domenica 30 marzo 2008
G. THEISSEN, A. MERZ, Il Gesù storico. Un manuale, Queriniana, 1999, p. 803
Theissen è uno studioso (luterano) eccezionale: la sua fama, negli ambienti dei neotestamentaristi, è legata soprattutto ai suoi numerosi e pioneristici lavori di carattere sociologico sul cristianesimo primitivo. Anche a causa di essi, egli passa talvolta come un proponente di un immagine di Gesù quale profeta di riforma sociale. Questo è in parte vero (si veda, ad es., il suo originalissimo “romanzo storico” su Gesù, L’ombra del Galileo, Claudiana), ma in realtà la prospettiva di Theissen è più completa e nient’affatto unilaterale (chi se la cava col tedesco, può averne prova nella recente collezione di suoi saggi, Jesus als historische Gestalt), e in ogni caso tale “accentuazione sociale” non è in alcun modo preponderante all’interno dell’opera che stiamo qui considerando.
Qui abbiamo infatti a che fare con un manuale vero e proprio, realizzato per introdurre lo studente, nel modo più completo e neutrale possibile, allo studio critico delle diverse problematiche proprie della disciplina.
Su ogni argomento specifico (il Gesù carismatico, il Gesù guaritore, il Gesù maestro, il Gesù poeta, il Gesù profeta, il Gesù martire etc.) viene fornita una breve rassegna della storia della ricerca, per poi passare al confronto diretto e analitico con le varie tradizioni evangeliche, costantemente inquadrate all’interno del contesto giudaico in cui sono sorte (in obbedienza al fondamentale criterio di “plausibilità” formulato dall’ Autore, secondo cui una tradizione può essere accertata come “autenticamente gesuana” allorchè, da un lato, manifesta, al tempo stesso, conformità e originalità rispetto al contesto in cui è sorta, e dall’altro si pone in un rapporto di continuità/discontinuità con gli effetti rilevabili nelle successive tradizioni protocristiane). L’opera si segnala per la grande obiettività e neutralità nell’affrontare le problematiche, come pure nel risolverle (le tesi personali di Theissen sono evidentemente presenti, ma spesso in modo soltanto accennato, e in ogni caso individuabili in quanto tali soltanto da chi ha già letto altri lavori dell’Autore). Quanto poco “radicale” (per fare un gioco di parole con la tipica immagine “theisseniana” di Gesù quale “radicale itinerante”), in fin dei conti, sia il ritratto complessivo di Gesù che emerge dall’opera, può risultare chiaro anche dall’ampia trattazione che il manuale dedica al problema degli inizi della cristologia, con conclusioni nient’affatto – per l’appunto – “radicali”: secondo Theissen, Gesù ebbe una coscienza messianica, benché rifiutasse il titolo esplicito di Messia; l’Autore sembra infine far propria anche la posizione “classica” secondo cui Gesù parlò in terza persona del Figlio dell’uomo che doveva venire, non per designare un'altra figura distinta da sé, bensì per riferirsi a sé stesso nello stato glorificato e nel ruolo di giudice escatologico che avrebbe assunto al momento della irruzione definitiva della signoria di Dio.
Da sottolineare il carattere specificamente didattico dell’opera, corredata non solo di letture introduttive e riepiloghi conclusivi per ogni capitolo, ma anche di tutta una serie di esercitazioni preliminari e di domande di verifica (con le relative “soluzioni”). Al termine del libro, i risultati frammentari dei diversi capitoli vengono integrati in una breve “vita di Gesù in sintesi”, che, a mio avviso, merita di essere riportata quasi integralmente:
Negli anni Venti del sec. I d.C. Gesù si unì al movimento di Giovanni Battista; questi chiamava gli Israeliti a penitenza e, con un battesimo presso il Giordano, prometteva la salvezza dinanzi all’imminente giudizio di Dio. In tal modo il Battista offriva il perdono dei peccati, indipendentemente dalle possibilità di espiazione ritualizzate nel tempio. Era questo un atto di sfiducia contro l’istituzione centrale del giudaismo, considerata inefficace. Anche Gesù si fece battezzare da Giovanni, e, come tutti gli altri, confessò i propri peccati e attese il giudizio imminente di Dio.
Ben presto Gesù si presentò in pubblico indipendentemente dal Battista con messaggio analogo, ma accentuando l’annuncio secondo cui la grazia di Dio concedeva ancora un’opportunità e del tempo a tutti gli uomini. (…) In effetti la certezza fondamentale di Gesù era che si era verificata una svolta fondamentale verso il bene: Satana era stato vinto, il male fondamentalmente superato. Lo si poteva constatare guardando agli esorcismi (…). Con questo messaggio Gesù percorre la Palestina, come predicatore itinerante senza fissa dimora (…).
