mercoledì 18 giugno 2008

Lettera aperta a un vescovo di Spagna. Quando ad essere scomunicata è la storia.

Due post fa, ho evidenziato come la teologia cattolica stia sostanzialmente recependo i contributi di quella corrente di studi che, benché in modo non troppo significativo, viene denominata “Third Quest”.
Ora, ciò che ho messo in luce in quel post è e rimane vero.
Ad es., sto leggendo l’introduzione alla cristologia del padre gesuita Thomas Rausch, Who is Jesus? Liturgical Press, Collegeville, 2003 (opera decisamente divulgativa, ma proprio per questo significativa), e non posso fare a meno di stupirmi piacevolmente dell’ampio spazio che l’Autore dedica alla presentazione storica del contesto giudaico, del movimento di Gesù in connessione con quello di Giovanni e del ministero vero e proprio di Gesù … e tutto questo – udite udite! – senza dedicare neanche un paragrafo alla più classica delle questione cristologiche: i “titoli” di Figlio di Dio, Figlio dell’uomo, Messia.
Tuttavia è con grande amarezza e preoccupazione che devo riferire di un importante e grave caso in controtendenza con quanto ho esposto. Un caso in cui, per la verità, non si tratta nemmeno di recepire o rifiutare la “Third Quest”, bensì in cui ad essere in gioco è la legittimità tout court della ricerca storica su Gesù.
Mi sto riferendo alla sconcertante polemica in atto in Spagna contro il libro del sacerdote e professore José Antonio Pagola: Jesus. Aproximacion historica (Ppc, Madrid, 2007, pag. 540).
Non si tratta semplicemente di un caso analogo a quello che qui da noi ha visto studiosi ecclesiastici come Cantalamessa e De Rosa criticare aspramente il lavoro di Mauro Pesce e Corrado Augias.
Finché infatti si tratta di critiche di semplici studiosi – non importa quanto ecclesiasticamente rappresentativi - , va benissimo: nessuno contesta ad un biblista o a un teologo il diritto di essere in disaccordo con il lavoro di uno storico. Grave, anzi gravissimo, sarebbe tuttavia se la critica provenisse non più da un biblista o da un teologo privato, bensì da un vescovo, ossia dal massimo grado di autorità esistente nella Chiesa.
Ebbene, purtroppo, questo è proprio ciò che è avvenuto in Spagna grazie al vescovo di Tarazona mons. Demetrio Fernandez. Ex-docente di cristologia all’Istituto Teologico di Toledo, Fernandez ha ritenuto di dover ricorrere addirittura ad una nota ufficiale pur di mettere al sicuro le pecorelle della sua diocesi “piccola e umile, che vive, come tutte, influenzata dai fenomeni di massa, tante volte provocati con grande apparato mediatico” dalle sottili insidie del libro di Pagola che (con ben otto edizioni nei soli primi sei mesi!) rischia di seminare confusione e di arrecare un considerevole danno, specialmente alla fede dei più semplici. “Il libro di Pagola farà danno” – così s’intitola, significativamente, la nota del vescovo iberico.
Ma perché mai farà danno? Cosa c’è di così pericoloso e inaccettabile nel lavoro del professore e sacerdote della diocesi di San Sebastian? Essenzialmente questo: che “il Gesù di Pagola non è il Gesù della fede della Chiesa”.
Mons. Fernandez vede il tentativo di Pagola guastato dalla tecnica della demitizzazione promossa da Bultmann, e fatta propria - afferma - da diversi altri autori, come Schillebeeckx e Sobrino; si tratta, in sostanza, di “applicare acriticamente il metodo storico-critico (in sé stesso valido, ma con i suoi limiti) selezionando quello che quadra con l’a-priori che uno si è formato”.
Secondo il Vescovo di Tarazona, “lungo questa via possiamo presentare un Gesù a nostra misura e a nostro gusto, e farlo per di più con gli argomenti della critica storica. Tuttavia questo Gesù deve sottomettersi criticamente alla fede della Chiesa. Detto chiaramente, in questo modo si presenta un Gesù nel quale si selezionano alcuni tratti, se ne ampliano altri, se ne sopprimono molti, senza nessun riferimento alla fede della Chiesa che in maniera viva ci ha trasmesso lungo il corso dei secoli il Gesù Cristo autentico, l’unico che può salvare”.
Il libro di Pagola è quindi colpevole di un “silenzio totale sulla riflessione che la Chiesa ha realizzato nel corso della storia, in modo particolare nei sette concili ecumenici della Chiesa indivisa durante il primo millennio. E’ come se la Chiesa avesse adulterato il messaggio e dovessimo così raggiungere le fonti più pure per incontrare di nuovo il Gesù perduto – e tutto questo con il pretesto della storicità”.
Secondo mons. Fernandez, nel corso dell’opera appare continuamente la grande “tentazione ariana” con cui Gesù viene ridotto ad un uomo sì eccezionale, ma non consustanziale al Padre.
Di fronte a tentazioni del genere, Fernandez sente il dovere di riaffermare a chiare lettere che, a dispetto dei silenzi di Pagola [sottolineo: silenzi, non negazioni!] “Gesù sapeva di essere Dio” e che “ha avuto coscienza della sua morte redentrice”, offrendo la sua vita in riscatto per tutti e come riparazione all’offesa arrecata a Dio dal peccato.
Infine, il vescovo di Tarazona, rinvia le proprie pecorelle ad una serie di più ampie e altrettanto distruttive recensioni del libro di Pagola, scritte da vari teologi e ospitate in una apposita sezione del sito della diocesi.
Quella del docente di cristologia José Antonio Sayes, ad es., riprende e amplia la linea critica del Vescovo, allorché rimprovera Pagola rammentandogli che “ciò che deve fare un teologo non è eliminare i dati della Scrittura e della Tradizione. Così non si fa teologia” e denunciando come “la categoria che domina questa gesuologia (e non cristologia) è quella di una “esperienza” immanentista priva di capacità di confessare che il Verbo, seconda persona della Trinità, è entrato veramente nella storia per divinizzarci in Cristo e liberarci dalla schiavitù del peccato”.
[annoto anche che Sayes, oltre ad affermare cose del tipo che il metodo della “cristologia implicita”, da Pagola non utilizzato, porterebbe a riconoscere che Gesù “si presenta come Dio costantemente” – mettendo così sottosopra il concetto di cristologia implicita e rendendolo una farsa - o a richiamarsi tranquillamente a detti giovannei come testimonianza della coscienza di Gesù della propria divinità, riesce persino nell’impresa di sostenere che “Gesù Cristo si mostra come Dio quando afferma di sé stesso di essere il Figlio dell’uomo che viene sopra le nubi del cielo”, stuprando così il concetto di “Messia sovrumano” – indipendentemente dalla questione della sua gesuanità - con buona pace degli enochici (cf. il Libro delle Parabole, in cui Enoc viene identificato come il Figlio dell’uomo) ].

