LA TAVOLA DEL MESSIA CHE RISORSE PRIMA DI CRISTO
La Visione di Gabriele, un importante reperto archeologico da cui si pretende un po’ troppo
Il 6 luglio il Corriere della Sera ha ripreso un articolo del New York Times a proposito di un reperto archeologico giudaico che, da circa un anno a questa parte, ha acceso un importante dibattito tra gli studiosi. Si tratta di una tavola di pietra di circa 90 cm, in cui è riportato un testo in ebraico di 87 righe, disposte su due colonne, di carattere apocalittico (Hazon Gabriel, Visione di Gabriele). Lo scritto – definito un “rotolo del Mar Morto su pietra” -, dal punto di vista linguistico, risulta collocabile intorno alla fine del I sec. a.C., una datazione che sembra confermata anche dal punto di vista paleografico.
La stele è stata ritrovata una decina di anni fa, ma è solo all’anno scorso che risale la prima pubblicazione scientifica del testo, ad opera di Ada Yardeni e Binyamin Elitzitur. Sfortunatamente, il testo che i due studiosi sono riusciti a ricostruire risulta estremamente lacunoso e pertanto di difficile interpretazione.
La Visione di Gabriele, un importante reperto archeologico da cui si pretende un po’ troppo
Il 6 luglio il Corriere della Sera ha ripreso un articolo del New York Times a proposito di un reperto archeologico giudaico che, da circa un anno a questa parte, ha acceso un importante dibattito tra gli studiosi. Si tratta di una tavola di pietra di circa 90 cm, in cui è riportato un testo in ebraico di 87 righe, disposte su due colonne, di carattere apocalittico (Hazon Gabriel, Visione di Gabriele). Lo scritto – definito un “rotolo del Mar Morto su pietra” -, dal punto di vista linguistico, risulta collocabile intorno alla fine del I sec. a.C., una datazione che sembra confermata anche dal punto di vista paleografico.
La stele è stata ritrovata una decina di anni fa, ma è solo all’anno scorso che risale la prima pubblicazione scientifica del testo, ad opera di Ada Yardeni e Binyamin Elitzitur. Sfortunatamente, il testo che i due studiosi sono riusciti a ricostruire risulta estremamente lacunoso e pertanto di difficile interpretazione.
L’interpretazione della stele di Israel Knohl
Tutto questo non ha impedito però ad un altro studioso, Israel Knohl, professore di studi biblici all’Università di Gerusalemme, di proporre una teoria secondo cui l’Hazon Gabriel testimonierebbe l’esistenza di una concezione giudaica del Messia che muore e risorge, antecedente l’annuncio pasquale cristiano.
Secondo Knohl, si tratterebbe del “messia figlio di Giuseppe” (ossia Efraim, nell’Hazon Gabriel), che compare nel Talmud (Sukkah 52a) come il “messia ucciso”, figura che - ad avviso dello studioso - farebbe riferimento ad un personaggio storico reale, che egli individua nel pretendente messianico Simone di cui narra Giuseppe Flavio: uno schiavo che, in seguito alla morte di Erode il Grande nel 4 a.C., “facendo affidamento sulla bellezza delle sue forme e sulla prestanza fisica, si cinse del diadema” (Guerra giudaica II:57-59), e “avendo raccolto un corpo di uomini, si fece proclamare re da quei fanatici” (Antichità giudaiche 17,273), dando vita così ad un’insurrezione popolare che venne immediatamente repressa nel sangue dallo sforzo congiunto dei romani e delle truppe erodiane, il cui comandante, Grato, intercettò Simone mentre cercava di fuggire attraverso un burrone e lo decapitò.
In poche parole la tesi di Knohl è la seguente: “Simone, il principe dei principi, era il leader messianico di un gruppo attivo in Transgiordania. L’Apocalisse di Gabriele sembra pertanto essere stata scritta dai suoi seguaci, di cui rifletterebbe il tentativo di far fronte al fallimento della rivolta e alla morte del loro leader”.
L’analisi che Knohl fa dell’Hazon Gabriel si incentra in particolare su alcuni versi in cui si dice anzitutto che “in tre giorni, conoscerai – dice il Signore degli eserciti, il Dio d’Israele – che il male è stato spezzato dalla giustizia” (righe 19-21) e soprattutto sulle righe 80-81, dove, secondo Knohl l’arcangelo Gabriele comanderebbe al messia morto di tornare alla vita (“in tre giorni, vivrai, io, Gabriele, te lo comando, principe dei principi”).
