lunedì 7 aprile 2008

La risurrezione di Gesù: un evento "dissonante".

La questione della risurrezione, nella misura in cui è vista come fondamento per la fede, esula decisamente dai miei interessi principali. Però la curiosità storica spinge comunque a fare un pensiero o due a riguardo.
Stavo pensando che c’è un punto specifico, che mi induce a pensare che effettivamente i discepoli di Gesù debbano aver vissuto un qualche genere di esperienza eccezionale, che li ha colti impreparati, trattandosi di qualcosa che non rientrava nelle loro aspettative.

1. Gesù aveva portato avanti un messaggio fortemente escatologico a proposito dell’imminenza del regno di Dio.

2. Tale venuta della basileia avrebbe comportato, tra le altre cose, il giudizio universale da parte di Dio, il quale, a sua volta, avrebbe implicato anche la resurrezione generale dei morti (gli uomini di Ninive e la regina del Sud avrebbero condannato i contemporanei di Gesù che avevano rifiutato il suo annuncio: evidentemente, essi avrebbero dovuto essere risuscitati per poter partecipare al giudizio, e, del resto non v’è dubbio che Gesù condividesse con i farisei la credenza nella risurrezione dei morti ,vedi la polemica coi sadducei).

3. Quindi Gesù, e i suoi discepoli dietro a lui, si aspettavano che, e al momento dell’irruzione del Regno in potenza, si sarebbe verificata, tra le altre cose, anche la risurrezione generale dei morti.

3.1. Ciò sembrerebbe implicato anche nell’ultima cena, quando Gesù – intuendo forse una fine violenta – afferma che non avrebbe più bevuto il frutto della vite fino a quando non lo avrebbe bevuto di nuovo nel regno di Dio.
Con tale dichiarazione Gesù sembra infatti affermare 1) ancora una volta l’imminenza del regno di Dio (e non caso la struttura della promessa è la medesima di quella in Mc 9,1 – che io considero storicamente autentica); 2) lasciando intendere (forse) che egli, Gesù, avrebbe partecipato al banchetto nel Regno solo dopo aver sperimentato sulla propria pelle la tribolazione escatologica, forse anche fino alle estreme conseguenze; 3) e che quindi, nel caso di Gesù, la partecipazione al banchetto escatologico sarebbe avvenuta non in modo “naturale” ma in virtù di un atto escatologico di Dio, quale appunto la resurrezione dei morti [ad ogni modo questo punto 3.1. non è decisivo. Quand’anche si ritenga che la promessa solenne contenuta in Mc 14,25 costituisca solo una testimonianza della fervente attesa imminente del Regno, e non anche una velata allusione da parte di Gesù ad una sua fine violenta, rimane comunque valida la conclusione raggiunta al punto 3].

4. Ora, l’esperienza pasquale dei discepoli si discosta in modo notevole dalle aspettative escatologiche che essi nutrivano durante il ministero terreno di Gesù. Loro si aspettavano la risurrezione generale dei morti nell’ambito di una catena di eventi escatologici comprendenti l’irruzione della signoria definitiva di Dio, con le sue mastodontiche conseguenze anche politiche e sociali, e il giudizio universale. Oltretutto, tale risurrezione generale non era nemmeno il punto focale dei loro pensieri, e infatti troviamo ben poche affermazioni a riguardo nei vangeli: si trattava infatti di una semplice implicazione, un’ovvia conseguenza della venuta della basileia.
Ebbene, ciò che accade a Pasqua non coincide affatto con ciò che i discepoli attendevano accadesse. Già la risurrezione generale non era al centro del loro “campo visivo”, ma sullo sfondo: ma la risurrezione di un singolo, poi!
Questa non era in alcun modo immaginabile né da loro, né da qualsiasi altro giudeo che credesse nella risurezzione. Non esisteva nel giudaismo l’idea che un singolo, solo un singolo, potesse essere risuscitato dai morti. La risurrezione era per definizione un evento escatologico collettivo. Ci si poteva aspettare che lo spirito di un profeta o di un giusto venisse esaltato in cielo, mentre le sue ossa rimanevano ancora nella terra, o si poteva arrivare a pensare che egli fosse in realtà stato rapito in cielo alla maniera di Enoch ed Elia (con una morte quindi solo apparente). Ma la risurrezione di un morto, di uno soltanto, era qualcosa di non contemplato dalle categorie mentali giudaiche.

