Ho sempre ritenuto che, comunque si decida in merito al problema di quale gruppo di detti sia di considerare più probabilmente “autentico” (F.d.U. futuro, F.d.U. nella attività presente, F.d.U. sofferente), almeno non ci possono essere dubbi circa il fatto che Gesù ha utilizzato l’espressione “Figlio dell’uomo”.
Di fronte a coloro che – come, ad es., Philipp Vielhauer – cercavano di attribuire in toto la ricorrenza dell’espressione nella tradizione gesuana alla cristologia della comunità primitiva, mi sembrava decisiva la seguente obiezione - che riporto con le parole di Leonhard Goppelt, traducendole dalla citazione riportata in W.D. Davies, D.C. Allison, Matthew 8-18, p.48 – secondo cui, tale ipotesi, per funzionare, deve supporre che “di questa cristologia, al di fuori dei vangeli, non sia sopravvissuta nemmeno una singola formula comunitaria, un kerygma, una confessione di fede, una preghiera”. Il che va evidentemente contro ogni plausibilità.
Recentemente, però, ho letto da parte di Delbert Burkett (nel suo molto istruttivo The Son of Man Debate) una contro-obiezione alla “obiezione di Goppelt” secondo cui:
“The absence of the title ‘Son of Man’ in the New Testament outside the Gospels and Acts can best be explained if the title had currency primarily in Palestinian Christianity. While most of the New Testament represents the legacy of Hellenistic Christianity outside of Palestine, the Gospels and the early chapters of Acts retain traces of Palestinian tradition. If the title ‘Son of Man’ arose in Palestinian context, it should appear precisely where it does” (p. 123).
Pur trovando tale “contro-obiezione” interessante, ci sono un paio di punti che non mi tornano.
1. Benché le lettere paoline rappresentino per lo più – come dice Burkett – “the legacy of Hellenistic Christianity”, bisogna però ammettere che Paolo è certamente a conoscenza di tradizioni palestinesi su Gesù. Al di là del fatto che egli abbia talvota impiegato persino degli aramaismi (abba, maranatha), ci sono vari casi in cui egli, esplicitamente o implicitamente, mostra di riferirsi e, quindi di conoscere, alcuni detti di Gesù (su questo vedi: M.Pesce, Parole dimenticate di Gesù).
Per quanto ci riguarda, di particolare interesse è l’affermazione che Paolo fa “sulla parola del Signore” in 1 Ts 4,15-17. Sanders (San Paolo, ed. Il Melangolo, p. 37) – il quale, come anche Pesce, ritiene che qui Paolo faccia riferimento a un detto del Gesù storico – individua l’eco di Gesù soprattutto nei seguenti elementi: “noi, i viventi, i superstiti alla venuta del Signore (…) ad un segnale, con voce di arcangelo e al suono della tromba di Dio (…) discenderà dal cielo (…) poi noi, i viventi, i superstiti (…) saremo sempre col Signore”.
In sostanza, qui Paolo mostrerebbe di essere a conoscenza di quei detti (o almeno del “tema”) di Gesù in cui si parla della venuta del Figlio dell’Uomo, insieme agli angeli, al suono di una tromba, mentre coloro che ascoltano sono ancora in vita (cf. Mt 16,27-28; 24,30-31).
Ora, se quindi Paolo conosceva le tradizioni palestinesi che parlano della venuta del Figlio dell’Uomo , come mai non ha utilizzato l’espressione?
Io risponderei: “perché ‘Figlio dell’uomo’, già all’epoca in cui Paolo scrive ai Tessalonicesi (50 circa), era un’espressione cristologicamente insufficiente: Gesù ormai era il Signore, ed è infatti proprio questa l’espressione sostituiva del F.d.U. che troviamo in 1 Ts 4,15-17”.
Burkett, invece, come potrebbe rispondere?