Ora, a mons. Fernandez e ai "suoi" teologi, io vorrei chiedere soltanto una cosa: PERCHE’?
Perché questa consapevole falsità e menzogna nel denunciare, nello stroncare e nel bandire un libro per ciò che esso NON E’ ? Diteci, ve ne preghiamo, perché mai uno studioso – sacerdote o laico che sia – che volesse scrivere un libro su Gesù da un punto di vista rigorosamente STORICO, perché mai costui dovrebbe essere tenuto a fondare la propria ricostruzione sulla dottrina ecclesiale, perché mai dovrebbe svolgere il proprio lavoro in riferimento ai sette concili ecumenici della Chiesa indivisa, perché mai dovrebbe sottomettere criticamente alla fede della Chiesa il Gesù STORICO che egli riesce a raggiungere?
Diteci per quale assurda ragione uno storico deve veder stroncato il proprio libro con il rimprovero che “così non si fa teologia” (!!) e sentirsi accusato per una metodologia incapace di “confessare che il Verbo, seconda persona della Trinità, è entrato veramente nella storia”.
Perché, reverendi studiosi e monsignori, state rinnegando in un solo colpo quarant’anni e più di dialogo e sinergia della teologia cattolica con il metodo storico-critico? Perché volete insegnare e ammonire i vostri fedeli che il tentativo di accostarsi a Gesù secondo da una prospettiva storica è illegittimo e incompatibile con la fede?
Perché volete negarci la possibilità di distinguere – non separare! – il Gesù della storia dal Cristo della fede? Perché volete ricondurre i vostri fedeli in uno stato di minorità, impedendo loro di fare storia secondo i criteri e i metodi propri della disciplina storica e comunemente in uso?
Che cos’è – vi prego di spiegarcelo - questo metodo storico che, per essere serio e scientifico, dovrebbe non prescindere dalla fede? Che cosa volete dire con ciò? Che non è possibile guardare alla fede depositata nei testi neotestamentari pregiudizialmente, come a una distorsione e falsificazione del messaggio di Gesù? Se è questo che intendete, sono certamente d’accordo.
Ma è veramente solo questo che volete dire, o, come mi sembra, state avanzando una pretesa molto diversa e di ben altra portata: che cioè non sia possibile accostarsi al Gesù storico prescindendo dalla fede della Chiesa, quale è andata sviluppandosi nella tradizione e nei grandi concili – è questo dunque che state suggerendo?
E allora avanti, coraggio, scrivetecela direttamente voi, dettatela direttamente voi agli storici, “dall’alto”, questa storia di Gesù!
Questo Gesù di cui non si può dire che attendesse il Regno di Dio, e che guardasse ad esso come alla soluzione per la crisi sociale e politica del suo tempo, per il semplice fatto che il regno di Dio non era nient’altro che lui stesso, l’autobasileia; questo Gesù di cui non si può dire – come fa Pagola – che fu “un credente fedele”, poiché egli sapeva benissimo di essere Dio, la seconda persona della Trinità discesa sulla terra per espiare i peccati degli uomini; questo Gesù di cui non si può dire che fosse un profeta ebreo con la missione di radunare e restaurare Israele nella imminente e già sopraggiunta ora escatologica, poiché egli era venuto invece a fondare la Chiesa, fornendole perfino l’ordinamento giuridico necessario per la sua futura millenaria esistenza (alla faccia dell’eschaton).
Perché, perché fate questo? Sì, lo sappiamo benissimo che “i semplici” potrebbero sentirsi smarriti e turbati, trovandosi tra le mani un libro semplicemente storico su Gesù; e questo perché essi non hanno mai nemmeno immaginato che il Gesù risorto, glorificato e dogmaticamente definito che essi adorano (e che è certo reale e vero!) potesse non essere sic et simpliciter il Gesù che camminava per le vie della Galilea. E so benissimo che non è semplice spiegarlo, anzi è un lavoro ingrato.
Ma voi che fate? Vi tirate indietro? Non ci provate nemmeno a raccogliere la sfida che questi tempi vi pongono? Perché? Pensate forse che Dio vi abbia abbandonati, che non cammini più insieme al suo popolo, che lo Spirito abbia esaurito il suo soffio?
Davvero pensate che l’unica soluzione sia emettere documenti ufficiali con cui rassicurare i più semplici tra i figli della Chiesa che il Gesù della fede coincide perfettamente con il Gesù della storia, condannando invece quei figli che sono un po’ meno semplici, e osano fare delle distinzioni, a passare per eretici dentro le mura di casa e per imbecilli al di fuori (in quanto pur sempre pecore di tali pastori) ?
E’ davvero questa la strada giusta?

