venerdì 10 febbraio 2012

Resurrecting Schweitzer. Il Gesù messia apocalittico di Giorgio Jossa


Il saggio di Jossa La condanna del Messia (Paideia, 2010) è un lavoro ammirevole per l'abilità nel modo in cui si affronta e si prende posizione su una quantità notevole tra le questioni più controverse nella ricerca storica su Gesù (dialogando con il meglio della ricerca internazionale), intessendovi, pagina dopo pagina, la trama di una tesi chiara, coerente e persuasiva. Naturalmente, da vecchio sandersiano che sono, non posso che essere in disaccordo su moltissimi degli argomenti di Jossa. Quasi tutti, in effetti. Nondimeno si tratta di un libro importante, e si desidererebbe che fosse il preludio ad un futuro lavoro in cui l'autorevole storico partenopeo argomentasse in modo più analitico e sistematico la tesi qui brillantemente presentata.
Dal momento poi che un lavoro del prof. Jossa è già stato tradotto in inglese per una delle più prestigiose collane internazionali di studi neotestamentari (Jews or Christians?, WUNT, Mohr Siebeck), credo che anche questo libro potrebbe trovare buona accoglienza nel panorama anglosassone, specialmente americano (che so, per la Eerdmans).

Segue un florilegio di estratti da La condanna del Messia:

Se appare molto difficile parlare di pretesa messianica di Gesù nel quadro di un giudaismo assai poco caratterizzato dall’attesa messianica, ancora più problematico può essere distinguere in maniera troppo netta la predicazione non messianica di Gesù dalle attese messianiche dei suoi seguaci (p. 49)

Né i dottori e profeti come Giuda il Galileo, Teuda e il profeta egiziano né i ribelli come Giuda, Simone e Atronge, o Menahem e Simone bar Giora, possono essere realmente utilizzati come elementi comparativi per la pretesa messianica di Gesù (p. 73)

Il ridimensionamento della speranza messianica davidica di Israele ha preso anche una diversa direzione: quella dell’allargamento della speranza alle dimensioni cosmiche di un regno universale, non più identificato semplicemente con il regno d’Israele. Si tratta del riferimento delle fonti giudaiche di questo periodo a tutta una serie di personaggi celesti il cui compito non ha più a che fare soltanto con la rivolta al dominio straniero e il destino politico di Israele ma con la sorte di tutti gli uomini sullo sfondo del cosmo intero. Una delle novità più significative della ricerca attuale sul Gesù storico è infatti nel riconoscimento dell’esistenza di un’attesa messianica rivolta a personaggi di carattere non terreno, ma celeste (p. 73)

Se questo materiale immaginario era realmente diffuso all’epoca di Gesù, non è impossibile che Gesù abbia conosciuto queste speculazioni sui Messia celesti e ne abbia utilizzato le immagini per la sua lotta attuale contro il potere del demonio e la sua futura funzione di figlio dell’uomo (pp. 80-81)

Messia non è necessariamente colui che si definisce o viene indicato con questo titolo o con un titolo simile. Messia è per me quel personaggio (storico) che avrà un ruolo decisivo negli eventi della fine dei tempi. (p. 81)

Il battesimo di Gesù significa che evidentemente la sua adesione al gruppo di Giovanni, dopo la quale, come afferma il quarto vangelo, Gesù è rimasto un certo tempo nell’orbita del Battista. (…) Per un certo periodo, non sappiamo quanto lungo, Gesù deve aver fatto sue le posizioni di Giovanni, insistendo quindi anch’egli sulla prospettiva del giudizio, la necessità del pentimento e il rito del battesimo. Il tutto dominato ancora probabilmente dall’attesa di un ‘più forte’ che avrebbe battezzato non in acqua, ma in spirito santo o in spirito santo e fuoco, inaugurando così realmente i tempi escatologici. Come Giovanni, Gesù non avrebbe potuto quindi considerare la sua missione se non come quella di ‘uno dei profeti’ , e più in particolare come quella di un Elia (pp. 96-98)

