa temporale imminente del Gesù storico (che nessuno di noi - fondamentalisti a parte - può far più propria), che la nostra speranza di cieli nuovi e terra nuova, di una reale redenzione della storia e del cosmo intero, si fonda.

Cordialissimamente

Johannes Weiss