In realtà le cose non sono così semplici. Infatti, come accennato, il testo della tavola è colmo di lacune e di vocaboli indecifrabili, che riguardano anche punti chiave per la teoria di Knohl, ad esempio la stessa parola “vivrai”, hayeh: questa infatti era stata infatti ritenuta illeggibile da Ada Yardeni, che per prima aveva edito il testo, la quale tuttavia, una volta venuta a conoscenza dell’interpretazione di Knohl, ha detto di ritenere in effetti probabile che tale parola possa essere proprio hayeh (Yardeni invece si dichiara scettica circa la proposta di Knohl di identificare il personaggio che torna alla vita con Simone lo schiavo, un punto quest’ultimo che, del resto, lo stesso Knohl ha definito “congetturale”).
Secondo Knohl, si tratterebbe del “messia figlio di Giuseppe” (ossia Efraim, nell’Hazon Gabriel), che compare nel Talmud (Sukkah 52a) come il “messia ucciso”, figura che - ad avviso dello studioso - farebbe riferimento ad un personaggio storico reale, che egli individua nel pretendente messianico Simone di cui narra Giuseppe Flavio: uno schiavo che, in seguito alla morte di Erode il Grande nel 4 a.C., “facendo affidamento sulla bellezza delle sue forme e sulla prestanza fisica, si cinse del diadema” (Guerra giudaica II:57-59), e “avendo raccolto un corpo di uomini, si fece proclamare re da quei fanatici” (Antichità giudaiche 17,273), dando vita così ad un’insurrezione popolare che venne immediatamente repressa nel sangue dallo sforzo congiunto dei romani e delle truppe erodiane, il cui comandante, Grato, intercettò Simone mentre cercava di fuggire attraverso un burrone e lo decapitò.
In poche parole la tesi di Knohl è la seguente: “Simone, il principe dei principi, era il leader messianico di un gruppo attivo in Transgiordania. L’Apocalisse di Gabriele sembra pertanto essere stata scritta dai suoi seguaci, di cui rifletterebbe il tentativo di far fronte al fallimento della rivolta e alla morte del loro leader”.
L’analisi che Knohl fa dell’Hazon Gabriel si incentra in particolare su alcuni versi in cui si dice anzitutto che “in tre giorni, conoscerai – dice il Signore degli eserciti, il Dio d’Israele – che il male è stato spezzato dalla giustizia” (righe 19-21) e soprattutto sulle righe 80-81, dove, secondo Knohl l’arcangelo Gabriele comanderebbe al messia morto di tornare alla vita (“in tre giorni, vivrai, io, Gabriele, te lo comando, principe dei principi”).
In realtà le cose non sono così semplici. Infatti, come accennato, il testo della tavola è colmo di lacune e di vocaboli indecifrabili, che riguardano anche punti chiave per la teoria di Knohl, ad esempio la stessa parola “vivrai”, hayeh: questa infatti era stata infatti ritenuta illeggibile da Ada Yardeni, che per prima aveva edito il testo, la quale tuttavia, una volta venuta a conoscenza dell’interpretazione di Knohl, ha detto di ritenere in effetti probabile che tale parola possa essere proprio hayeh (Yardeni invece si dichiara scettica circa la proposta di Knohl di identificare il personaggio che torna alla vita con Simone lo schiavo, un punto quest’ultimo che, del resto, lo stesso Knohl ha definito “congetturale”).
L’eredità del libro di Daniele tra Hazon Gabriel e Gesù
Ma il punto principale è che, quand’anche l’autenticità, l’antichità e l’interpretazione della stele fornita da Knohl venissero confermate (ma, a riguardo, è quanto mai doveroso invitare alla prudenza e ad attendere gli sviluppi di un dibattito accademico che è soltanto agli inizi), non ne segue affatto che tale ritrovamento dovrebbe “sconvolgere la nostra visione del cristianesimo”, come ha dichiarato Knohl, ritenendo che quest’idea del Messia che muore e risorge sarebbe stata adottata dai seguaci di Gesù e applicata a lui.
Di per sé, l’Hazon Gabriel, testimonierebbe semplicemente che tra le varie concezioni messianiche che caratterizzano il periodo noto come “giudaismo del secondo tempio” ce n’era anche una che attribuiva al Messia un destino di sofferenza salvo poi essere vendicato da Dio tramite risurrezione.
