giovedì 31 luglio 2008

Quel che penso del Figlio dell'uomo (o meglio...quel che pensavo!)

Quando ho iniziato a confrontarmi con l'intricata questione dei detti sinottici sul Figlio dell'uomo, ero dell'opinione che ad essere nel giusto fosse, sostanzialmente, la "scuola" che sosteneva l'autenticità dei detti apocalittici sulla venuta futura del F.d.U., e l'origine secondaria e comunitaria di tutti gli altri (F.d.U. sofferente, F.d.U. che ha autorità nel presente). In sostanza, si trattava di dare ragione ad autori come Bultmann, Tödt, Fuller, Higgins, Yarbro Collins, Becker. In realtà non ero così convinto che Gesù veramente attendesse il F.d.U. come se si trattasse di un personaggio celeste che avrebbe portato la salvezza definitiva (da questo punto di vista, avrebbero ragione i Vielhauer e i Conzelmann ad osservare che la "soteriologia" del Regno - già presente - propria di Gesù, non ammette spazio per un ulteriore figura di redentore futuro), e pensavo quindi che avesse ragione Becker a sostenere che, più che una figura vera e propria, "Figlio dell'uomo" era impiegato da Gesù come "simbolo" per indicare il giudizio (Becker si riferisce in particolare a Lc 12,8 e Lc 17,26-30).
Ora, la tesi di Becker non ha smesso di convincermi. Tuttavia ho cominciato a inquadrarla entro una più ampia tesi - di tradizione inglese - che guarda al Figlio dell'uomo nei detti di Gesù come ad un simbolo corporativo (conformemente allo stretto legame tra "uno come un figlio d'uomo" e il "popolo dei santi dell'Altissimo" in Daniele; vedi anche quello tra il F.d.U. come "eletto" e gli "eletti" in 1Enoch) con cui Gesù poteva esprimere il destino, di sofferenza prima e di giustificazione e conferimento del potere poi, che attendeva lui e il suo gruppo. Ciò mi ha condotto alle seguenti conclusioni:

1) la possibile autenticità di Mc 9,31: "Il Figlio dell'uomo è consegnato nelle mani degli uomini, e lo uccideranno, e ucciso, dopo tre giorni risorgerà" (difendibile del resto anche per altre vie: Maurice Casey pensa che "F.d.U." fosse solo un'espressione generica, che nulla aveva a che fare con la visione di Daniele, ma difende nondimeno con forza l'autenticità del detto).
Esso esprimerebbe, appunto, il destino di sofferenza e di tribolazione (cf. Mt 11,12: il regno soffre violenza; Mc 10,38: Gesù e discepoli devono ricevere un "battesimo" e bere un "calice" (della morte); Mc 8,35: seguire Gesù può significare perdere la vita; Lc 12,49,50: Gesù porta un fuoco sulla terra ed è angustiato finché non riceve un "battesimo"; Thom. 82: essere vicini a Gesù, è essere vicini al fuoco...ma chi sceglie di stargli lontano, si allontana oltre che dal fuoco, anche dal Regno) che attende Gesù e il suo gruppo, prima che Dio li vendichi (come i santi dell'Altissimo) conferendo loro il regno e il giudizio (Lc 12,32: il piccolo gregge riceverà il regno; Lc 22,28.30: i discepoli siederanno su troni - cf. i troni in Dn 7 - a giudicare le 12 tribù di Israele).

2) La visione del F.d.U. che viene sulle nubi non era intesa da Gesù letteralmente: egli si riallacciava all'immagine danielica come simbolo per esprimere il destino del suo gruppo. Il "venire sulle nubi" non è anzitutto un discendere dalla terra al cielo, bensì un ascendere verso il trono alla destra di Dio, il che è a sua volta il simbolo visionario per indicare il conferimento del regno e del giudizio al proprio gruppo, nell'ambito di una escatologia di restaurazione d'Israele.
Ciò mi induce, molto a malincuore, a dar ragione - ma solo su questo preciso punto! - a N.T. Wright che nei suoi libri argomenta in continuazione che né Gesù né i suoi uditori si sarebbero mai sognati di concepire qualcosa di così "crassamente letteralistico" come un essere celeste che scende sulla terra cavalcando le nuvole: essi sapevano invece riconoscere una buona metafora, quando ne vedevano una. Specifico però che su tutto il resto Wright ha rigorosamente torto.