Tra la popolazione semplice (…) egli scelse dodici discepoli, con Pietro al vertice, come rappresentanti delle dodici tribù di Israele, con i quali egli intendeva presto ‘governare’ l’Israele restaurato. Gesù aveva in mente una specie di ‘sovranità popolare rappresentativa’. (…)
Al centro del messaggio di Gesù c’era la fede giudaica in Dio. Per lui Dio era un’energia etica inaudita che presto avrebbe trasformato il mondo per la salvezza dei poveri, dei deboli e dei malati; e che però, per tutti coloro che non si fossero lasciati afferrare da essa, avrebbe potuto diventare anche ‘fuoco infernale’ del giudizio. A ogni persona era offerta l’occasione, soprattutto a coloro che, secondo i criteri religiosi comuni, erano falliti e perdenti. Gesù cercò la comunione con essi, con “i pubblicani e i peccatori”. Egli era convinto che le prostitute fossero più aperte al suo messaggio dei cosiddetti pii. (…)
Nella sua concezione di Dio egli unì due immagini tradizionali, ma in maniera nuova. Per lui Dio era padre e re. Ma non parlò mai di lui come re, bensì sempre e soltanto del suo regno. Era convinto che la bontà del ‘Padre’ si sarebbe imposta nella sua signoria e che un tale processo avesse inizio già nel presente. Questo egli annunciò, con parole e gesti concreti. (…)
Allo stesso tempo Gesù operò come guaritore carismatico. (…) In queste guarigioni egli vide i segni del regno di Dio incipiente (…). La grande trasformazione del mondo ad opera di Dio doveva mutare anche la volontà dell’uomo.
L’insegnamento etico di Gesù rappresenta il progetto di un uomo plasmato totalmente dalla volontà di Dio. Egli radicalizzò gli aspetti universali della Torah giudaica e invece si rapportò con atteggiamento ‘liberale’ nei confronti di quegli aspetti rituali intesi a separare i giudei dai pagani. Ma in tutti i suoi insegnamenti Gesù restò sul terreno della Torah. Al centro della sua etica egli pose il comandamento dell’amore di Dio e del prossimo (…). Sulle questioni rituali egli era palesemente non fondamentalista. Per quanto concerne il sabato, Gesù ampliò le norme esistenti che regolavano i casi eccezionali in cui si poteva intervenire per salvare una vita umana, estendendole ai casi in cui si doveva intervenire per promuovere la vita. Espresse chiaramente il suo scetticismo nei confronti della distinzione tra cose pure e impure (…) ma senza trarre conseguenze concrete per il comportamento quotidiano. La sua visione del regno di Dio futuro consisteva in ogni caso in un grandioso banchetto comune, in cui Giudei e pagani non fossero più separati dai precetti sugli alimenti e la purità. L’insegnamento di Gesù impartito a tutti va distinto dalle esigenze da lui poste ai suoi seguaci. Qui in alcuni casi Gesù poté richiedere infrazioni della Torah … egli esigeva l’etica radicale della libertà dalla famiglia, dai beni, dalla patria e dalle certezze. (…)
Questi scontri [con i farisei] non portarono a inimicizie mortali. Per Gesù fu fatale invece la sua critica al tempio (…). Gesù attaccò direttamente quell’istituzione: predisse che Dio avrebbe eretto un tempio nuovo al posto del vecchio. (…) Verosimilmente Gesù oscillò tra l’attesa della morte e la speranza che Dio intervenisse prima e realizzasse il suo regno. (…) Di fatto molti tra il popolo e tra i suoi seguaci s’attendevano che egli diventasse il messia regale destinato a condurre Israele a una nuova condizione di potenza. Dinanzi a Pilato Gesù non prese le distanze da quelle attese. Né lo poteva fare. Poiché era convinto che tramite lui Dio avrebbe compiuto una grande svolta in favore di Israele e del mondo. Fu condannato come agitatore politico (…).
Dopo la sua morte, egli apparve (…) a molti discepoli (…). Essi si convinsero che Gesù era vivo. La loro attesa che Dio intervenisse definitivamente in favore della salvezza si era realizzata in maniera diversa da come avevano sperato. Si trovarono perciò di fronte alla necessità di reinterpretare l’intero destino di Gesù e la sua persona (…).
G. BARBAGLIO, Gesù ebreo di Galilea, EDB, 2002, p. 683
Il lavoro di Barbaglio (purtroppo scomparso da poco) rappresenta una rara e clamorosa eccezione al generale provincialismo e all’arretratezza degli studi nostrani (senza con ciò voler appiccicare tali etichette addosso a studiosi del calibro di R. Penna e M. Pesce o G. Jossa!).
Il minimo che si possa dire è che questo libro è un vero e proprio "inno all'aggiornamento": Barbaglio si confronta direttamente, anche accogliendoli e rielaborandoli, con tutti i principali nuovi orientamenti della ricerca di questi ultimissimi anni. Solamente a scorrere l’indice degli autori al termine del volume, si ha come la sensazione di una boccata d'aria fresca.
Barbaglio è il primo autore italiano ad entrare in dialogo costruttivo (e non solo “distruttivo”!) con i lavori del Jesus Seminar, dai quali egli si distanzia peraltro in modo chiaro (a onor del vero, anche M. Pesce – forse anche più di Barbaglio – dialoga ampiamente con il Seminar e, in generale, con tutta la nuova esegesi improntata all’interazione con le scienze sociali e l’antropologia culturale, tuttavia, con l’eccezione del recente best-seller, i lavori di Pesce sono specialistici e ignoti al “grande” pubblico).