P.S. per chi non si fosse imbattuto nel libro di José Antonio Pagola – come ritengo probabile, anche se immagino verrà tradotto ben presto anche da noi - specifico che si tratta di un’opera divulgativa, ma molto ben scritta (come riconoscono anche i detrattori – e, del resto, si fa così anche con Crossan), che si muove su un piano rigorosamente storico, rifacendosi ai risultati prodotti dai lavori di tutti i più importanti studiosi degli ultimi vent’anni.
Come ho detto, si tratta di un lavoro divulgativo: quasi mai si vede l’Autore impegnarsi personalmente nel dimostrare qualche tesi o nell’analizzare criticamente questa o quella tradizione; da questo punto di vista, Pagola è un ordinato compilatore dei risultati prodotti dalla più recente ricerca, selezionati e valorizzati attraverso quella che è la lente principale attraverso cui Pagola guarda Gesù: la dimensione di giustizia sociale della vicenda di Gesù e del Regno di Dio da lui annunciato.
[personalmente trovo che l’accento sociale sia effettivamente calcato un po’ troppo rispetto a quello che io trovo essere il punto veramente centrale e fondante dell’annuncio di Gesù: l’escatologia imminente. Ma questo non è un gran problema].
In realtà, pur muovendosi, come ho detto, all’interno di un piano rigorosamente storico (benché in modo divulgativo), lo sguardo che Pagola getta a Gesù non è sempre quello neutrale del “puro storico” (alla Sanders) bensì uno sguardo con una certa sensibilità teologica, all’interno del quale la personalità, il comportamento e la vicenda di Gesù vengono evidenziate come modello di esistenza cristiana.
Infatti - scrive l’Autore nell’introduzione - “Non basta confessare che Gesù è l’incarnazione di Dio se poi non ci si preoccupa di sapere com’era, cosa viveva o come agiva quest’uomo nel quale Dio si è incarnato. A poco serve difendere dottrine sublimi su di lui, se non camminiamo sui suoi passi” (p. 7).
Tuttavia questa sorta di “dimensione teologica” latente nel libro (ma in modo discreto), e che probabilmente ne ha decretato pure il successo, non dà assolutamente a luogo ad alcuno spunto polemico contro la dottrina cristologica tradizionale della Chiesa.
Ed è proprio questo che rende davvero assurde le critiche del Vescovo Fernandez & Co.: Pagola si muove semplicemente al di qua della prospettiva cristologica, senza mai trarre dalla sua esposizione storica implicazioni dogmatiche di sorta, esattamente come dovrebbe fare ogni storico serio, qualunque sia la sua fede o non fede personale. Perché dunque questa “scomunica” contro Pagola, e non invece contro – fatte le debite proporzioni - Un ebreo marginale di J.P. Meier?