Ciò costituirebbe certamente un’acquisizione di grande importanza per la nostra conoscenza storica, e tuttavia non rappresenterebbe nulla di realmente “rivoluzionario”, una volta che si considera come in un testo fondamentale per l’epoca – specialmente per gli sviluppi messianici di cui è stato oggetto – quale il libro di Daniele, si afferma chiaramente che il popolo dei santi dell’Altissimo (Israele) subisce prima un destino di persecuzione e distruzione per poi ricevere da parte di Dio il regno eterno e il dominio su tutti i popoli (cf. Dn 7,25-27; ma si veda anche il riferimento ai maskilim in Dn 11,33, i saggi che pagano con il martirio la loro fedeltà e l’ammaestramento verso il popolo nel tempo della dell’apostasia, e che in Dn 12,3 vengono vendicati da Dio nella risurrezione, dove “risplenderanno come le stelle per sempre”).
Ed è con tutta probabilità al libro di Daniele che lo stesso Gesù si riallacciò con la sua particolare “teologia messianica” del Figlio dell’uomo sofferente, che deve essere consegnato nelle mani degli uomini e ucciso, per poi risorgere dopo tre giorni (cf. Mc 9,31). Questo detto marciano è stato considerato da molti esegeti un vaticinium ex eventu, ossia una profezia che gli evangelisti avrebbero posto sulla bocca di Gesù a seguito degli eventi pasquali.
In realtà esso (nell’assenza di dettagli che lo differenzia rispetto ad un detto analogo, ma fin troppo particolareggiato, come Mc 10,34), potrebbe costituire, più che un’anticipazione miracolosa dei successivi eventi pasquali, uno squarcio della “teologia” del Gesù storico che, rifacendosi probabilmente a Daniele, prevedeva per quell’ “Israele in nuce” che erano i Dodici un destino di sofferenza e tribolazione, prima di ricevere la giustificazione ed esaltazione da parte di Dio.
Ed è interessante, a riguardo, quanto afferma lo stimato esegeta cattolico Romano Penna (in una nota del suo I ritratti originali di Gesù il Cristo vol. I, p. 143) a seguito di una corrente di studiosi prevalentemente britannici, circa una possibile valenza anche “collettiva” dell’espressione Figlio dell’uomo, che poteva quindi, all’occasione, riferirsi non solo a Gesù, ma anche al gruppo dei discepoli avente Gesù al centro; un uso quindi che si accorderebbe all’immagine danielica del Figlio dell’uomo, che è al tempo stesso una figura individuale e il rappresentante del popolo dei santi dell’Altissimo (un altro studioso cattolico, Sean Freyne, ha invece interpretato Gesù e il suo gruppo lungo l’ “altra” linea danielica, quella dei maskilim).
Gesù dunque, con questo messianismo del Figlio dell’uomo avente carattere individuale/collettivo (Gerd Theissen parla di un Gruppenmessianismus, in cui le prerogative messianiche erano allargate ai discepoli, i quali, secondo Mt 19,28/Lc 22,28-30, avrebbero dovuto giudicare e governare le dodici tribù d’Israele nel veniente regno di Dio), fece propria una particolare concezione messianica articolata in due stadi: sofferenza prima, esaltazione poi. Con tutta probabilità, egli elaborò tale teologia alla luce del libro di Daniele. E come lo fece lui, nulla impedisce che anche altri potessero essere giunti a sviluppare intuizioni simili.
E tra questi ci potrebbe essere proprio l’autore di Hazon Gabriel, testo in cui peraltro i richiami danielici sono evidenti (si pensi anche solo ad elementi macroscopici come le rivelazioni da parte dell’angelo Gabriele e il riferimento al “principe dei principi”, figura presente anche in Dn 8,25, dove si dice che un “re sfacciato e intrigante” gli insorge contro, ma – a differenza che nella stele – senza successo).
La Visione di Gabriele, dunque, annunciando che dopo tre giorni il male sarà spezzato dalla giustizia e che il Messia sofferente sarà vendicato da Dio con il ritorno alla vita (verosimilmente in un contesto di risurrezione generale, sebbene quel che rimane del testo non lo dica), costituirebbe l’esempio di una particolare linea di sviluppo del pensiero escatologico-messianico, a partire dal libro di Daniele, lungo la quale, in modo analogo ma indipendente, si colloca il messianismo gesuano del Figlio dell’uomo che muore e risorge.