Come esempio di questo atteggiamento di "dialogo costruttivo" si può prendere ad esempio l'ampio capitolo dedicato a Gesù come "saggio tra i saggi dell'antichità": il fatto che Barbaglio sia critico verso la riduzione di Gesù a maestro sapienziale/filosofo cinico di un Crossan o di un Mack, non gli impedisce 1) di redigere un capitolo di oltre 50 pagine in cui viene valorizzata la dimensione sapienziale della predicazione di Gesù; 2) di citare testualmente - come analogia non certo decisiva, ma comunque significativa - una ventina di detti di filosofi cinici (oltre ad altri detti sapienziali, anche giudaici); entrambe le cose, sono, come minimo, segnali di un confronto critico sincero, e anche capace di accoglierne certe istanze, con gli orientamenti più radicali della ricerca attuale (cosa che, qui in Italia, è tutto fuorchè scontata, essendo questo il paese in cui l'Historical Jesus di Crossan non verrà nemmeno mai pubblicato!).
Quanto alla struttura, l’opera di Barbaglio è molto vicina a quella di Theissen (benché totalmente priva del carattere didattico di quest’ultima), ossia presenta tante piccole monografie in cui Gesù viene inquadrato ora come evangelista del Regno di Dio, ora come creatore di fictions narrative, ora come carismatico itinerante, ora come guaritore in un mondo di guaritori e come saggio tra i saggi dell’antichità, terminando poi – dopo naturalmente la trattazione della passione – con due capitoli rispettivamente dedicati ai problemi della risurrezione e della nascita della cristologia.
Pur essendo pacifico che molti lettori (specialmente all’interno del pubblico cattolico più conservatore) si troveranno a disagio con certe affermazioni e conclusioni di Barbaglio, questo lavoro resta nondimeno un’opera di grande importanza, che, a ben vedere, non ha proprio niente da invidiare a molte pubblicazioni europee e americane.
Una parola finale sulla fruibilità: il libro è abbastanza tosto, e, nonostante un taglio non specialistico (Giuseppe Segalla lo ha definito “quasi giornalistico”) , nonché la totale assenza di note a piè di pagina, rimane comunque una lettura piuttosto impegnativa.
P.S. Non fate caso alla "recensione" presente sul sito di Internet Bookshop a cui vi conduce il link del titolo: è del tutto strampalata.
J. GNILKA, Gesù di Nazaret. Annuncio e storia, Paideia, 1993, p. 420
Qui siamo di fronte al frutto più maturo della sua indagine storica su Gesù.
Un lavoro di grande completezza ed equilibrio. L’unica pecca è che, nonostante essa sia comparsa nei primi anni Novanta (nel 1990 la prima edizione, nel 1993 la seconda), l’opera ha tutta l’apparenza di un lavoro di almeno dieci prima.
Gnilka porta avanti le sue analisi come se il mondo degli studi storici e neotestamentari coincidesse più o meno con i confini accademici tedeschi, come cioè se autori dell’importanza di Sanders, Horsley, Borg e Crossan nemmeno esistessero.
In sostanza, Gnilka sembra non avere alcuna confidenza con l’esegesi anglofona e, in particolare americana. Benché io abbia letto (in un libro di Hans Kung, mi pare) che la ragione di tale limitazione dovrebbe essere di natura squisitamente linguistica, faccio però fatica a concepire la possibilità che un così grande studioso non riesca proprio a masticare nemmeno il fondamentale Jesus and Judaism di Sanders, nemmeno prendendosi cinque anni di tempo per leggerlo!
Io, che sono un essere umano di limitatissimo ingegno, pur non andando certo a nozze col tedesco, riesco però a tradurre un saggio di venti o trenta pagine nell’arco di un paio di settimane.
Ad ogni modo, una volta che ci si sia messi l’anima in pace per quanto riguarda l’isolamento culturale di Gnilka, la sua monografia rimane pur sempre un lavoro classico e di grande valore, da raccomandare senza esitazione .
sabato 29 marzo 2008
E.P. SANDERS, Gesù. La verità storica, Mondadori, 1995, p. 334 (fuori catalogo)
Il volume a cui ci riferiamo ora rappresenta invece un tentativo, felicemente riuscito, di riprendere, a dieci anni di distanza, le analisi e le conclusioni del suo masterpiece, presentandole in una veste accessibile anche ad un lettore privo di qualsiasi esperienza di studi storici o neotestamentari.
A dispetto di una mole complessiva non indifferente (non inganni l’aspetto rassicurante e poco ingombrante degli Oscar Mondadori!) il libro può essere letto senza alcuna difficoltà da chiunque, senza alcun requisito particolare al di fuori di un pizzico di pazienza. In effetti, prima di cimentarsi con la figura di Gesù, il lettore deve attendere un centinaio di dense pagine, nelle quali Sanders (tra i massimi esperti di Giudaismo al mondo) delinea la fisionomia del Giudaismo del Secondo Tempio (con la sua tipica tesi dell’esistenza di un “Common Judaism”), la situazione politica dell’epoca, introduce il lettore al problema delle fonti dirette e indirette sulla vita di Gesù, e, infine (e questo rappresenta una novità rispetto all’opera del 1985) al contesto specificamente galilaico del suo ministero.