3) Contrariamente a proponenti di questa interpretazione "corporativa" del F.d.U., come Morna Hooker, non sono però convinto che si possano salvare i detti sull' "autorità del F.d.U. nel presente: Mc 2,10 (il F.d.U. ha potere di perdonare i peccati sulla terra) e Mc 2,28 (il F.d.U. è signore del sabato). Ritengo che qui ci sia lo "zampino" della comunità primitiva. Ma non è questa la sede per argomentarlo.

Qual è il punto forte di questa tesi? Beh, se il Figlio dell’uomo non è altro che un simbolo per indicare la consegna del Regno e del giudizio da parte di Dio al gruppo di Gesù, allora i detti sul F.d.U. si armonizzano alla perfezione con i detti sul Regno: i due principali filoni della tradizione sinottica che, tuttavia, non comparendo praticamente mai insieme, avevano indotto qualcuno (Philipp Vielhauer) a pensare che soltanto uno dovesse essere originario e l’altro (quello del F.d.U.) secondario. Ma, come si vede, quello di Vielhauer è un aut-aut mal posto: Figlio dell’uomo e Regno di Dio sono le due facce della stessa medaglia (con il Figlio dell’uomo che rappresentava, forse, la “cifra” centrale dell’auto-identità del gruppo di Gesù).

Seguono ora le due citazioni (una cortissima e una lunghissima) che mi hanno instradato verso questa tesi.


R. PENNA, I ritratti originali di Gesù il Cristo, San Paolo, Cinisello Balsamo, 1996, p. 143

“Mi sento quindi vicino a M.D. Hooker, The Son of Man in Mark, London, 1967, pp. 174-198, che aggiunge all’espressione una dimensione corporativa (cfr. l’identificazione danielica tra il figlio dell’uomo e il popolo dei santi dell’Altissimo): Gesù si presenterebbe come il nucleo della comunità dei giusti ed eletti, e in quanto tale lascia aperta la strada a chi è pronto ad unirsi a lui”

DALE C. ALLISON Jr., Jesus of Nazareth. Millenarian Prophet, Fortress, Minneapolis, 1998, pp. 65-66

“L’interpretazione collettiva del “Figlio dell’uomo” nella tradizione su Gesù era un tempo popolare presso gli esegeti britannici (ad es. J.R. Coates, A.T. Cadoux, T.W. Manson, C.J. Cadoux, C.H. Dodd, il tardo Vincent Taylor) ma ha perso credito negli ultimi tempi (sebbene Morna Hooker e C.F.D. Moule l’abbiano ancora promossa). Essa merita di essere riesaminata:
1) Se Gesù non utilizzò “il Figlio dell’uomo” come un auto-designazione esclusiva, si spiegherebbe perché, al di fuori della tradizione su Gesù, il termine non divenne mai un titolo cristologico.
2) In generale, molti detti su Gesù hanno in vista ciò che Gerd Theissen chiama Gruppenmessianismus; vedi il suo articolo “Gruppenmessianismus: Überlegungen zum Ursprung der Kirche im Jüngerkreis Jesu”, Jahrbuch für Biblische Theologie 7 (1992), pp. 101-23. E il Giudaismo conosceva un tale “messianismo di gruppo”; vedi Hartmut Stegemann, “Some Remarks to 1QSa, to 1QSb, and to Qumran Messianism”, RevQ 65-68 (1996), pp. 479-505, e Annette Steudel, “The Eternal Reign of the People of God – Collective Exprectations in Qumran Texts (4Q246 and 1QM)”, RevQ 65-68 (1996), pp. 507-25.
3) In Daniele 7 “uno come un figlio d’uomo” può essere identificato con i santi dell’Altissimo, e alcuni esegeti pre-moderni lo leggevano in questo modo; vedi Maurice Casey, Son of Man: The Interpretation and Influence of Daniel 7 (London: SPCK, 1979, pp. 51-98.
4) Se “il Figlio dell’uomo” per Gesù significava i santi degli ultimi giorni, allora possiamo comprendere perché, in un testo come Q 12,8-9, Gesù è strettamente associato con il “Figlio dell’uomo” e tuttavia i due non sembrano essere identici.
5) L’interpretazione collettiva spiega perché alcuni interpreti siano riusciti a trovare in molti testi sul “Figlio dell’uomo” un senso generico.
6) Questa interpretazione chiarifica inoltre il misterioso Mc 9,12b; vedi il mio articolo “Q 12:51-53 and Mk 9:9-11 and the Messianic Woes”.
7) 1Tess 4,15-17 è strettamente imparentato con Mc 9,1; 13, 24-27, e Mt 24,30-31. Ma laddove nei testi sinottici è il Figlio dell’uomo che viene sulle nubi, in Paolo sono il Signore Gesù e i santi, sia risorti che vivi. Il che significa che in 1Tess 4,15-17 i santi non attendono che Gesù venga sulla terra, bensì lo raggiungono sulle nuvole. Ciò ha senso se la tradizione primitiva prevedeva la venuta del Figlio dell’uomo come la venuta dei santi.
8) Il “troni” (plurale) di Dn 7,9 può essere meglio compreso come riferimento ai troni di Dio e dell’ “uno come un figlio d’uomo”. Ciò ha importanza, in quanto Q 22,30, che potrebbe risalire a Gesù, probabilmente allude a Daniele 7 e colloca una collettività (i seguaci di Gesù in Luca, i dodici in Matteo) su “troni”. In altre parole, il testo può essere interpretato come se significhi che i discepoli avranno il ruolo dell’ “uno come un figlio d’uomo” (cfr. Ap 20,4).
9) In Lc 12,32, che può risalire anch’esso a Gesù, ai discepoli di Gesù viene detto che essi riceveranno il regno. In Dn 7,14 il figlio dell’uomo riceve il regno, come avviene per i santi nei versi 18 e 27. Di nuovo, è possibile comprendere il detto nel senso che il “resto” che circonda Gesù adempie il ruolo della figura in Daniele.
10) Come T.W. Manson osservò molto tempo addietro, c’è una sorprendente corrispondenza “tra le predizioni del Figlio dell’uomo e le richieste fatte da Gesù ai discepoli. Sempre e di nuovo viene impresso loro che il discepolato è sinonimo di sacrificio e sofferenza, e della croce stessa. Questo suggerisce che ciò Gesù aveva in mente era che lui e i suoi seguaci insieme dovessero condividere quel destino che egli descrive come la passione del Figlio dell’uomo, il Resto che salva attraverso il servizio e l’auto-sacrificio” (The Teaching of Jesus, 2d ed. Cambridge: Cambridge University Press, 1935, p. 231).