Di per sé, l’Hazon Gabriel, testimonierebbe semplicemente che tra le varie concezioni messianiche che caratterizzano il periodo noto come “giudaismo del secondo tempio” ce n’era anche una che attribuiva al Messia un destino di sofferenza salvo poi essere vendicato da Dio tramite risurrezione.
Ciò costituirebbe certamente un’acquisizione di grande importanza per la nostra conoscenza storica, e tuttavia non rappresenterebbe nulla di realmente “rivoluzionario”, una volta che si considera come in un testo fondamentale per l’epoca – specialmente per gli sviluppi messianici di cui è stato oggetto – quale il libro di Daniele, si afferma chiaramente che il popolo dei santi dell’Altissimo (Israele) subisce prima un destino di persecuzione e distruzione per poi ricevere da parte di Dio il regno eterno e il dominio su tutti i popoli (cf. Dn 7,25-27; ma si veda anche il riferimento ai maskilim in Dn 11,33, i saggi che pagano con il martirio la loro fedeltà e l’ammaestramento verso il popolo nel tempo della dell’apostasia, e che in Dn 12,3 vengono vendicati da Dio nella risurrezione, dove “risplenderanno come le stelle per sempre”).
Ed è con tutta probabilità al libro di Daniele che lo stesso Gesù si riallacciò con la sua particolare “teologia messianica” del Figlio dell’uomo sofferente, che deve essere consegnato nelle mani degli uomini e ucciso, per poi risorgere dopo tre giorni (cf. Mc 9,31). Questo detto marciano è stato considerato da molti esegeti un vaticinium ex eventu, ossia una profezia che gli evangelisti avrebbero posto sulla bocca di Gesù a seguito degli eventi pasquali.
In realtà esso (nell’assenza di dettagli che lo differenzia rispetto ad un detto analogo, ma fin troppo particolareggiato, come Mc 10,34), potrebbe costituire, più che un’anticipazione miracolosa dei successivi eventi pasquali, uno squarcio della “teologia” del Gesù storico che, rifacendosi probabilmente a Daniele, prevedeva per quell’ “Israele in nuce” che erano i Dodici un destino di sofferenza e tribolazione, prima di ricevere la giustificazione ed esaltazione da parte di Dio.
Ed è interessante, a riguardo, quanto afferma lo stimato esegeta cattolico Romano Penna (in una nota del suo I ritratti originali di Gesù il Cristo vol. I, p. 143) a seguito di una corrente di studiosi prevalentemente britannici, circa una possibile valenza anche “collettiva” dell’espressione Figlio dell’uomo, che poteva quindi, all’occasione, riferirsi non solo a Gesù, ma anche al gruppo dei discepoli avente Gesù al centro; un uso quindi che si accorderebbe all’immagine danielica del Figlio dell’uomo, che è al tempo stesso una figura individuale e il rappresentante del popolo dei santi dell’Altissimo (un altro studioso cattolico, Sean Freyne, ha invece interpretato Gesù e il suo gruppo lungo l’ “altra” linea danielica, quella dei maskilim).
Gesù dunque, con questo messianismo del Figlio dell’uomo avente carattere individuale/collettivo (Gerd Theissen parla di un Gruppenmessianismus, in cui le prerogative messianiche erano allargate ai discepoli, i quali, secondo Mt 19,28/Lc 22,28-30, avrebbero dovuto giudicare e governare le dodici tribù d’Israele nel veniente regno di Dio), fece propria una particolare concezione messianica articolata in due stadi: sofferenza prima, esaltazione poi. Con tutta probabilità, egli elaborò tale teologia alla luce del libro di Daniele. E come lo fece lui, nulla impedisce che anche altri potessero essere giunti a sviluppare intuizioni simili.
E tra questi ci potrebbe essere proprio l’autore di Hazon Gabriel, testo in cui peraltro i richiami danielici sono evidenti (si pensi anche solo ad elementi macroscopici come le rivelazioni da parte dell’angelo Gabriele e il riferimento al “principe dei principi”, figura presente anche in Dn 8,25, dove si dice che un “re sfacciato e intrigante” gli insorge contro, ma – a differenza che nella stele – senza successo).