Benchè Sanders non sia affatto un autore privo di radicalità (Cf. la tesi secondo cui Gesù avrebbe offerto il Regno ai peccatori senza invitarli in alcun modo alla conversione; oppure una certa minimizzazione della dimensione “presente” dell’escatologia di Gesù, in favore unilateralmente di quella “futura”; o ancora, la negazione di un significativo conflitto di Gesù con i farisei, e, tanto meno, di una sua tensione con la Legge mosaica), e nonostante la sua completa estraneità a qualsivoglia interesse teologico, egli, nel panorama complessivo della disciplina (soprattutto per quanto riguarda gli Stati Uniti) è finito a poco a poco per stare sul versante “conservatore” dello spettro degli studi (anche se l’utilizzo di tale termine, nel suo caso, necessiterebbe di numerose altre virgolette!), ma ciò non è dipeso da lui: semplicemente, dopo che aveva "shockato" il mondo accademico nel 1985 con la radicalità del suo Jesus and Judaism, è stata buona parte di questo stesso mondo accademico (vedi la nuova North-American Perspective del Jesus Seminar) ad imboccare una strada ancora più radicale (benchè completamente diversa).
Per parte sua, Sanders è semplicemente rimasto fermo.
Caratteristico dell’approccio di Sanders – qui come nella sua opera maggiore – è una scarsa fiducia nelle possibilità e nell’opportunità di un’analisi atomistica dei singoli detti di Gesù quale punto di partenza per cominciare la ricostruzione storica. Egli (soprattutto in Jesus and Judaism) comincia piuttosto con lo stabilire preliminarmente una serie di “fatti certi e indisputabili” (che Gesù sia stata battezzato da Giovanni, che abbia predicato l’avvento del regno di Dio e, in tale contesto, abbia costituito il gruppo dei Dodici, che abbia compiuto un gesto profetico e simbolico nel tempio, che sia morto per mano romana infine sia morto come pretendente messianico, e che dalla sua opera abbia avuto origine un nuovo movimento escatologico, che, per certi versi, andò oltre le sue stesse premesse), per poi integrare all’interno di questa cornice fondamentale quei “gruppi” di tradizioni che meglio si accordano con il profilo (già preliminarmente stabilito sulla base dei facts) di Gesù quale profeta escatologico di restaurazione d’Israele.
In maniera più accentuata rispetto al lavoro del 1985, in questo libro Sanders si concentra anche sul classico problema dell’ “autocoscienza” di Gesù, nonché sulla questione dei titoli; una trattazione la cui conclusione merita di essere citata per intero:
Gesù pensava che i dodici discepoli rappresentassero le tribù di Israele, e che ne sarebbero state i giudici. Egli si poneva chiaramente al di sopra dei discepoli; una persona che si trova al di sopra dei giudici di Israele è davvero molto in alto. Sappiamo inoltre che considerava la propria missione d’importanza estrema, e riteneva che la risposta degli uomini al suo messaggio era più importante di altri doveri assai rilevanti. Era convinto che Dio stesse per dare inizio al suo regno, e che egli, Gesù, era l’ultimo inviato di Dio. Era quindi convinto di essere in qualche senso “re”. Entrò così a Gerusalemme sul dorso di un asino, ricordando una profezia relativa a un re sul dorso di un asino, e fu messo a morte per essersi detto “re dei Giudei”. Non c’era titolo nella storia del giudaismo che comunicasse pienamente tutte queste cose, e Gesù sembrò essere stato assolutamente riluttante ad adottare un titolo per sé. Penso che neanche quello di “re” sia propriamente corretto, dal momento che Gesù considerava Dio come re. Il termine che personalmente preferisco per designare la concezione che Gesù aveva di sé stesso è “vicerè”. Dio era re, e Gesù lo rappresentava e lo avrebbe rappresentato nel regno venturo” (p. 252).
A. PUIG I TARRECH, Gesù. La risposta agli enigmi, San Paolo, 2007
Puig i Tarrech assume le diverse tradizioni evangeliche all’interno del suo imponente e approfondito lavoro (non privo peraltro di originalità) o in modo totalmente acritico oppure riferendosi ai criteri di autenticità in modo superficiale e “all’acqua di rose”. Per il resto si tratta comunque di una lettura molto utile, sulla quale si può consultare con profitto la benevola recensione che il mio alter-ego, Johannes DeSilentio ha riportato nel suo blog http://www.johannesdesilentio.splinder.com/.