P.S. giugno 2009: questo post non rappresenta più la mia posizione sul problema del Figlio dell'uomo, che si caratterizza ora come un "misto" tra quelle - tra loro tutte diverse - di J. Becker, A. Yarbro Collins, J. Dunn e B. Chilton... ma non dico di più!

2 commenti:

Anonimo ha detto...

Quel che penso della Figura di Joshua ha-Notzri:

Nei libri del Nuovo Testamento sono presenti dei testi che parlando a proposito di Joshua/Gesù, ricorrono ad espressioni che l'Antico Testamento utilizza per parlare della Sapienza.
Molti discorsi di Gesù sono simili a quelli dei saggi. Gli abitanti di Nazaret se ne sono resi conto considerando Gesù superiore agli scribi. Infatti nel Vangelo secondo Matteo leggiamo:
"Quando Gesù ebbe finito questi discorsi, le folle restarono stupite del suo insegnamento: egli infatti insegnava loro come uno che ha autorità e non come i loro scribi" (Mt. 7,28-29).
Lo stesso insegnamento di Gesù espresso in parabole è a carattere sapienziale, tanto è vero che anche i rabbi d'Israele, chiamati saggi, utilizzano la parabola per spiegare ai discepoli il senso di un testo della Scrittura. Quindi la predicazione del Maestro si caratterizza per molti discorsi a carattere sapienziale. E' il caso del celebre discorso della montagna o delle beatitudini (Mt. 5,7), oppure quello tenuto nella sinagoga di Cafarnao e relativo al Pane di vita (Gv. 6).
Accanto a questi discorsi ad ampio respiro ci sono anche delle massime a carattere sapienziale, come questa: "Tutti quelli che mettono mano alla spada, di spada periranno" (Mt 26,52), "Chi vuol salvare la propria vita, la perderà (Mt. 16,25), oppure "Date a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio" (Mt. 22,21), e tantissime altre.
Quindi nella predicazione del *Nazoreo (*forma aggettivale che, probabilmente, non indica il luogo di origine, bensì la corrente da Lui fondata: confronta con Atti 24,5) capita spesso di esprimersi come i saggi di Israele. Ma alcuni testi del Nuovo Testamento, a cominciare dai Vangeli Sinottici, vanno oltre, attribuendo a Gesù ciò che l'Antico Testamento attribuisce alla Sapienza personificata, come leggiamo in questo brano del Vangelo secondo Matteo:
"Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per le vostre anime. Il mio giogo infatti è dolce e il mio carico leggero" (Mt. 11,28-30).
Gesù parla come il saggio del libro del Siracide: "Avvicinatevi a me o ignoranti, fermatevi nella mia casa per istruirvi...., sottomettete il collo al suo giogo [della Sapienza]"(51,23-26); ma nello stesso testo, al capitolo 6, la medesima immagine del giogo è più esplicitamente applicata all'insegnamento della Sapienza stessa: "Introduci i piedi nei suoi ceppi ed il collo nei suoi lacci. Abbassa le tue spalle per caricartela, non infastidirti per i suoi legami... Alla fine otterrai il tuo riposo, si muterà per te in godimento"(Sir. 6,24-25).
Nel Vangelo secondo Matteo Gesù dice: "La regina del sud si leverà a giudicare questa generazione e la condannerà, perché essa venne dall'estremità della terra per ascoltare la sapienza di Salomone; ecco, ora qui c'è più di Salomone!" (Mt. 12,42; anche Luca 11,31).
Salomone esprimeva una Sapienza ricevuta da Dio; possiamo dunque pensare che in Gesù si esprime una Sapienza più grande, la Sapienza stessa di Dio.