Iniziando un ministero autonomo, Gesù imprime però una svolta decisiva alla predicazione del battista. E’ qui che non posso seguire Meier e ritengo abbia invece ragione Hollenbach (e con lui J.D. Crossan). (…) Più che sul prossimo giudizio di Dio al quale prepararsi col pentimento e il battesimo, Gesù insiste sull’imminenza di un intervento salvifico di Dio da accogliere con fede (…) Questo significa che già quando ha lasciato Giovanni ed è venuto in Galilea ad annunciare che il regno di Dio era vicino, Gesù non si è presentato più come ‘uno dei profeti’, o anche un Elia, come faceva ancora Giovanni, che invitava al pentimento in vista del giudizio, e come hanno creduto ancora di lui, secondo Mc 8,28, alcuni dei suoi ascoltatori, ma come il profeta escatologico, cioè l’ultimo dei profeti, che annunciava la buona novella dell’imminente arrivo del regno. (pp. 98-99)

Nella valutazione del carattere della sua attività miracolosa appare una chiara revisione del tradizionale messianismo giudaico da parte di Gesù. (…) Gli atti messianici non consistono nella cacciata dei romani dalla terra d’Israele, ma nella vittoria su Satana e nella liberazione dal suo dominio da parte di Gesù. (…) L’avvento del regno di Dio non richiede anzitutto la liberazione dal dominio straniero. La visione teocratica di Giuda il Galileo è nettamente rifiutata. (p. 107)

Proprio nel momento in cui Gesù invitava i suoi discepoli a riconoscerlo come Messia egli aveva anche rinviato la venuta definitiva del regno a un tempo più lontano. E aveva cominciato quindi a prendere ancor più le distanze da una idea messianica troppo legata alle speranze terrene di Israele. E’ la seconda svolta della predicazione di Gesù. (p. 110)

Credo che un accenno alla probabilità di una sua sofferenza e al fatto quindi che egli avrebbe concluso la sua missione non come Messia terreno re di Israele ma come figlio dell’uomo celeste chiamato al giudizio divino Gesù abbia cominciato a farlo proprio avviandosi verso Gerusalemme, dove tutto lasciava pensare che la sua missione si sarebbe conclusa tragicamente (pp. 110-111).

Le difficoltà evidenti che incontrava la sua azione col conflitto crescente con i farisei hanno fatto sì che la venuta del regno gli è apparsa più lontana ed egli ha visto la manifestazione della sua identità messianica solo come manifestazione della futura gloria del figlio dell’uomo. Una gloria che non poteva non comportare il passaggio per la sofferenza e la morte (p. 111)

La pretesa messianica di Gesù non ha più un carattere terreno, ma celeste. La gloria che egli attende non è la gloria del re davidico nel riscatto d’Israele, ma quella del testimone celeste nel giudizio del mondo. (…) L’origine davidica del Messia, che con ogni probabilità Gesù possedeva realmente, non è affatto negata, ma si palesa del tutto insufficiente a indicarne la gloria futura (…) Se un’immagine si può proporre per la figura del Messia, non è quella del re David dei profeti e dei salmi, ma quella degli angeli Michele e Melchisedeq dei testi di Qumran. E se un titolo spetta a questo Messia, non è quello di figlio di David dei Salmi di Salomone, ma quello di figlio dell’uomo delle parabole di Enoch. (pp. 111-113)

Gesù conserva fino in fondo la certezza della vittoria finale di Dio e della sua partecipazione ad essa. Alla celebrazione del banchetto escatologico nel regno di Dio egli sarà presente (…) Nella morte imminente Gesù non ha visto soltanto il fallimento della sua missione terrena, ma il compimento misterioso, e per certi versi incomprensibile, della volontà salvifica di Dio. L’avvento del regno non è previsto come imminente su questa terra e richiede necessariamente il passaggio di Gesù per la sofferenza e morte. (pp. 113-114)

martedì 22 novembre 2011

Chi è l'esegeta peggiore: Gesù o Adela Yarbro Collins?


John Meier e Adela Yabro Collins sulla plausibilità storica del dialogo in Mc 2,23-26 tra Gesù e i farisei sulle spighe colte di Sabato e il comportamento di Davide in 1Sam 21,2-10.