5. Gesù, del resto, non aveva mai parlato ai discepoli della sua personale risurrezione: le predizioni che troviamo nei vangeli sono profezie post-eventum, oppure, qualora vi si voglia vedere un qualche nucleo storico, devono essere interpretate attraverso una concezione collettiva del Figlio dell’uomo – il gruppo dei discepoli, Gesù compreso – che passa attraverso i due stadi della tribolazione ed esaltazione.

6. La conclusione a cui giungo è che i discepoli non poterono inventarsi di sana pianta qualcosa che non era in alcun modo contemplato nelle possibilità concettuali dell’escatologia giudaica. Essi andarono perciò effettivamente incontro ad un’esperienza singolare che non rientrava affatto nelle loro aspettative, e, di fronte alla quale, reagirono in effetti con un certa incredulità e scetticismo.

7. E’ possibile che le loro aspettative precedenti (la risurrezione generale nell’ambito della venuta del Regno) abbia contribuito a far sì che essi interpretassero tale esperienza singolare appunto come “risurrezione”, piuttosto che come semplice “esaltazione”. Tali aspettative possono aver contribuito a interpretare l’evento singolare (risurrezione del loro leader, piuttosto che la sua giustificazione ed esaltazione in spirito nei cieli), ma non a crearlo: essi si aspettavano infatti un evento escatologico collettivo di portata “cosmica”, non individuale!

8. Con ciò non ho evidentemente affatto stabilito che la risurrezione sia un evento storico realmente verificatosi. Anzitutto perché, a rigor di termini, non è semplicemente possibile parlare della risurrezione come evento storico: l’escatologia è infatti per definizione ciò che trascende, compie, mette fine o racchiude la storia. Un evento escatologico, quand’anche - come nel caso della fede cristiana - sia visto come verificatosi all’interno della storia, rimane pur sempre di ordine “meta-storico”. Rigorosamente parlando, storica non è la risurrezione di Gesù (un risorto è ipso facto oltre e sopra la storia) ma l’esperienza che ne ebbero i suoi discepoli. In secondo luogo, il mio ragionamento non dice nemmeno nulla riguardo al grado di affidabilità della interpretazione (la categoria “risurrezione”) con cui i discepoli sperimentarono l’evento singolare (le apparizioni pasquali). Semplicemente mi sembra di aver concluso che l’annuncio della risurrezione di Gesù non è qualcosa che i discepoli poterono inventarsi di sana pianta, sia per dolo sia per semplice wishful thinking, in quanto tale annuncio stava decisamente in tensione con le aspettative e le categorie del loro orizzonte concettuale escatologico. Da questo punto di vista l’esperienza della risurrezione di Gesù più che essere il frutto di una “dissonanza cognitiva”, è essa stessa la dissonanza che costrinse i discepoli di Gesù a rivedere lo scenario escatologico che fino a quel momento avevano in mente.

Ad ogni modo, è solo un’opinione assai acerba, essendo la prima volta che mi accosto a tale problema.

2 commenti:

massimo-ekpyrosis05 ha detto...