In un altro passo del Vangelo redatto da Matteo, Gesù dice: "Perciò ecco, io vi mando profeti, sapienti e scribi; di questi alcuni ne ucciderete e crocifiggerete, altri ne flagellerete nelle vostre sinagoghe e li perseguiterete di città in città" (Mt. 23,34). Il brano parallelo di Luca è presentato, invece, in maniera diversa: "Per questo la sapienza di Dio ha detto: Manderò a loro profeti e apostoli ed essi li uccideranno e perseguiteranno"(Lc 11,49).
Quindi, Luca evidenzia come la Sapienza di Dio sembra essere Gesù stesso che, in conclusione, fa proprie le parole della stessa Sapienza di Dio: "Si, ve lo ripeto..."(Lc 11,51).
In Matteo leggiamo: "Alla Sapienza è stata resa giustizia dalle sue opere" (Mt 11,19). Si comprende chiaramente che queste opere che rendono giustizia alla Sapienza sono le "opere di Cristo".
Questi testi che dipendono probabilmente dalla stessa fonte comune a Matteo e Luca, la fonte Quelle, che significa Detti, i Detti di Gesù, sono molto discussi. Non affermano in modo esplicito che Gesù è la Sapienza, lo suggeriscono solamente.
Tutto quanto è stato detto in riguardo a Gesù Maestro di sapienza è riportato nei Vangeli.
Ma a questo punto a noi interessa il Gesù storico, che è al centro della nostra ricerca. Siamo sicuri, cioè che il Gesù Maestro di sapienza, anzi il Gesù che s'identifica con la stessa Sapienza di Dio, come descritto in filigrana nei Vangeli, sia un attributo del Gesù terreno, quello veramente esistito duemila anni fa? La risposta non può essere che affermativa, ed ora vediamo perché.
Alle origini della predicazione cristiana, troviamo l'attività missionaria dei predicatori itineranti della Galilea Un movimento nato con la stessa predicazione di Gesù. Pietro e i primi discepoli hanno seguito il Maestro in Galilea e l'hanno accompagnato a Gerusalemme (Mc 14,32-42.66-72) ; poi, dopo la cattura del Maestro, sono tornati in Galilea, dove Gesù è apparso loro (Mc 14,28; 16,7), continuando a tenere rapporti con gli altri gruppi di discepoli rimasti a Gerusalemme (Gal 1,19; Atti 12,17) Questo movimento giudeo-cristiano di predicatori itineranti non è durato molto, ma da esso è scaturito un messaggio assimilato da altre correnti del Cristianesimo primitivo. Dall'humus di questo movimento derivano: la fonte Quelle, che come abbiamo detto, raccoglie i Detti di Gesù, ed il Vangelo di Tommaso.
La fonte Q si caratterizza per un contenuto a carattere sapienziale ed è nata, come fonte scritta antecedente ai Vangeli, dall'ambiente degli ascoltatori diretti di Gesù. Ricevendo la sua predicazione l'hanno compresa e sviluppata secondo gli schemi della sapienza popolare. Tutti gli insegnamenti sapienziali di Gesù, i suoi Detti, le parabole, raccolti nella fonte Q, Quelle, sono stati quindi elaborati, dapprima oralmente, poi in diverse redazioni, dai predicatori itineranti di Galilea e successivamente da altri discepoli Galilei non itineranti.
La fonte Q è presente, a parere unanime degli studiosi, nei Vangeli di Matteo e di Luca, e comprende aspetti importantissimi dell'insegnamento del Maestro come le Beatitudini e la preghiera del Padre nostro. Quindi, questa caratterizzazione sapienziale di Gesù, così come ci viene presentata dai Vangeli, è tipica di questa fonte Q che, a parere della stragrande maggioranza di studiosi, è antecedente alla stessa redazione dei Vangeli, quindi molto vicina al Gesù storico.
Andare all'origine della fonte Q per ricostruirne la preistoria, quella che ci presenta il Gesù terreno e non filtrato attraverso i vari stadi redazionali, conduce ad un'altra interessante scoperta avallata da Kloppenborg che porta ad una conclusione: l'idea di Gesù Maestro di sapienza è ampiamente fedele al Gesù storico.