N.T. WRIGHT, Gesù di Nazareth. Sfide e provocazioni, Claudiana, 2003, p. 201, euro 14,50
Il nostro volume, pur essendo di facile lettura, non è però raccomandabile come primo approccio: Wright infatti è uno studioso sì conservatore, ma anche piuttosto originale e il lettore inesperto correrebbe il rischio di familiarizzarsi in modo acritico con alcune tesi tipiche di Wright, ma nient’affatto pacifiche nel panorama complessivo degli studi (ad es. il tema onnipresente del “ritorno dall’esilio” quale chiave per comprendere tutti gli aspetti della predicazione di Gesù – per una critica su questo punto, si veda l’opera di Dunn citata sotto - nonché una discutibilissima reinterpretazione dell’apocalittica, quale genere espressivo metaforico che denota puramente degli sconvolgimenti di ordine politico, e in alcun modo di ordine cosmico). Non di rado, l’Autore si lascia prendere la mano da conclusioni un po’ esagerate, arrivando a leggere nella figura storica di Gesù l’assunzione un po’ troppo esplicita di un po’ troppi ruoli un po’ troppo grandi: passi tranquillamente che egli insieme al suo gruppo costituisca l’ “Israele restaurato”, e passi pure anche che egli agirebbe, in un certo senso, nel ruolo o al posto di Dio, all’interno della messa in scena del atto finale del dramma del “ritorno dall’esilio” (manifestando cioè che con il suo ministero stava avendo finalmente termine l’esilio millenario di Israele), ma Wright sembra francamente passare il limite della sobrietà storica quando giunge ad identificare Gesù stesso con il “nuovo Tempio” che sostituiva quello di Gerusalemme!! Si resta come minimo un po’ stupiti nel leggere che: “Nei Vangeli vi sono numerose indicazioni che Gesù agiva deliberatamente in modo tale da comunicare che là dove egli era, e là dove erano i suoi seguaci, il Dio di Israele era presente e attivo nello stesso modo in cui lo era normalmente nel Tempio (p. 63-64)” (!!!). Altre tesi bizzarre di Wright si potranno incontrare in modo più approfondito nel suo opus magnum, Jesus and the Victory of God, come, ad es., l’identificazione della giustificazione ed esaltazione del Figlio dell’uomo con la distruzione di Gerusalemme e del Tempio ( che avrebbe sancito la fine definitiva dell’esilio del popolo di Dio … ossia i seguaci di Gesù!) … proprio un bel modo di essere un profeta di restaurazione d’Israele! In sintesi: una lettura piacevole, e non priva di intuizioni interessanti, ma nel complesso inficiata da numerose posizioni eccessivamente personali. In più di un occasione si ha il sospetto che la ricostruzione del “programma” di Gesù sia effettuata ad hoc in modo da suggerire che la nascita del cristianesimo sia un evento che coincide in sostanza con la missione stessa di Gesù; come nota Paula Fredriksen: “this hypothesis is coherent and parsimonious, offering the simplest explanation so far of the rise of Christianity: Jesus created it”.
C. AUGIAS, M. PESCE, Inchiesta su Gesù, Mondadori, 2006.
Io, Johannes Weiss, che non ho alcun interesse propriamente detto per le implicazioni della ricerca storica nei confronti della fede, non mi assocerò ai tanti, e spesso ingiusti, cori di critica giunti anche da biblisti non del tutto sprovveduti come Ravasi e Cantalamessa.
Il mio giudizio, molto più semplicemente, è che si tratta di un buon libro, con diverse ottime intuizioni del prof. Pesce, ma che risente dell’approccio un po’ troppo giornalistico (in senso talvolta anche un pochino deteriore) di Augias.
La presentazione che Pesce fa di Gesù nei termini di un profeta escatologico convinto che Dio avesse iniziato a trasformare il mondo, e di una figura al contempo profondamente mistica e profondamente impegnata negli aspetti e nelle problematiche sociali del proprio contesto, è di per sé eccellente.
Tra i vari passaggi interessanti del libro, uno particolarmente ben riuscito che merita proprio di essere ripreso, è il seguente:
Gesù era un ebreo che non voleva fondare una nuova religione. Non era un cristiano. Era convinto che il Dio delle Sacre Scritture ebraiche stesse cominciando a trasformare il mondo per instaurare finalmente il suo regno sulla terra. Era del tutto concentrato su Dio e pregava per capire la sua volontà e ottenere le sue rivelazioni, ma era anche del tutto concentrato sui bisogni degli uomini, in particolare i malati, i più poveri e coloro che erano trattati in modo ingiusto. Il suo messaggio era inscindibilmente mistico e sociale.
Come ho già scritto in un post precedente di questo blog, il prof. Pesce (si veda anche il suo Forme culturali del cristianesimo primitivo, Morcelliana) a mio avviso ha intuito (non so però fino a che punto ne sia consapevole) la via d’uscita da quell’impasse che blocca buona parte del dibattito nordamericano, là dove diversi studiosi (Borg, Crossan, Patterson) ritengono che la sottolineatura della fondamentale dimensione sociale del ministero di Gesù sia incompatibile con l’abituale affermazione di una sua predicazione escatologico-apocalittica. L’errore di fondo sta nel vedere nelle speranze apocalittiche un fenomeno di rassegnazione passiva, di rinuncia totale alla trasformazione di un mondo ormai radicalmente corrotto. Come altri hanno mostrato (ad es. Horsley), è vero proprio il contrario: l’apocalittica ha, almeno potenzialmente, delle fortissime implicazioni a livello sociale e politico. Gesù ebbe un forte messaggio sociale proprio grazie alla sua fondamentale convinzione escatologico-apocalittica, e non a dispetto di essa!
Ed è quindi molto giustamente che Pesce definisce l’utopia di Gesù (cioè quella del regno di Dio) come “un’utopia pratica (…) capace di incendiare il cuore dei singoli e delle masse” (p. 219).