P.P.S. La "carta pastoral" contro il libro di José Antonio Pagola, pubblicata da mons. Fernandez, vescovo di Tarazona, può essere letta al seguente link: http://www.diocesistarazona.org/otros/dfp2.pdf.
Qui invece si possono trovare le altre recensioni di altri tre teologi (Rico Paves, Sayes, Iraburu) e del vicario episcopale di Valladold (Arguello): http://www.diocesistarazona.org/Recensiones%20Libro%20de%20Pagola.htm.
Infine, nell'ultimo numero della rivista internazionale di teologia Concilium "Gesù come il Cristo - nel crocevia delle culture" (3/2008), il teologo José Ignacio Gonzalez Faus si sofferma sul "caso Pagola" all'interno del suo articolo "Conflitti cristologici col magistero", che può essere letto qui http://www.queriniana.it/PDF/CNC031611.pdf (nel medesimo numero di Concilium, vi è anche una bibliografia fondamentale sul Gesù storico, curata dallo stesso Pagola).

11 commenti:

Anonimo ha detto...

Siamo proprio fuori strada.
Il libro in questione dice di trattare del Gesù "storico", ma viene invece scritto, pubblicato, pubblicizzato, tradotto, criticato e difeso come se trattasse di quello "teologico".
L'ambiguità è voluta, per pura questione di marketing.
L'autore di un libro di storia forse non trova neppure i soldi per farlo stampare, invece così ... fama e grana assicurata.
Il brutto è che si lancia il sasso e si ritira la mano.
Mi dispiace che la difesa di casta porti un bravo studioso come Lei a non accorgersi della truffa.
La rivista Concilium, poi, millanta una ispirazione divina che non le appartiene.

massimo-ekpyrosis05 ha detto...