"This Marcan Jesus is not only ignorant but reckless, foolishly challenging Scripture experts to a public debate about the proper reading of a specific text - only to prove immediatly to both his disciples and his opponents how ignorant he is of the text that he himself has put forward for discussion.
If this scene gives us a true picture of the scriptural knowledge and teaching skill of the historical Jesus, then the natural and very effective response of the Pharisees would have been not fierce anger and concerted opposition but gleeful mockery.
(...) I dare say, if this was the actual competence of the historical Jesus in teaching and debating, his movement would not have lasted a month 1st-century Jewish Palestine"
(John P. Meier, A Marginal Jew: Rethinking the Historical Jesus. Vol. 4: Law and Love, New Haven: Yale University Press, 2009, p. 278)

"It is quite plausible (...) that the original dialogue consisted of vv. 23-26. (...) The incident described in vv. 23-26 and the style and content of the argumentation are quite credible in the context of disputes among interpreters of the Law in the first century CE.
(...) This conclusion does not imply that vv. 23-26 report accurately an actual incident in the life of the historical Jesus; rather they represent the sort of debate he may well have engaged in and the manner of his argumentation (cf. Dibelius, From Tradition to Gospel, p. 64)"
(Adela Yarbro Collins, Mark, Hermeneia, Minneapolis: Fortress, 2007, p. 201 e n. 120).

Direi che più in disaccordo di così, proprio non si può.
Ovviamente tra i due ha decisamente ragione Meier nel far notare quanto errata ed insulsa sia l'argomentazione di Gesù: errore su Abiathar e irrilevanza dell'episodio di 1Sam 21 rispetto all'accusa contro i discepoli, in quanto: a) Davide era solo e non diede i pani della presenza a nessuno; b) nulla suggerisce che l'episodio sia avvenuto di Sabato e come tale fosse tradizionalmente compreso (se non un tardivo dialogo rabbinico in b. Menachot 95b-96a).
Mi duole invece dire che l'altrimenti validissima Adela Collins doveva essere parecchio ubriaca allorché si lasciava andare a questo giudizio a dir poco avventato, e sopratutto per nulla argomentato al di là di un bizzarro rinvio ad una paginetta di Martin Dibelius che assolutamente nulla ha da dire circa i vv. 23-26 (bensì fa un'osservazione sul v. 27).
Dopoché, la Collins conclude con il botto la sua esegesi fermentata, affermando che "verses 27-28, however manifest reflection on the person of Jesus and his role that fits better in a post-Easter context" (ibidem), il che è innegabilmente (e anche banalmente) vero per il v. 28, ma che cos'abbia mai di cristologico il logion del "Sabato creato per l'uomo, non l'uomo per il Sabato" (con il suo altrettanto noto parallelo rabbinico: "Il Sabato è dato a voi, non voi al Sabato"; Mek. Es 31,14; b. Yom. 85b), proprio non ci è dato sapere.

Un ultima cosa: le scintille di un Meier pure lui in evidente stato di sovraeccitazione (non alkoholika, ma halakika) nell'infierire sul povero "Gesù marciano" (con qualche notevole randellata pure a Maurice Casey, v. n. 130, p. 328), non devono distrarre il lettore dal fatto che il nostro paladino ha di soppiatto mandato gambe all'aria uno dei più solidi indici d'autenticità storica, ovvero il criterio d'imbarazzo: passi per il Gesù beone e il Gesù pazzo e indemoniato, ma il "Gesù-Trota" è troppo imbarazzante per essere vero.

giovedì 27 ottobre 2011

Quel Giovanni...ma chi si credeva d'essere?



L'amico L.W. nel suo ottimo blog Paulus 2.0 ha pubblicato alcune interessanti pagine di Hartmut Stegemann (autorevole studioso dei Rotoli del Mar Morto) su Giovanni il Battista. Prendo volentieri lo spunto da esse per buttare giù un paio di riflessioni.

Anzitutto vorrei dire che apprezzo l'accento che Stegemann pone sull'orientamento salvifico della missione di Giovanni, anche solo per il fatto che sarebbe altrimenti ben difficile spiegarci l'ampio successo popolare da lui riscosso (sul che Flavio Giuseppe e vangeli concordano), qualora - come vorrebbe farci credere ad es. Jürgen Becker e un po' tutta l'esegesi tedesca - il suo messaggio fosse consistito solo nel dichiarare lo stato di totale perdizione d'Israele e l'abolizione di qualsiasi sua intrinseca prerogativa salvifica, secondo una diffusa e problematica lettura di Q 3,7-9.
E anche la sua valorizzazione del significato simbolico della collocazione sulla sponda orientale del Giordano è interessante, e più lo si accentua e più Giovanni diventa simile ai "profeti dei segni" (io però sono convinto che Giovanni battezzasse anche altrove ).