Pesce riconosce apertamente tutto questo quando scrive che
l’idea stessa del regno di Dio implica un sommovimento di carattere complessivo della società. Probabilmente egli aveva in mente l’ideale del “giubileo”, una specie di utopia politico-sociale (…) consistente nel far tornare ogni cinquant’anni tutti gli ebrei alla parità iniziale mediante la liberazione degli schiavi e il condono dei debiti” (p. 57).
Oppure, come scrive ancora nel suo saggio “Gesù e la remissione dei peccati”, pubblicato in Le forme culturali del cristianesimo primitivo:
Gesù immagina che all’amnistia del Dio-re segua un processo di condono da persona a persona (…). Rimettere in pari i diritti e i doveri consente di scampare alla condanna del giudizio finale imminente e in sostanza alla morte. Gesù immagina che il regno di Dio sia imminente; che nel regno di Dio si verifichi il giudizio finale nel quale le trasgressioni saranno punite con la condanna, la distruzione, il gehinnom. All’inizio del regno di Dio si deve verificare un’amnistia che permetterà di sfuggire alla condanna senza ricorrere a sacrifici (p. 150-151).
L’importanza del lavoro di Pesce, da questo punto di vista, non può essere esagerata: egli ha compreso che tra escatologia imminente e riforma sociale, non bisogna affatto scegliere! Al contrario, esse si implicano saldamente a vicenda. Siamo noi moderni razionalisti a porre una falsa dicotomia secondo cui o si pensa che la trasformazione del mondo dipenda da Dio o si pensa che dipenda dall’uomo.
Per l’ebreo Gesù non c’è alcuna contraddizione tra l’invitare i suoi uditori a entrare in un’ottica radicalmente mutata di rapporti sociali (il condonare i debiti, il servizio, l’occupare l’ultimo posto) e al contempo ritenere con fiducia sincera e assoluta che è Dio in persona, e non gli uomini, a determinare la grande svolta escatologica.
Quanto invece ai punti deboli del libro, a mio avviso essi stanno nei capitoli che si dilungano su temi quali la verginità di Maria, i fratelli di Gesù, le eventuali abitudini amorose di Gesù (un tema quest’ultimo su cui Augias bussa a più riprese, senza però ottenere da Pesce le risposte – giornalisticamente – sperate) e anche sui vangeli extra-canonici.
La verginità di Maria è un problema rilevante più in un’ottica dogmatica (sia mariologica che cristologica), che in quella rigorosamente storica (dal punto di vista rigorosamente storico, infatti, che Gesù fosse nato o meno attraverso un concepimento miracoloso, mi sembra questione di importanza pressoché nulla: mi si dica in quale modo la risposta verrebbe ad influire sulla interpretazione del messaggio del Regno di Dio, o sulla morte di croce per mano romana!).
Quanto invece alle testimonianze extra-canoniche, pur concordando sulla necessità della loro considerazione in linea di principio, sono però del parere che – a conti fatti - , con la rara eccezione di qualche detto qua o là (per lo più nel vangelo di Tommaso), la loro incidenza per la ricostruzione del Gesù storico sia modestissima. Tali testimonianze ci informano più sulla pluralità e varietà del grande “estuario” cristologico delle origini (il discorso sui “cristianesimi”) che non sul fiume stesso (la tradizione autentica di Gesù) .
A ben vedere, il difetto di questo libro sta proprio in questo suo tentare di mettere troppe varietà diverse di carne al fuoco (verginità, apocrifi, cristianesimi, antisemitismo etc.): il risultato assomiglia un po’ a un’indigestione, là dove – ci si fosse limitati al solo problema del Gesù storico – si sarebbe potuto avere un pasto niente male. Pesce ha comunque annunciato la prossima pubblicazione da parte di Mondadori di un nuovo libro su Gesù, che sta scrivendo insieme alla moglie, l’antropologa Adriana Destro.
E non c’è quasi bisogno di dire che io l’attendo con fervore (quasi quanto il fatidico quarto volume di J.P. Meier, la cui pubblicazione negl USA è stata annunciata da R. Gibellini per il 2008 !!).
J. ROLOFF, Gesù, Einaudi, 2002, p. 127, euro 7,50
D. MARGUERAT, L’uomo che veniva da Nazareth, Claudiana, 2005, p. 110, euro 8.
Il volume a cui qui accenniamo, infatti, è solo una sintetica ed agilissima presentazione di carattere decisamente introduttivo: appena un centinaio di pagine – che, in un altro genere di formato, si ridurrebbero probabilmente ad una settantina. Tuttavia, a dispetto della estrema agilità del volume (che si può tranquillamente divorare in un giorno solo), si tratta di nondimeno di un lavoro particolarmente felice e ben riuscito.
Un esempio perfetto di ciò che accade quando uno studioso di ottima levatura, decide di trasferire i risultati della propria ricerca in poche, sintetiche, vivaci e godibilissime pagine (che scorrono assai gradevolmente anche grazie alla sistematica spezzettatura i numerosi mini-paragrafi). Forse uno dei punti migliori da dove iniziare il cammino sulle tracce del Gesù storico.