Dovrebbe dire qualcosa del genere: “sì, Paolo nell’anno 50 è naturalmente a conoscenza del titolo coniato “nuovo di zecca” di ‘Figlio dell’uomo’ , che imperversa a più non posso nelle comunità palestinesi di quegli anni. Però, nonostante in tutta la Palestina – da poco più di un pugno di anni - non si parli d’altro che di questo “Figlio dell’uomo”, che costituisce quindi la cristologia par excellence delle comunità palestinesi, Paolo ritiene che i suoi uditori tessalonicesi ne possano fare tranquillamente a meno”.
In sostanza, la singolare storia del titolo “Figlio dell’uomo” si svolgerebbe così: inventata dalle comunità palestinesi non più tardi che alla fine degli ’40 (dopo il “Concilio di Gerusalemme” del 48 – in cui la missione ai pagani, già da tempo in atto, viene ufficialmente confermata - come sarebbe stato possibile inventare un detto come Mt 10,23?), essa avrebbe istantaneamente goduto di un successo incendiario e sbalorditivo, permeando completamente di sé tanto la “tradizione Q” quanto quella marciana, e tuttavia, da un giorno all’altro, sarebbe dovuta diventare talmente “accessoria” che Paolo nel 50 poté riferire ai Tessalonicesi una tradizione in cui si parla della venuta del F.d.U. facendo tranquillamente a meno del titolo.
Ora, tutto è possibile, certo; ma una cosa è il possibile e un’altra il probabile. Mi sembra onestamente molto più semplice tracciare una “storia della tradizione” che veda l’espressione nascere con il Gesù storico, rimanendo poi fedelmente conservata nelle tradizioni evangeliche (dove la troviamo sempre e solo sulle sue labbra) in quanto “memoria Jesu” (salvo essere talvolta sostituita, specialmente là dove poteva essere un po’ ambigua, come in Mt 10,32 dove il “F.d.U.” della fonte Q – cf. Lc 12,8 - viene sostituito dal meno problematico “io”), mentre a livello della confessione di fede e delle formulazioni kerygmatiche, liturgiche e dossologiche, esso fu irrilevante sin dall’inizio, non potendo competere con titoli ben più significativi quali “Cristo” e “Signore”, al punto che Paolo, in modo del tutto naturale, poté riferire ai Tessalonicesi la tradizione sulla venuta del Figlio dell’uomo in termini di “Signore”.
2. E’ proprio vero che il F.d.U. compare precisamente là dove dovrebbe, ossia là dove vengono conservate tradizioni cristologiche palestinesi? Come la mettiamo allora con la Didaché? Il testo – benché di difficile datazione – viene spesso collocato tra la fine del I sec. e l’inizio del II, probabilmente in Siria o perfino in Palestina. In poche parole, si tratta di un testo che come luogo d’origine ed epoca è molto vicino ai sinottici, e che, probabilmente, raccoglie anche delle tradizioni che, almeno in certe parti, sono parallele e indipendenti rispetto a quelle sinottiche.
Di particolare interesse per il nostro problema è il detto che troviamo in 16,8: “Allora il mondo vedrà il Signore che viene sopra le nuvole del cielo”.
Questo loghion ci testimonia chiaramente l’esistenza di un detto sul F.d.U. riportato da una tradizione molto vicina alla Palestina (se non palestinese), in cui però il titolo viene già sostituito con quello più cristologicamente rilevante di “Signore”. Secondo l’ipotesi di Burkett, questo non sarebbe dovuto accadere: se il F.d.U. “should appear precisely where it does” ossia là dove vengono conservate “traces of Palestinian tradition”, perché allora il titolo non compare anche in Didachè 16,8?
In conclusione, la riproposizione da parte di Burkett della tesi secondo cui l’espressione “Figlio dell’uomo” rappresenta in toto una formulazione cristologica delle comunità palestinesi, senza alcun fondamento nel Gesù storico, deve a mio avviso essere respinta.
domenica 13 aprile 2008
Il Figlio dell'uomo: un'invenzione palestinese? Considerazioni in margine ad un'obiezione di Delbert Burkett
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