Stegemann mi convince invece decisamente meno nel definire "sacramentale" il battesimo di Giovanni e nell'enfatizzarne la funzione salvifica al punto da renderlo l'unica mediazione possibile. Se cerchiamo di prendere sul serio la testimonianza di Flavio Giuseppe - certo, integrandovi quelle dei vangeli -, ecco che l'immersione non ha la benché minima valenza sacramentale: è un rito di purificazione corporea attraverso cui coloro che hanno previamente ottenuto la purificazione interiore (ovvero la remissione dei peccati) tramite la conversione e atti di giustizia, completano infine il loro processo di ritorno e santificazione in preparazione dell'avvento di Dio o del suo plenipotenziario messianico (io, con Stegemann, sono per la prima).

Infine, quanto più si insiste sulla mediazione salvifica unica di Giovanni e del suo battesimo, tanto più si dovrebbe rispondere alla seguente (un po' provocatoria) domanda: ma Giovanni quante persone pensava realisticamente di poter battezzare? E chi non veniva raggiunto dalla sua predicazione? E chi, pur sentendone parlare e magari apprezzandolo, non riteneva di doverci andare perché viveva già con coerenza la Torah? Probabilmente sono domande inopportune: Giovanni, forte della sua coscienza profetica, poteva ben andare dritto per la sua strada senza porsi troppi problemi.
Bisognerebbe però rendersi conto che quando si enfatizza a tal punto l'imprescindibilità salvifica del suo battesimo (ovvero: "si salva solo chi riceve il battesimo, e un battesimo impartito da me personalmente"), si sta attribuendo a Giovanni una mentalità che definire "settaria" è decisamente poco: gli esseni almeno si salvavano con il far parte di una comunità, la Yahad (in senso ampio, non quella singola di Khirbet Qumran), e con l'osservanza radicale della Torah come da loro interpretata.

O forse Giovanni metteva in conto il battesimo... di desiderio? ( se non addirittura la possibilità di "battezzati anonimi"!)

domenica 27 marzo 2011

Father Meier regrets Benedict XVI endorsement: "Holy shit, it was supposed to be an UN-PAPAL conclave!"


So what are we to say? The most meticulous evaluation I have come across of all the solutions proposed so far is found in the book A Marginal Jew: Rethinking the Historical Jesus, by John P. Meier, who at the end of his first volume presents a comprehensive study of the chronology of Jesus’ life. He concludes that one has to choose between the Synoptic and Johannine chronologies, and he argues, on the basis of the whole range of source material, that the weight of evidence favors John.
(Benedict XVI, Jesus of Nazareth. Holy Week: From the Entrance into Jerusalem to the Resurrection, San Francisco, Ignatius Press, 2011, p. 192)

venerdì 11 febbraio 2011

Banning Bannus! Lo storico e l'immaginazione, secondo James Charlesworth

Trovo imbarazzante che uno dei più rinomati studiosi di origini cristiane e giudaismo del secondo tempio, possa scrivere un articolo di pura fantasia, destinato a comparire in un’imponente e accreditata opera di riferimento.

Purtroppo questo è il caso dell’articolo dell’esimio prof. James H. Charlesworth “John the Baptizer and the Dead Sea Scrolls”, pubblicato nell’opera in tre volumi da lui stesso edita: The Bible and the Dead Sea Scrolls (Baylor University Press, 2006, vol. III, pp. 1-35).

Charlesworth comincia con il notare “six striking similarities” che accomunano il Battista e gli uomini di Qumran (l’Autore considera precisamente i qumraniti, e non gli Esseni in generale): 1) la prossimità geografica; 2) la comune valorizzazione di Isaia 40,3; 3) L’interesse per le purificazioni rituali in collegamento con una precedente purificazione dal peccato; 4) L’enfasi sul giudizio imminente e la condanna delle autorità religiose gerosolimitane (questo secondo aspetto, non certo lampante nel caso del Battista, viene argomentato con un mero rimando all’opera di Paul Hollenbach – altro studioso a cui notoriamente la fantasia non fa difetto); 5) L’ascetismo e il celibato; 6) l’uso dell’espressione “razza di vipere”.

Dopo ciò, il passo successivo di Charlesworth è valutare le innegabili divergenze: 1) il battesimo di Giovanni era praticato una volta soltanto, laddove le immersioni qumraniche erano quotidiane; 2) Giovanni esercitava una missione finalizzata al pentimento di Israele, mentre i qumraniti – con la loro teologia dualista, determinista ed esclusivista – consideravano come massa dannata tutti gli outsiders alla Yahad; 3) contrariamente a Qumran, alla comunità del Battista (??? – sic!) si accedeva in modo immediato ed essa non contemplava gerarchie interne, punizioni ed espulsioni.