Cito qualche passo, tratto dal capitolo conclusivo del libro, dove Marguerat si interroga sull’elusività ineludibile di Gesù, sul suo rimanere cioè un “enigma”:
L’uomo di Nazareth si defila di fronte alle domande sulla sua identità. Non si dichiara né Messia, né Figlio di Dio, né Figlio dell’uomo [N.d.R. l’Autore riprende in sostanza la posizione bultmanniana secondo cui Gesù parlò della venuta del Figlio dell’uomo, come di una figura da lui distinta, ma, al tempo stesso, a lui strettamente associata. Cf Lc 12,8], ma è cosciente di essere superiori ai profeti. Non parla di sé, ma di Dio; il che non gli impedisce di essere il dito di Dio (Lc 11,20) e di proporre con un’autorità senza pari la sua potenza di guaritore e la sua interpretazione della Legge. Che Gesù abbia il compito di introdurre la fine del mondo è evidente; ma egli lascia come in sospeso la sua identità e non è esplicito sulla sua autorità, né per confermarla, né per darle fondamento. Semplicemente agisce e parla con autorità (Mc 1,22-27). (…) Il “più di un profeta”, che corrisponde alla coscienza di sé di Gesù, progressivamente si è arricchito del profluvio di titoli che i vangeli riversano sul Nazareno: Signore, Cristo, Figlio di Dio, Figlio dell’uomo, Verbo incarnato. (…) Ma la questione decisiva non è sapere chi egli sia; la questione è di riconoscere nella sua parola una parola di verità, nei suoi gesti il dito di Dio. Per Gesù (…) è l’ora di lasciarsi trasportare dall’impeto della venuta del regno di Dio (p. 100-101).
C. PERROT, Gesù, Queriniana, Gdt 268, 1999, p. 143, euro 11,36
M. GRONCHI, J. ILUNGA MUYA, Gesù di Nazaret. Un personaggio storico, Paoline, 2005, 235 p., euro 12.
N.B. Il link nel titolo di questo post conduce direttamente alla consultazione (quasi integrale!!) del volume su Google Books. Approfittatene!
R. PENNA, Gesù di Nazaret. La sua storia, la nostra fede, San Paolo, 2008, p. 76, euro 7.
Guida ragionata alla bibliografia recente sul Gesù storico
Buona lettura.
N.B. Sottolineo che si tratta di una "bibliografia ragionata" e non di una serie di recensioni. A seconda che la voglia o il tempo lo permettano, in certi casi le presentazioni potranno anche trascolorire in qualcosa di simile a delle recensioni. Il fine originario dell'impresa è però limitato ad offrire solo un'orientamento di base all'interno del recente - e sempre più proliferante - panorama editoriale sul Gesù storico.
Chi cercasse recensioni complete, può consultare anzitutto il sito appositamente creato dalla Society of Biblical Literature (http://www.bookreviews.org/), oppure il recente libro di Giuseppe Segalla "Sulle tracce di Gesù. La Terza Ricerca" (offre recensioni ai lavori di Sanders, Meier, Barbaglio, Schlosser, Dunn, Moxnes e Freyne). Eventualmente si potrà anche consultare un volume in lingua inglese, scritto da Ben Witherington, "The Jesus Quest", che passa in rassegna un notevole numero di autori, e può quindi offrire un'idea abbastanza completa del panorama degli studi, soprattutto in ambito americano. Attenzione però! Witherington è un esempio classico di "evangelical scholar", il che significa che è piuttosto conservatore e, soprattutto, che le sue analisi critiche sono spesso lungi dall'essere convincenti.
martedì 11 marzo 2008
Apocalittica e politica: una falsa antitesi
Un luogo comune vorrebbe mettere alla berlina l’apocalittica col pretesto che essa rappresenta un atteggiamento passivo e di fuga dall’impegno nel mondo, visto ormai come radicalmente corrotto e incorreggibile: la sola cosa da fare sarebbe quindi aspettare che sia Dio in persona a venire, infine, a mettere le cose in ordine. Da questo punto di vista, sia Horsley che Wright - in modi assai diversi - sono nel giusto a rivendicare il carattere politico dell’apocalittica. Come scrive Horsley:
“Far from an ‘abandonment of historical responsibility’ and a ‘retreat into a vision of the higher reality’, apocalyptic visions and literature attempt to make sense of and respond to concrete historical situations of oppression and even persecution. Far from providing an escape, apocalyptic visions apparently helped people to remain steadfast in their traditions and to resist systematic attempts to suppress them” (Jesus and the Spiral of Violence, p. 139).
Secondo Theissen:
“Gesù esprimeva il contenuto centrale del suo annuncio (l’avvento del regno di Dio) con una metafora politica. Il fatto che con l’avvento del regno di Dio anche i romani sarebbero stati sconfitti era qualcosa di così ovvio da non necessitare di ulteriori spiegazioni. (…) Non si può concepire il regno di Dio come un pallido programma teologico; il suo annuncio significava piuttosto che presto in Palestina ci sarebbe stato un mutamento radicale, durante il quale un ristretto gruppo di outsider avrebbe preso il dominio su Israele (cf. Mt 19,28: "In verità vi dico: voi che mi avete seguito, nella rigenerazione, quando il Figlio dell`uomo sarà seduto sul trono della sua gloria, siederete anche voi su dodici troni a giudicare le dodici tribù di Israele”). Chi sogna di dodici sovrani provenienti dal popolo si mette in opposizione rispetto a tutte le strutture di dominio esistenti. (…) Senza che fossero nominati gli Erodi e i romani, era chiaro che questa sarebbe stata la fine di ogni dominio terreno” (Gesù e il suo movimento, n.ed. 2007, p.179).