E' interessante la sua categoria di evento dissonante, e concordo sulla sua analisi delle aspettative escatologiche dei discepoli. Dunque mi convincono anche le sue conclusioni. Tuttavia non riesco proprio ad accogliere l'idea di un'esperienza dei discepoli, di una loro appassionata testimonianza sulla realtà di ciò che hanno avuto sotto gli occhi (quante volte ricorre il verbo "vedere" nei racconti della resurrezione)cui non corrisponderebbe alcun evento storico. E' chiaro che qui bisogna intendersi sui termini, e soprattutto sul termine "esperienza". Vi può essere un'esperienza senza un "esperito"? Se l'esperienza è un fenomeno psichico, della coscienza (ma di quella coscienza che innerva ogni parte del nostro corpo ed è dal corpo indisgiungibile), essa ha, per dirla con Brentano ed Husserl un carattere "intenzionale", cioè ha sempre un riferimento fuori di sé, e fuori dal soggetto che la compie. Mi si dirà che esistono anche esperienze ditorte, fallaci, erronee, allucinate etc. Ma pure di queste esperienze vi è una fenomenologia, che riesce a descriverle in modo soddisfacente e a distinguerle da quelle "credibili". I racconti evangelici trattano in termini accettabili, anche se certamente desunti da una koiné culturale religiosa che molti hanno interpretato tendenziosamente come intrinsecamente patologica, di un espeirenza che tuttavia si dipana secondo moduli perfettamente coerenti con una totale presenza a sé di coloro che l'hanno compiuta, i quali non ha caso mostrano un atteggiamento inizialmente scettico o incapace comunque di cogliere appieno il significato del proprio vissuto con le categorie ideologiche di cui diponevano (di qui la dissonanza di cui le giustamente parla). Dunque se vi è esperienza in un senso fenomenologicamente plausibile vi deve essere anche un mondo "esterno" cui riferire il vissuto, cioè la specifica "intentio", la "direzione" dell'atto coscienziale. Le testimonianze delle donne e degli apostoli, con il loro specifico valore conoscitivo intersoggettivo e interpersonale (un bell'articolo di R. Silvestri su Dialeghesthai parla di "adaequatio rei et personae")riguardano proprio il valore di realtà di ciò che è stato oggetto di esperienza. Se tali testimonianze sono ritenute degle di fede, bisogna ammettere in modo assolutamente inequivocabile la dimensione di storicità dell'evento-resurrezione, altrimenti bisogna concentrarsi sulla esibizione dei motivi di non-credibilità della testimonianza, evitando la petizione di principio che la testimonianza non è valida perché è impossibile che il fatto sia accaduto.L'idea che, trattandosi di un evento escatologico, la resurrezione sia per sua natura propriamente metastorica, mi risulta parimenti irricevibile. Se è vero che l'èschaton è un evento ultimo, non si può trattare che di un evento ancora storico, altrimenti rispetto a che cosa sarebbe "ultimo"?L'éschaton mi sembra debba proprio trattare dell'irruzione del tutto nel frammento, o della restituzione del frammento al tutto, ma sempre come di qualcosa che riguarda in modo peculiarmente inaggirabile il frammento, la sua storia e il suo destino. Dunque in sostanza non mi pare che si possa negare che se vi è stata esperienza, vi è un accadimento e se vi è un accadimento, ciò riguarda la storia, e infine che storia ed èschaton sono reciprocamente coimplicati e indissolubilmente uniti (anche secondo una ratio cognoscendi: noi non sapremmo nulla dell'èschaton se esso non ci fosse stato annunziato come un elemento le cui primizie e i cui segni sono ravvisabili nella storia e stanno dentro di essa come il suo sale e la sua ragion d'essere). Forse questo tipo di discorso esula da un interesse storico-critico-esegetico; ciò malgrado un'analisi e una condivisione dei presupposti linguisitico-semantici dell'argomentazione di teologia biblica risulta necessaria. Altrimenti si rischia di accettare acriticamente le sottigliezze di coloro che, come Bultmann per esempio, una simile analisi l'hanno compiuta, ma con una pesante pre-comprensione teoretica del loro oggetto, che come tale va demitizzata nella sua pretesa di aver imparzialmente e definitivamente colto la verità dell'oggetto stesso.
Un cordiale saluto con i complimenti per la qualità degli scritti contenuti nel suo blog, al di là delle differenze di opinione.
Massimo-ekpyrosis05

Johannes Weiss ha detto...