Stabiliti pro & cons circa un legame tra il Battista e Qumran, Charlesworth passa a contestare, in modo non certo irresistibile, gli argomenti espressi da Joan Taylor contro tale collegamento, accusandola di valutare i paralleli attraverso una metodologia troppo rigida, ristretta e ovviamente… positivista! (immancabile babau di tutti i biblisti conservatori).

Se dunque i paralleli significativi ci sono, e non è pertanto possibile negare l’esistenza di un rapporto tra il Battista e Qumran, l’altrettanto evidente presenza delle divergenze, conduce Charlesworth all’inevitabile (?) conclusione che Giovanni fu a Qumran per un certo periodo, ma successivamente se ne distaccò.

A questo punto, sgomberato il terreno da ogni riserva positivista e fattosi scudo dell’opinione di Joseph Fitzmyer, secondo cui l’idea di un Battista con trascorsi a Qumran è una “plausibile hypothesis, one that I cannot prove, and one that cannot be disproved” - Charlesworth si sente finalmente autorizzato a sciogliere le briglia della sua fantasia, e, con un coup de théatre, passa direttamente a porre un quesito ardito… al quale ancora nessuno è riuscito a dare una risposta:

che cosa mai spinse Giovanni a lasciare Qumran?

Ed è qui che, tutto d’un tratto, i cieli si spalancano e il lettore vede discendere un deus ex machina sull'articolo:

Adding historical imagination to what we have been told about the Baptizer by Josephus and the Evangelists, it is clear…”.

E’ chiaro cosa?…

E' chiaro che nel corso dei due anni di noviziato qumranico, Giovanni, forte della sua discendenza sacerdotale aronita, avrebbe in un primo tempo gioito nel declamare passaggi del rituale di rinnovamento dell’alleanza come 1QS 1,21-25 (“Abbiamo operato iniquamente … abbiamo peccato … noi e i nostri padri prima di noi …”), che tanto gli avrebbero ricordato le parole udite pronunciare da bambino al babbo Zaccaria durante i suoi turni nel tempio.

E più ancora il giovane Giovanni si sarebbe infervorato nel recitare benedizioni come 1QS 2,1-4 (“… e i sacerdoti benediranno tutti gli uomini della parte di Dio che perfetti camminano in tutte le sue vie e diranno: Vi benedica con ogni bene, e vi guardi da ogni male, … alzi su di voi il volto della sua grazia … “), nelle quali avrebbe certamente stimato come incluso anche il suo caro babbo Zaccaria.

Ma questo idillio era troppo bello per durare. Già a partire dalle righe immediatamente successive il suo cuore avrebbe cominciato a turbarsi. In 1QS 2,4c-10 si dice infatti che: “E i leviti malediranno tutti gli uomini della parte di Belial. Prenderanno la parola e diranno: Sia tu maledetto per tutte le tue empie opere colpevoli … Non abbia Dio misericordia quando lo invochi, né ti perdoni quando espii le tue colpe …”. Queste parole erano troppo dure per un “uomo buono” (così Flavio Giuseppe) come Giovanni: pronunciarle significava per lui maledire il babbo Zaccaria e tutte le persone che aveva amato.

Così, a poco a poco, la voce con cui Giovanni declamava queste maledizioni durante le riunioni dei Molti, cominciò a farsi sempre più bassa e impercettibile, finché un bel giorno il Maskil si accorse che egli non si associava più ai Molti nel pronunciare l’ “Amen, amen” conclusivo.

E qui il destino di Giovanni fu segnato per sempre. Tutto d’un tratto, da Figlio della Luce che era, egli si trovò ad essere un Figlio delle Tenebre, e venne espulso dalla comunità. E questo significò per Giovanni venire a trovarsi in una impasse esistenziale insolubile: da un lato, egli aveva rotto radicalmente con il comune mondo giudaico da cui proveniva, acquisendo una nuova identità sociale; dall’altro, questa identità acquisita non aveva più possibilità di esprimersi. E nemmeno poteva pensare di tornare indietro al mondo che aveva lasciato, oppure di andare in cerca di nuove identità rivolgendosi ad altri gruppi: da homo religiosus qual era, infatti, egli continuava a sentirsi vincolato a quei voti che solennemente aveva intrapreso di fronte a Dio, entrando a Qumran.

In poche parole: Giovanni si trovava bloccato in uno stato di liminalità permanente.