In generale,come ho già avuto modo di dire, apprezzo i suoi studi e la sua impostazione equilibrata, tuttavia mi sembra che sulla questione del rapporto tra storia e teologia, e quindi tra il Gesù storico e quello adorato dai cristiani sia necessario fare chiarezza. In linea di massima credo che non si possa uscire da questa alternativa: o il cristianesimo è una religione che si basa su fatti storici, così come gli autori della letteratura sacra cristiana ci inducono e ci spronano a credere, o altrimenti è un'ottima, altissima, argomentatissima, sorprendente e degnissima filosofia, come tutti i cristiani, sin dall'inizio, ci hanno sconsigliato di credere e come invece hanno creduto gli gnostici di tutte le epoche.Ora, se è valida la prima alternativa, non si può pensare che gli studi storici possano vantare una qualsiasi neutralità teologica, in primis perché nessuno studio è neutrale secondo le ormai riconosciute leggi dell'ermeneutica, in secundis perchè la teologia cristiana si ancora inevitabilmente nella storia e trova nella vicenda personale di Gesù il suo radicamento necessario. Allora chi fa storia e giunge ad affermare cose che contrastano con la teologia tradizionale dei cristiani è chiamato a rispondere, se cristiano, di quello che dice, a giustificare le distanze e a dare ragione delle incongruenze. Dica insomma - siccome non vi è né vi può essere in nessun luogo una verità diversa a seconda della disciplina che la afferma (bensì vi saranno diverse versioni di una medesima verità), né tantomeno tale contraddizione è ammissibile nel cristianesimo, laddove appunto storia e teologia si richiamano reciprocamente - da che parte si schiera qualora ciò che sostiene su un piano storico sia insostenibile su un piano teologico. Questo è un problema ineludibile sia per la coscienza dello studioso, sia per il diritto di discenti e lettori di sapere quale sia l'opzione fondamentale di chi propone una certa lettura degli eventi e dove vada infine a parare tale lettura. Questo perché in ultimo Gesù Cristo è stato uno, la sua vicenda ha un significato, dire che in lui due nature convergono in una persona ha un significato e se lo storico vuole negare tutti questi significati è liberissimo di farlo, ma non nella Chiesa di Cristo. Qui si riuniscono quelle persone che hanno una visione della storia diversa da coloro che affermano cose in contrasto con le verità suddette. E' legittimo tutto ciò, oppure sarà lo storico demitizzante, bultmanniano e "adulto" ad avere il copyright sulla verità storica? Sarà solo quest'ultimo ad essere "puro" e scevro da pregiudizi, contro questi ecclesiastici conservatori e un po' in aria da Sant'Uffizio che, per ipotesi, sono storicamente inattendbili?
Ai catari storici si dovrà forse aggiungere la chiesa degli storici catari, cioè una nuova ortodossia storico critica basata sulla "purezza" e asetticità del metodo e sulla sua pretesa universale di verità?
Massimo - ekpyrosis05

Johannes Weiss ha detto...

