Sanders è uno tra i più grandi studiosi del Gesù storico degli ultimi venti- trent’anni. Egli ha impresso per sempre il proprio nome nella storia della disciplina soprattutto con il suo lavoro del 1985, il “ground-breaking” Jesus and Judaism (vedi sotto).
Il volume a cui ci riferiamo ora rappresenta invece un tentativo, felicemente riuscito, di riprendere, a dieci anni di distanza, le analisi e le conclusioni del suo masterpiece, presentandole in una veste accessibile anche ad un lettore privo di qualsiasi esperienza di studi storici o neotestamentari.
A dispetto di una mole complessiva non indifferente (non inganni l’aspetto rassicurante e poco ingombrante degli Oscar Mondadori!) il libro può essere letto senza alcuna difficoltà da chiunque, senza alcun requisito particolare al di fuori di un pizzico di pazienza. In effetti, prima di cimentarsi con la figura di Gesù, il lettore deve attendere un centinaio di dense pagine, nelle quali Sanders (tra i massimi esperti di Giudaismo al mondo) delinea la fisionomia del Giudaismo del Secondo Tempio (con la sua tipica tesi dell’esistenza di un “Common Judaism”), la situazione politica dell’epoca, introduce il lettore al problema delle fonti dirette e indirette sulla vita di Gesù, e, infine (e questo rappresenta una novità rispetto all’opera del 1985) al contesto specificamente galilaico del suo ministero.
Benchè Sanders non sia affatto un autore privo di radicalità (Cf. la tesi secondo cui Gesù avrebbe offerto il Regno ai peccatori senza invitarli in alcun modo alla conversione; oppure una certa minimizzazione della dimensione “presente” dell’escatologia di Gesù, in favore unilateralmente di quella “futura”; o ancora, la negazione di un significativo conflitto di Gesù con i farisei, e, tanto meno, di una sua tensione con la Legge mosaica), e nonostante la sua completa estraneità a qualsivoglia interesse teologico, egli, nel panorama complessivo della disciplina (soprattutto per quanto riguarda gli Stati Uniti) è finito a poco a poco per stare sul versante “conservatore” dello spettro degli studi (anche se l’utilizzo di tale termine, nel suo caso, necessiterebbe di numerose altre virgolette!), ma ciò non è dipeso da lui: semplicemente, dopo che aveva "shockato" il mondo accademico nel 1985 con la radicalità del suo Jesus and Judaism, è stata buona parte di questo stesso mondo accademico (vedi la nuova North-American Perspective del Jesus Seminar) ad imboccare una strada ancora più radicale (benchè completamente diversa).
Per parte sua, Sanders è semplicemente rimasto fermo.
Caratteristico dell’approccio di Sanders – qui come nella sua opera maggiore – è una scarsa fiducia nelle possibilità e nell’opportunità di un’analisi atomistica dei singoli detti di Gesù quale punto di partenza per cominciare la ricostruzione storica. Egli (soprattutto in Jesus and Judaism) comincia piuttosto con lo stabilire preliminarmente una serie di “fatti certi e indisputabili” (che Gesù sia stata battezzato da Giovanni, che abbia predicato l’avvento del regno di Dio e, in tale contesto, abbia costituito il gruppo dei Dodici, che abbia compiuto un gesto profetico e simbolico nel tempio, che sia morto per mano romana infine sia morto come pretendente messianico, e che dalla sua opera abbia avuto origine un nuovo movimento escatologico, che, per certi versi, andò oltre le sue stesse premesse), per poi integrare all’interno di questa cornice fondamentale quei “gruppi” di tradizioni che meglio si accordano con il profilo (già preliminarmente stabilito sulla base dei facts) di Gesù quale profeta escatologico di restaurazione d’Israele.
In maniera più accentuata rispetto al lavoro del 1985, in questo libro Sanders si concentra anche sul classico problema dell’ “autocoscienza” di Gesù, nonché sulla questione dei titoli; una trattazione la cui conclusione merita di essere citata per intero:
Gesù pensava che i dodici discepoli rappresentassero le tribù di Israele, e che ne sarebbero state i giudici. Egli si poneva chiaramente al di sopra dei discepoli; una persona che si trova al di sopra dei giudici di Israele è davvero molto in alto. Sappiamo inoltre che considerava la propria missione d’importanza estrema, e riteneva che la risposta degli uomini al suo messaggio era più importante di altri doveri assai rilevanti. Era convinto che Dio stesse per dare inizio al suo regno, e che egli, Gesù, era l’ultimo inviato di Dio. Era quindi convinto di essere in qualche senso “re”. Entrò così a Gerusalemme sul dorso di un asino, ricordando una profezia relativa a un re sul dorso di un asino, e fu messo a morte per essersi detto “re dei Giudei”. Non c’era titolo nella storia del giudaismo che comunicasse pienamente tutte queste cose, e Gesù sembrò essere stato assolutamente riluttante ad adottare un titolo per sé. Penso che neanche quello di “re” sia propriamente corretto, dal momento che Gesù considerava Dio come re. Il termine che personalmente preferisco per designare la concezione che Gesù aveva di sé stesso è “vicerè”. Dio era re, e Gesù lo rappresentava e lo avrebbe rappresentato nel regno venturo” (p. 252).
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