E con questo viene finalmente svelato l'arcano delle bizzarre notizie evangeliche sulla dieta e l'abbigliamento di Giovanni. Poveraccio! Sentendosi ancora vincolato ai giuramenti fatti allorché era entrato nella Yahad, egli non poteva accettare di ricevere né cibo né vestiti da chiunque non fosse un Figlio della Luce (e questo nonostante la causa della sua espulsione fosse stata proprio l’incapacità di accettare il dualismo determinista di Figli della Luce/Figli delle Tenebre), i quali da parte loro si guardavano però bene dall’andarlo a trovare, lasciandolo ben volentieri da solo a morire di fame.

E così il povero Giovanni Senzaterra si trovò a doversi cibare e vestire con quel che gli riusciva di trovare in natura: locuste, miele selvatico, pelo di cammello.

Fortuna volle che egli venisse poi raggiunto da una potente chiamata profetica, che lo trasformò di colpo in un leader carismatico capace di incendiare le folle con i suoi appelli al pentimento e le sue invettive, nelle quali si faceva peraltro ben sentire il vecchio vizietto qumranico di maledire gli altri ebrei (“razza di vipere”), anche se nel caso di Giovanni tali gentilezze non erano gratuite, bensì riservate a coloro che liberamente rifiutavano il suo messaggio. In ogni caso, attingendo alla propria amara esperienza, il nuovo Battista profeta avrebbe iconoclasticamente spronato "those who came to him to break free of the usual social categories" ossia "to abandon their proud claim to be children of Abraham"; sebbene, per conto suo, egli ancora non riuscisse ad accettare la più piccola cosa da un Figlio delle Tenebre.

Dopo questa scorpacciata di “historical imagination”, il lettore sente che la sua pancia è già abbastanza piena, e guarda con fiducia alle ultime tre pagine dell’articolo, consolandosi al pensiero che tutto sia già stato detto, e ci siano solo da tirare le somme.

Ma ecco che proprio nelle ultime venti righe prima della conclusione Charlesworth tira la stoccata finale:

“There is a possible sequel to this attractive scenario”

Aaaargh… si teme il peggio,

e il peggio arriva con il nome di BANNUS.

“As with the Baptizer, Bannus may also have once been a member of the Qumran Community but left it, or was expelled from it”.

Ebbene sì, ecco un altro povero ossesso costretto dai suoi stessi voti a indossare solo quello che trova sugli alberi e a mangiare solo quel che cresce da sé , nonché ad immergersi senza posa nell’acqua fredda.

A questo punto il lettore ha già preparato il cappio al collo, nel leggere che

“Bannus is not only a name, it is a description”.

Sì, questa è la fine. Lo sta per dire, lo sta per dire:

Bannus means… Banned!

Dillo, James, avanti: spara senza pietà!

E invece no.

Con un sussulto di sobrietà, Charlesworth si limita ad osservare che Bannus deriva probabilmente da bnn’h, ossia “bather”, il che è a dire, in pratica, “baptizer”.

Pericolo scampato. Grazie, Jim.

Le righe che ancora rimangono offrono solo un conciso riepilogo di quanto esposto nelle precedenti trenta pagine, nel quale Charlesworth si premura di ribadire al lettore – se non fosse abbastanza chiaro -, che:

“The historian must attempt some synthesis and use SOME historical imagination that accounts for all the relevant data”.


Al lettore del volume 3 di The Bible and the Dead Sea Scrolls, il compito di giudicare se questa “recensione” sia una parodia dell’articolo di Charlesworth, o se è l’articolo di Charlesworth ad essere una parodia degli studi storici.

Sono io ad aver mancato di rispetto ad un grande studioso? O è un grande studioso ad aver preso in giro i suoi lettori, propinando loro trenta pagine di “immaginazione”?

_________


Per comodità dei lettori, offro di seguito un sommario dell’articolo di Charlesworth.