RISPOSTA A XYZ

Caro Xyz,
io, avendo letto il libro, so solo una cosa: che esso non è stato affatto scritto come se trattasse del Gesù “teologico”. Ma nemmeno di striscio. Che l’autore intenda far passare tra le righe una determinata idea di esistenza e condotta cristiana (che trovo anche molto bella), non c’è dubbio. Ma di certo egli non tenta affatto di screditare verità teologiche di sorta.
Se poi alcuni pensano che il fatto che il Gesù storico non si considerasse Dio (benché manifestasse effettivamente un rapporto originale e di grande intimità col Padre – cosa che Pagola riconosce apertamente!), mini le fondamenta dell’unione ipostatica, o che il fatto che egli non intendesse la sua missione come finalizzata a espiare il peccato del mondo (benché verosimilmente, una volta realizzato il destino a cui andava incontro, poté attribuire al suo martirio una valenza salvifica), mini le fondamenta della soteriologia; o che il fatto che egli portasse avanti un ministero volto a radunare l’Israele escatologico, e non a creare la Chiesa (benché effettivamente conferì al suo movimento una sua propria identità e organizzazione), mini le fondamenta dell’ecclesiologia; se alcuni pensano questo, è un loro problema.
Io, da cattolico (e di orientamento nient’affatto liberale!), non vedo in tutto questo degli ostacoli insormontabili per il lavoro teologico; penso anzi che la teologia fondamentale ci abbia fatto già il callo da un pezzo a tenere conto della differenza che esiste tra il piano del fondamento storico e quello dell’approfondimento teologico.
Quanto poi al modo in cui il libro di Pagola può essere stato pubblicizzato in Spagna, naturalmente ne so poco o nulla. Tuttavia non posso credere che esso sia stato promosso dai diretti interessati (autore e casa editrice) come un libro con implicazioni di ordine teologico o addirittura di natura teologica.
Pagola, evidentemente, qualora l’avesse promosso come tale, sarebbe o un perfetto idiota o il più sfacciato dei mentitori. Quanto alla casa editrice, sinceramente mi pare che il titolo sia molto sobrio (Gesù. Approssimazione storica) … non so, se penso che un ottimo libro di Sanders (The Historical Figure of Jesus) è stato pubblicato da Mondadori con il titolo “Gesù. La verità storica”, mi sembra che si possa dire che la scelta editoriale della casa Madrid, a confronto, è decisamente di basso profilo. E leggendo poi la breve descrizione in quarta di copertina, non mi riesce ugualmente di trovare alcunché di “glamour”.
Ma se Lei ha qualche notizia concreta che testimoni come il libro di Pagola sia stato promosso come un’opera dalle implicazioni o dalle finalità teologiche, mi illumini pure!
Di certo, se qualcuno ha osato fare questa mossa, ha fatto la figura dell’idiota, perché si tratta di un’operazione senza alcun fondamento nel testo.
E purtroppo devo dire che questa mossa è precisamente ciò che ha fatto il vescovo Fernandez.
Soprattutto, a me sembra che, quand’anche il libro di Pagola fosse stato sbandierato da qualche ambiente come un attacco al Gesù della fede cattolica, il solo modo intelligente di reagire sarebbe stato di far notare che il libro in questione si muove invece su un piano puramente storico, senza implicazioni di sorta riguardo le verità dogmatiche. E invece si è fatto proprio il contrario: si è accusato un libro di storia di non tener conto delle verità dogmatiche! Una cosa talmente surreale che uno non sa se riderci o piangerci.

Johannes Weiss ha detto...