La Visione di Gabriele, dunque, annunciando che dopo tre giorni il male sarà spezzato dalla giustizia e che il Messia sofferente sarà vendicato da Dio con il ritorno alla vita (verosimilmente in un contesto di risurrezione generale, sebbene quel che rimane del testo non lo dica), costituirebbe l’esempio di una particolare linea di sviluppo del pensiero escatologico-messianico, a partire dal libro di Daniele, lungo la quale, in modo analogo ma indipendente, si colloca il messianismo gesuano del Figlio dell’uomo che muore e risorge.
Scoperta rivoluzionaria? Sarà per un’altra volta
Ora, la conclusione di tutto questo è che l’Hazon Gabriel, lungi dallo sconvolgere la nostra immagine del cristianesimo delle origini, non farebbe altro che confermare ciò che già sappiamo: quanto, cioè, esso (persino nel suo elemento più distintivo, il kerygma pasquale) fosse profondamente inserito nell’ebraismo e compenetrato delle sue categorie (sebbene si debba precisare che tale concezione giudaica del Messia che muore e risorge, se davvero ci fu, ebbe sicuramente una diffusione marginale, dal momento che altrimenti non si spiegherebbe la generale resistenza che gli apostoli incontrarono con il loro annuncio della risurrezione del Crocifisso).
Coloro che invece, in modo molto superficiale, vorrebbero precipitarsi a concludere che i discepoli di Gesù, conoscendo l’Hazon Gabriel, lo avrebbero poi applicato (con una sorta di “copia-incolla”) alla vicenda del loro leader, non tengono minimamente conto del fatto che una cosa è trovare due concezioni tra loro analoghe, e tutt’altra cosa è concludere che una dipenda dall’altra. Per fare quest’ultimo passo, è necessario dimostrare che effettivamente esiste un legame di dipendenza delle testimonianze neotestamentarie rispetto allo Hazon Gabriel. Ma questa appare decisamente una causa persa.
Infine, da ultimo, bisogna ricordarsi che c’è una differenza fondamentale e irriducibile che permane: la risurrezione del Messia che (forse) troviamo nell’Hazon Gabriel è, sostanzialmente, soltanto un’idea, una “profezia” (non si parla del fatto che essa sia avvenuta), laddove lo specifico neotestamentario è l’annuncio di un evento già verificatosi, del quale dei testimoni affermano di aver avuto concreta esperienza.
In questo sta lo specifico cristiano rispetto al giudaismo da cui è nato: non nell’idea che la vittoria di Dio possa passare attraverso le vie della sofferenza, dell’umiliazione e della sconfitta (Israele conosceva già fin troppo bene – anche allora, assai prima della Shoah - quale amara verità potesse rivelarsi l’essere il popolo di Dio), bensì nell’annuncio che tale “vittoria di Dio nella sconfitta” ha già avuto definitivamente luogo nella croce di Gesù il Nazareno.
Coloro che invece, in modo molto superficiale, vorrebbero precipitarsi a concludere che i discepoli di Gesù, conoscendo l’Hazon Gabriel, lo avrebbero poi applicato (con una sorta di “copia-incolla”) alla vicenda del loro leader, non tengono minimamente conto del fatto che una cosa è trovare due concezioni tra loro analoghe, e tutt’altra cosa è concludere che una dipenda dall’altra. Per fare quest’ultimo passo, è necessario dimostrare che effettivamente esiste un legame di dipendenza delle testimonianze neotestamentarie rispetto allo Hazon Gabriel. Ma questa appare decisamente una causa persa.
Infine, da ultimo, bisogna ricordarsi che c’è una differenza fondamentale e irriducibile che permane: la risurrezione del Messia che (forse) troviamo nell’Hazon Gabriel è, sostanzialmente, soltanto un’idea, una “profezia” (non si parla del fatto che essa sia avvenuta), laddove lo specifico neotestamentario è l’annuncio di un evento già verificatosi, del quale dei testimoni affermano di aver avuto concreta esperienza.
In questo sta lo specifico cristiano rispetto al giudaismo da cui è nato: non nell’idea che la vittoria di Dio possa passare attraverso le vie della sofferenza, dell’umiliazione e della sconfitta (Israele conosceva già fin troppo bene – anche allora, assai prima della Shoah - quale amara verità potesse rivelarsi l’essere il popolo di Dio), bensì nell’annuncio che tale “vittoria di Dio nella sconfitta” ha già avuto definitivamente luogo nella croce di Gesù il Nazareno.
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