Immaginiamo che Giovanni provenisse effettivamente da famiglia sacerdotale (almeno questo in fin dei conti sono disposti ad accettarlo in molti) e che suo padre si chiamasse effettivamente Zaccaria. Immaginiamo che Lc 1,80 anziché essere una “cerniera” redazionale che si congiunge a 3,1 , contenga un ricordo storico. Immaginiamo che, nel deserto, Giovanni sia stato proprio a Qumran. Immaginiamo che lì abbia ricevuto un’iniziazione completa. Immaginiamo che gioì nel pronunciare le benedizioni del Rotolo della Comunità, e che, nel farlo, egli pensasse sicuramente di benedire di fatto anche papà Zaccaria. Immaginiamo però che il suo affetto per papà Zaccaria e per le altre persone che aveva amato gli impedì di digerire le maledizioni del Rotolo della Comunità. Immaginiamo che a poco a poco, durante le riunioni, smise di pronunciarle. Immaginiamo che sia stato beccato ed espulso. Immaginiamo che sebbene egli ripudiasse il dualismo deterministico (non ci sono Figli delle Tenebre), continuò nondimeno a sentirsi vincolato a quei giuramenti che lo supponevano (non si accetta nulla da un Figlio delle Tenebre). Immaginiamo che fu questa schiavitù a obbligare Giovanni a cibarsi di locuste e miele selvatico e a vestirsi di pelo di cammello. Immaginiamo tutto questo, ed ecco che abbiamo di fronte a noi una plausibile spiegazione di come Giovanni abbia potuto abbandonare quella comunità di Qumran nella quale abbiamo immaginato egli fosse entrato. Il tutto soddisfa per giunta il criterio di "plausibilità contestuale immaginaria", in quanto possiamo immaginare che un fenomeno identico si sia verificato nel caso di Banno.

lunedì 20 dicembre 2010

Gesù, la purità rituale, i peccatori. Un triangolo, un cliché

I due ultimi libri di Giorgio Jossa mi lasciano abbastanza insoddisfatto su molti punti sui quali vorrei soffermarmi, ma non ne ho purtroppo il tempo. Mi concedo giusto qualche osservazione a partire da un’affermazione che Jossa fa di passaggio nel suo Gesù. Storia di un uomo, allorché tratta delle presunte “libertà” che Gesù si prende nei confronti della legge mosaica, e nella fattispecie delle norme di purità.

A pag. 94 si legge: “Gesù ha mostrato scarsa attenzione a queste norme. Già lo stare a tavola con i pubblicani e i peccatori, trattandosi di persone probabilmente impure, doveva porre inevitabilmente anche problemi di purità”. Questo ragionamento purtroppo è completamente inficiato da una confusione fondamentale.

Jonathan Klawans (Impurity and Sin in Ancient Judaism, 2000) ha illustrato molto bene come in tutta una serie di opere bibliche ed intertestamentarie (Levitico, Numeri, Ezra, Nehemia, Rotolo del Tempio, Documento di Damasco, Libro dei Giubilei) siano chiaramente distinguibili, e permangono come tali, due diverse forme di impurità: una impurità rituale legata agli ambiti naturali della sessualità, della nascita e della morte; e una impurità morale causata da “abomini” come l’idolatria, l’omicidio e peccati sessuali.

Nel primo caso si tratta di una impurità non-peccaminosa, bensì inevitabile e perfino doverosa, che si propaga per contatto, ma in modo non-permanente e facilmente removibile, e che ha come effetto l’esclusione temporanea dal santuario o, in certi casi, dalla comunità. Nel secondo caso, si tratta di un’impurità peccaminosa, non trasmettibile e per nulla incompatibile con l’accesso al tempio (ma capace di contaminarlo moralmente – e non ritualmente –, anche a distanza, come pure la terra d’Israele in genere, fino a determinare l’esilio), e rimovibile non mediante abluzioni, ma solo con la punizione (che può essere la morte) e l’espiazione.

Una fusione di queste due distinte forme di impurità, sembra essere stata tipica solo della comunità di Qumran, nella quale il peccato era considerato causa di impurità rituale e, viceversa, l’impurità rituale peccaminosa. All’opposto dei qumraniti, i successivi maestri tannaitici svilupparono ulteriormente la distinzione biblica in quella che Klawans definisce una “compartimentalizzazione” delle due impurità.

Tornando a Jossa, il problema nella sua affermazione è la mancata realizzazione del fatto che, di per sé, il frequentare un peccatore non comprometteva affatto la purità rituale. In linea generale, Gesù non avrebbe dovuto compiere alcuna pratica di purificazione per il fatto di essere entrato in contatto con un ladro o un pubblicano, come pure con un pagano (le preoccupazioni che diversi scritti hanno per i gentili come fonte d’impurità riguardano infatti la sfera morale: la loro idolatria, le loro perversioni sessuali). E tantomeno Gesù, venendo in contatto con costoro, avrebbe compromesso la sua purità morale, dal momento che questa era una realtà individuale e non-trasferibile, e che oltretutto egli si associava a loro non certo per approvarne le azioni, bensì per correggerle così da reintegrare quelle “pecore perdute” nell’Israele in-via-di-restaurazione.