RISPOSTA A MASSIMO

Caro e stimato Massimo,

il cristianesimo è certamente la quintessenza di una religione storica e inconcepibile a prescindere dal radicamento reale nella storia. E sono ovviamente d’accordo che la neutralità dello storico – nonostante, come credo, possa e debba restare la meta ideale – di fatto non ha possibilità di esistere. Ognuno deve piuttosto riconoscere e comunicare i propri presupposti, il proprio orizzonte ermeneutico, i propri metodi.
Non posso però accettare che il discorso sull’inevitabile “essere schierati” ermeneuticamente, diventi un alibi per introdurre sottobanco le affermazioni teologiche di una certa tradizione di fede e utilizzarle come criterio per il lavoro storico. Qui ne va infatti della disciplina stessa. La storia o la si fa con i criteri e metodi che le sono propri, oppure cessa all’istante di essere storia e diventa qualcos’altro, non so, teologia neotestamentaria o teologia fondamentale. E sinceramente mi pare che questo discorso sia semplicissimo: non siamo forse noi cattolici, sulla scorta di Tommaso, ad aver sempre difeso, rispettato e custodito l’autonomia della ragione filosofica? Ebbene, con la ragione storica le cose non vanno altrimenti. O funziona con i metodi e criteri suoi propri (per quanto parziali e imprecisi) oppure scoppia.
Insomma, io su questo punto non riesco che a vederla così: su Gesù si può e si deve fare storia attraverso una “epoché” metodologica dalla propria fede. Lo storico di estrazione cattolica che vuole attribuire a Gesù una chiara autocoscienza divina, andando oltre quello che le fonti indagate criticamente permettono di sostenere, solo perché in questo modo il suo collega di dogmatica non si arrabbia, non è un bravo storico.
Così come lo storico di estrazione protestante che (come accadeva 30 anni fa, si veda ad es. la Teologia del NT di Bultmann) enfatizza a più non posso la radicale alterità dell’etica di Gesù rispetto a un giudaismo farisaico visto (in modo caricaturistico) come completamente inquinato dal legalismo e dalla mentalità del “merito”, perché così si punzecchia un po’ il cattolicesimo, non è un bravo storico (eppure anche lui potrebbe rivendicare la legittimità della propria ermeneutica protestante!).
Poi è verissimo che, una volta che si permetta allo storico di fare il suo mestiere, è possibile o anche probabile che i risultati che seguono presentino degli aspetti problematici rispetto alla visione teologica e dogmatica. Questo è certamente un aspetto molto delicato. Io credo però che sia un problema da affrontare, non da eludere, rinnegando la liceità del lavoro storico. Dobbiamo avere il coraggio di renderci pienamente conto che anche della teologia, e perfino dei dogmi stessi, si può e si deve fare ermeneutica.
E non credo poi che tutto ciò debba necessariamente rivelarsi come un percorso drammatico: non so, personalmente, non ritengo che il fatto che Gesù non pensasse di essere Dio o non avesse la visio Dei implichi necessariamente l’abbandono della cristologia calcedoniana etc. (vedi gli esempi fatti nella risposta al commento di Xyz). Io credo che la teologia cattolica abbia al contrario già intrapreso da tempo il cammino che conduce a guardare il rapporto tra storia e fede come un rapporto, al tempo stesso, di continuità e differenza.
E non credo pertanto che uno storico, per il solo fatto di essere cattolico (foss'anche un prete!) debba porsi dei particolari problemi di coscienza relativamente alla opportunità di esprimere i propri risultati, quando questi sono un po’ “scomodi”. Penso, anzi, che la sincerità, la verità, si riveli sempre la scelta migliore e anche, alla lunga, più conveniente. Cosa dovrebbe farsene un teologo di avere intorno solo degli esegeti e degli storici che gli dicono esattamente ciò che egli si aspetta o desidera sentirsi dire? Sarebbe questa vera teologia? E’ forse possibile, in questo modo, fare un qualche progresso nell’approfondimento della verità?
No, lo storico (ateo, agnostico, credente o prete che sia )non solo ha il diritto, ma ha precisamente il DOVERE di operare in perfetta autonomia, prescindendo da considerazioni di ordine teologico e dogmatico.
Il discorso, invece, potrebbe essere un po’ diverso per quanto riguarda chi, anziché del Gesù storico, si occupa propriamente di cristologia. In questo caso, effettivamente il teologo è tenuto ad una responsabilità verso la comunità di fede a cui appartiene e al cui servizio opera, e non può quindi dire semplicemente tutto quello che gli pare.
In verità, anche qui credo che il Magistero potrebbe adottare una condotta un po’ differente (ad es. pur essendo totalmente alieno alla teologia della liberazione, non mi riesce di condividere la nota della CdF a Sobrino, oppure, ancora meno, quella di qualche anno fa a Jacques Dupuis); tuttavia, a prescindere dalla condotta che si adotta, non si può certo negare al Magistero il diritto di esprimersi, anche in modo fermo e deciso, su determinati lavori teologici.
Ma la teologia è una cosa, la storia un’altra. Sulla teologia il Magistero può e deve avere giurisidizione. Sulla storia, invece, non può e non deve.

massimo-ekpyrosis05 ha detto...