La ringrazio sentitamente per il suo gentile e approfondito commento, che mi trova d’accordo su molte cose e che onora questo modesto blog.

Credo che l’ “eschaton”, più che essere l’ultimo di una serie di eventi, sia ciò che riprende, comprende e consuma la serie stessa. Facendo un paragone visivo – che funziona da un certo punto di vista, ma è evidentemente inadeguato da altri - è un po’ come se noi camminassimo lungo il diametro di una palla di vetro: cammina cammina, a un certo punto sbattiamo il naso contro il vetro; ora, questo “toccare il vetro” in un certo senso è un evento che io esperisco all’interno del mio cammino lungo il diametro, e in quanto tale è “storico”, tuttavia esso è storico nel senso che di fronte ad esso ho sperimentato ciò che pone compimento al mio camminare, e che mi impedisce di aspettarmi qualcosa di ulteriore. Il “vetro” è dunque “storico” nella misura in cui io lo tocco, ma in sé stesso, esso non è un “momento” all’interno del mio camminare, bensì ciò che, ponendovi fine, racchiude e comprende la totalità del mio cammino. Dal mio punto di vista, dunque, si può dire chel’eschaton sia storico in senso negativo, o meglio, relativo, cioè come punto in cui la storia trova ed esperisce il suo limite e il suo compimento, ma dal punto di vista positivo, l’eschaton non può essere un evento come gli altri - sia pure alla fine - all’interno della storia: nel momento stesso in cui esso tocca la storia, la trascende, poiché non può essere da essa contenuto. Sono assolutamente d’accordo che eschaton e storia si implichino a vicenda, e infatti non definisco la risurrezione come evento “a-storico”, bensì “meta-storico”. Secondo me la parola “meta-storico” funziona: dice semplicemente che ciò di cui si parla va oltre la storia, non è che senza legame con essa (a-storico). Il Risorto si è fatto esperire corporalmente da esseri umani all’interno di questa storia: possiamo quindi dire che la storia ha assistito alla comparsa al suo interno dell’eschaton (il tutto nel frammento), e in quanto tale possiamo anche definire la risurrezione “storica”. L’incontro con il Risorto, tuttavia, proprio nella misura in cui è un incontro, è allo stesso tempo anche un addio: egli non può più restare con i suoi discepoli (non è infatti un Lazzaro qualunque!), deve bensì “ascendere al cielo”, e questo perché è la storia stessa che – poverina – non è più capace di ospitarlo, di contenerlo.

Ad ogni modo, penso che almeno su una cosa ci sia accordo, ossia sul fatto che, come Lei, anch’io concordo che eschaton e storia sono “reciprocamente coimplicati e indissolubilmente uniti”. E infatti il mio alter-ego teologico (Johannes DeSilentio) non gradisce quelle proposte teologiche che parlano di “risurrezione nella morte” (cf. Greshake), per cui appena si uscisse dalla “tenda” di questo mondo, ci si ritroverebbe all’istante in un “eterno” in cui tutto è già compiuto (giudizio universale, risurrezione generale e nuovi cieli e nuova terra – mi pare che il card. Biffi sostenga questa visione): in quest’ottica infatti (che è un po’ quella della sfera di vetro di cui ho parlato prima … e che infatti ho definito in anticipo come immagine inadeguata) la storia mi sembra privata di senso e ridotta praticamente ad un mero “velo di Maya”, una volta varcato il quale si scopre che l’eschaton è già “realizzato” da sempre.
Ma questi sono pensieri troppo grandi….

Riguardo invece all’intenzionalità dell’esperienze di risurrezione, anche qui il mio alter-ego teologico è d’accordo con Lei. Ritengo solo che il giudizio su tale questione (la REALTA’ o meno di colui che nelle apparizioni pasquali è stato esperito), positivo o negativo che sia, è di pertinenza del filosofo, non dello storico.