Né si può assumere gratuitamente che i “peccatori”, per il solo fatto di essere tali, fossero automaticamente irriguardosi delle basilari norme di purità rituale. Cosa impedisce di pensare che un peccatore come Zaccheo non ci tenesse ad immergersi dopo aver avuto rapporti sessuali? O per quale ragione si dovrebbe assumere che un peccatore se ne infischiasse della kashrut e banchettasse a base di porco e coniglio? E in ogni caso, quand’anche questi peccatori fossero stata gente che se ne fregava completamente della purità rituale (o che, nel caso del prostitute, non potessero farci niente), per riguadagnare la purità perduta nell’accostarsi a loro, Gesù non avrebbe dovuto perdere che pochissimo tempo e fatica (il fatto che i vangeli non ci dipingano un Gesù nell’atto di immergersi è perfettamente spiegabile con l’assoluta banalità e non-memorabilità di tale pratica).

In conclusione: i contatti che Gesù ebbe con i “peccatori” - avessero o meno conseguenze per la sua purità rituale (ma non certo per il loro essere “peccatori”) - non costituiscono in alcun modo un argomento per stabilire quale opinione e atteggiamento egli avesse rispetto alle norme bibliche di purità. Parlare a questo riguardo di "prese di libertà" è completamente fuori luogo, dal momento che la Torah non prescrive affatto di non contrarre impurità, ma solo come purificarsene una volta contratte. Non è detto che associandosi ad un peccatore egli si contaminasse ritualmente, e anche se ciò fosse accaduto (come pure è probabile), egli avrebbe facilmente saputo riacquistare lo stato di purità, sicché tutto ciò che se ne potrebbe concludere è solo che la preoccupazione per la purità rituale non era per lui un'ossessione tale da impedirgli di cercare di convertire un peccatore. Il che è ben poca cosa.

giovedì 18 novembre 2010

A shaman-like millenarian prophet?

Mi riallaccio volentieri ad un post su Paulus 2.0 (che a sua volta rimanda al blog di Loren Rosson) in cui si segnalano i libri di Pieter Craffert (2008) e Dale Allison (2010), come indicatori delle attuali tendenze nella ricerca sul Gesù storico.
Secondo Rosson le due opere manifestano affinità a prima vista sorprendenti, dal momento che l'una delinea la figura di uno sciamano, l'altra del classico profeta apocalittico (e tuttavia se, come è stato sostenuto, sciamani erano anche i "descenders to the chariots" degli scritti "hekhalot", e se questi rappresentano a loro volta uno sviluppo della letteratura apocalittica - ecco che la sorpresa è già ridimensionata).
A mio modesto giudizio gli approcci (e i risultati) dei due studiosi restano notevolmente differenti (Craffert ambisce addirittura a segnare una svolta storiografica), sebbene io stesso riconosca una significativa convergenza nel comune abbandono - per strade diverse - della pretesa di poter autenticare singoli detti o fatti di Gesù.

Qui vorrei però dire la mia sul confronto tra la tipologia sociale dello sciamano e quella del profeta apocalittico. Una volta riconosciuto quello che è chiaramente il maggior punto di contatto tra di esse - le esperienze di rivelazione e di accesso al mondo celeste -, la mia impressione è però che lo sciamano sia una figura decisamente più “statica” del profeta.
Lo sciamano agisce infatti – nelle sue varie funzioni di guaritore, rivelatore, custode/innovatore del patrimonio culturale – nei confronti e a beneficio di una comunità, il cui riconoscimento è la condizione di possibilità del suo stesso ruolo.
Questa “integrazione” non mi sembra invece essere così essenziale del profeta, il quale non di rado appare come una figura dai tratti conflittuali (e non è certo un caso che la dimensione conflittuale della vicenda di Gesù non riceva pressoché alcuna attenzione nel libro di Craffert).
Comunque stiano le cose in astratto, nel caso di Gesù penso che il suo stile di vita itinerante, il suo ruolo di outsider e la sua stigmatizzazione come deviante non s’inquadrino benissimo entro il modello sciamanico. Ritengo perciò preferibile vedere in Gesù il leader profetico (con venature sciamaniche, se si vuole) di un movimento, piuttosto che il broker celeste di una specifica comunità.