J.S. Kloppenborg individua uno strato più originario che raccoglieva unicamente materiale etico-sapienziale, ripartito in sei unità (I: Lc 6,20b-49; II: 9,57-62; 10,2-11.16; III: 11,2-4.9-13; IV: 12,2-7.11-12; V: 12, 22b-31.33-34; VI: 13,24; 14,26-27; 17,33; 14,34-35), raccolto insieme secondo il modello tradizionale delle "istruzioni dei saggi. Secondo gli studiosi l'ordine originario si ricostruisce meglio da Luca, rispetto a Matteo.
Parallelamente ai lógia della fonte Quelle, c'è un'altra collezione di massime che va sotto il nome di Vangelo di Tommaso. La scoperta di Nag Hammadi, nell'Alto Egitto, ha portato, nel 1948, all'individuazione di una redazione copta di questo testo. Anche qui, gli studiosi hanno rilevato che una prima versione di tipo sapienziale di questa fonte è stata messa in circolazione probabilmente verso gli anni 50 d.C. E, come per la fonte Quelle, che origina da una tradizione sapienziale, così il Vangelo di Tommaso contiene un insegnamento sapienziale originario. Infatti un carattere proprio del Vangelo di Tommaso è di essere il primo scritto della tradizione che contiene parabole di Gesù. Ora, poiché l'insegnamento delle parabole è una delle caratteristiche del Gesù terreno, le parabole del Vangelo di Tommaso potrebbero appartenere a una fase molto primitiva della tradizione gesuanica, cioè risalente direttamente a Gesù.
Le parabole contenute nel Vangelo di Tommaso in alcuni casi potrebbero essere più originali (la perla, la pecorella smarrita, la luce sul lampadario, il seminatore, la zizzania, il banchetto) e più primitive (la giara e la farina, la spada dell'assassino). Tutto questo ci induce a pensare che tra le immagini che i discepoli e gli ascoltatori si sono fatti del Gesù terreno, questa del Maestro di Sapienza è una delle più fedeli all'originale storico.
Come detto in precedenza, il Nuovo Testamento non identifica mai esplicitamente Gesù con la Sapienza, pur attribuendogli molto di quello che i testi dell'Antico Testamento attribuivano alla Sapienza. E' solo in epoca successiva che Gesù sarà esplicitamente detto Sapienza di Dio. Questo titolo cristologico è rimasto lungo tutto il corso della storia cristiana. Tra i testimoni più significativi ricordiamo Origene (III secolo), il beato Enrico Suso (1335), San Luigi Maria Grignion de Montfort. E se da una parte il giudaismo riconosce nella tôrah la Sapienza di Dio, il cristiano, per parte sua, proclama nella fede, che Dio si è rivelato pienamente in Gesù, presenza di Dio tra gli uomini, Emmanuele, ed è per questo che Gesù è detto Sapienza di Dio. Considerando il significato di tale espressione anche in questo caso è da escludere un’interpretazione ‘drammatica’ o metafisica: ‘di Dio’ è il massimo superlativo dell’ebraica favella e, in questo caso, equivale a ‘sapienza grandissima’.
Cosa a dir poco singolare, per orecchie tradizionaliste cristiane, è il valore cabalistico del nome di Gesù in lettere ebraiche (JeHoShVa HA-NoTzRi) calcolato da Rabbi che è 666! Lo stesso del numero d'uomo della Bestia di Apocalisse 13,18. Ciò non desta stupore se comparato all'analogo mito egizio dei gemelli Horus e Seth, quest'ultimo doppio oscuro di Horus.

Johannes Weiss ha detto...

Auto-commento. Il post qui presente non rappresenta più il mio pensiero sul Figlio dell'uomo, che ho rivisto in modo sostanziale, ma che non intendo qui rivelare, se non per definirlo, in modo generale, come un misto tra le prospettive di Jurgen Becker, Adela Yarbro Collins e Bruce Chilton. A buon intenditore, poche parole.