Sono del tutto d’accordo con Theissen. L’apocalittica, pur non essendo riducibile ad una mera modalità metaforica per parlare di eventi politici (come vorrebbero Horsley e Wright), ha nondimeno innegabili implicazioni politiche. Il fatto che per Gesù l’avvento del regno di Dio sia posto in collegamento non con iniziative di tipo militare o di guerriglia, ma piuttosto con miracoli, esorcismi e comunione di mensa, e che in ultima analisi sia affidata ad un intervento miracoloso di Dio, non significa affatto che egli si sia mosso al di fuori della dimensione politica (dobbiamo ricordarci che la distinzione tra politica e religione è un’invenzione moderna, del tutto inesistente nel mondo antico), ma solo che egli ha optato per una differente strategia politica rispetto a quella della rivolta armata. Crossan e compagni hanno ragione a mettere in luce le profonde implicazioni sociali e politiche della prassi con cui Gesù – attraverso le guarigioni, gli esorcismi e la comunione di mensa – rimetteva al centro coloro che la società spingeva ai margini. Ma hanno torto a pensare che ciò sia incompatibile con una visione apocalittica. Qualunque cosa ne pensiamo noi moderni, per Gesù non era affatto contraddittorio mettersi alla guida di un movimento carismatico di rivitalizzazione d’Israele dalle profonde conseguenze sociali (quando dai un banchetto, non invitare i tuoi pari-rango o coloro che ti vuoi ingraziare: invita piuttosto i poveri e i disprezzati), e al contempo aspettarsi che fosse un intervento miracoloso di Dio a completare ciò che egli e i suoi discepoli andavano compiendo. Quella che contrappone apocalittica e attività socio-politica è una falsa antitesi. Tuttavia, se il nome “apocalittica” dovesse essere irrimediabilmente connotato da una concezione negativa di atteggiamento passivo e di fuga, allora è venuto il momento di utilizzare come categoria ermeneutica fondamentale quella di “millenarismo” (di cui parleremo).
lunedì 10 marzo 2008
Can we build our ethics upon Jesus?
My answer would be: yes and no. Yes: we can take the Kingdom-Utopia as the “polar star” guiding our moral reasoning and nourishing our hope for the future, and I’d say that, especially in the hardest times, it is a necessary step, if we don’t want desperation and resignation to the evils of the present to overcome us.
But that will always happen only asymptotically: our human forces will never make the Kingdom an effective reality on earth. That is only up to God. Until He comes, we’re stuck in the Sisyphus situation.
So, it’s clear that my positive answer is at the same time a negative answer: the Kingdom is the utopia that – by definition – lies beyond the reach of ethics. Kierkegaard would say that it is precisely what theleologically suspends and shatters all ethics.
domenica 9 marzo 2008
Brief thoughts concerning eschatology and apocalyptic
Now, the kingdom of God concept in the Jesus tradition probably has some social and political nuance, but in the end it also entails a transcendent and "supernatural" dimension. Wright is simply wrong in insisting on a radical alternative between an historical interpretation of apocalyptic imagery (his one) and the pseudo-common scholarly interpretation of it in terms of "end of the space-time continuum".
The “cosmic drama” envisioned in apocalyptic writings nor is a simple historical-political happening neither an "end of the world" catastrophe in the sense of an annihilation of the space-time continuum: it is rather a transformation of this world, envisioning an earthly reality redeemed and deeply changed through the direct presence of God and the final banishing of all evil.
Thus, the social and political issues that Wright, Borg and other scholars underline in Jesus' proclamation can perfectly coexist with his eschatological announcement (envisaging judgment, resurrection of the dead, and a new transformed reality): one just has to look at his "socio-political agenda" for Israel as the human beginnings (the seed) of something which is up to God (only!) to establish in power.
I think that everything becomes quite clear when one puts Jesus in a "millenarian" perspective: that is the only interpretative context which allows both the socio-political as well as the apocalyptic instances of the Jesus-tradition to make sense, without dismissing a-priori one or another.
We’re not needed to choose between the Schweitzer’s (and Ehrman’s) apocalyptic mistaken fanatic or the Jesus Seminar anti-imperial cynic-like sage. The right path is instead the “millenium utopia”: see the works by Dale Allison [ "Jesus of Nazareth. Millenarian Prophet" and also his criticism of Wright in: C. Newman (ed.) "Jesus & the restoration of Israel"] and I think those of Gerd Theissen as well (commonly view as a mere proponent of a portrait of Jesus as a social reformer – like Horsley - but actually well-evaluating also the eschatological dimensions of his ministry: see his “Jesus als historische Gestalt”). Here in Italy I guess it’s more or less the view sustained by Mauro Pesce, who sees Jesus’ kingdom eschatology as deeply informed by the socio-religious ideal of the Jubilee (see his article: “La remissione dei peccati nell’escatologia di Gesù”, as well as some insights in his best-seller “Inchiesta su Gesù”).
Johannes DeSilentio