Sono d'accordo con lei sul fatto che non si può far storia avendo già le conclusioni del proprio lavoro pronte a priori: non posso chiedere ad uno storico di indagare la rivoluzione francese fornendogli prima dell'inizio del suo lavoro la tesi che egli su questo tema deve costruire e consolidare alla fine. Tuttavia, ciò su cui vorrei insistere è la natura storica dei dogmi cristologici da un lato e la necessità per i cristiani di esplicitare ovunque il rapporto tra storia e dogma dall'altro. E' vero che quando i concili dell'antichità si sono riuniti, posero specifiche domande al testo e alla tradizione evangelica, domande che riflettevano peculiari interessi dogmatici in relazione alla situazione della Chiesa del IV e V secolo, nondimeno, come ogni lettore, essi si esposero all'urto di quella tradizione, ai significati che essa tramandava e alla sua pretesa di insediarsi nell'unica verità della vita di Cristo cui il Nuovo Testamento pretende continuamente di riferirsi.Possiamo pensare che la testimonianza contenuta nelle Scritture sia meno credibile di una storia elaborata con metodo storico critico e che l'interesse per la verità sia inferiore nei padri conciliari di Nicea,Efeso e Calcedonia rispetto ai nostri storici contemporanei? Certo, noi ora possediamo strumenti critici che loro non sospettavano, tuttavia loro si basavano su testimonianze di verità che noi nemmeno possiamo immaginare: i martiri, i confessori della fede, i santi.Rispetto alla verità asettica dello storico, loro possedevano la verità vissuta e coinvolgente/sconvolgente del testimone.Il problema è che anche quest'ultima ambiva a riconoscere il primato del dato storico, pur in un contesto metodologico diverso. Orbene, siccome non è stabilito quale sia in assoluto il metodo migliore, i fautori di una data impostazione metodologica (storico-critica) dovrebbero rendere conto agli eredi dell'altra (testimoniale-ecclesiale), come questi ultimi in modo lento, prudente, non alieno da ripensamenti, ma tutto sommato oculato hanno da tempo cominciato a rendere conto ai primi.Così, lo dico senza alcun intento provocatorio, una volta stabilito che Gesù non aveva coscienza di essere lui stesso l'inizio del Regno che annunciava e di avere quindi, a partire da un'intimità inaudita con il Padre, un'autorità superiore e incommensurabile con quella dei profeti e della legge, mi chiedo e chiedo allo storico, come può tutto ciò risultare compatibile con l'affermazione circa la sua divinità. Se poi teniamo conto che determinate affermazioni dello storico risultano prima facie compatibili con antiche dottrine eretiche (l'arianesimo sorpattutto), diviene ancor più importante l'esplicitazione chiara dei rapporti tra storia e dogma in ogni punto dove la pretesa storica dell'una contrasti con la pretesa storica dell'altro e dove tale conflitto potrebbe ingenerare in coloro che hanno sempre creduto nella seconda dubbi ed esitazioni (che sono anzitutto i miei, prima ancora di quelli di coloro che appartengono alla fumosa e un po' paternalistica categoria della "gente semplice").
Un cordiale saluto
Massimo-ekpyrosis05

Johannes Weiss ha detto...

Per Massimo.

Dunque, io penso che sia sbagliato chiedersi se la testimonianze contenuta nelle Scritture sia meno credibile della ricerca storico-critica o se l’interesse per la verità di un padre conciliare sia inferiore a quello di uno storico moderno. Le cose stanno su piani differenti. La testimonianza scritturistica è salvifica, la ricerca storico-critica non lo è assolutamente. La verità a cui il padre conciliare mirava è di ordine infinitamente più grande della misera “verità” a cui uno storico può ambire. Gli uni pongono domande e offrono risposte circa ciò che di più decisivo e universalmente importante vi possa essere (Chi è il Dio che si è rivelato in Gesù Cristo?), lo storico invece interroga il passato ben sapendo che, in definitiva, si tratta di un passato condannato a restare per sempre tale (qualunque sia il grado di attualità e significatività per il nostro presente che possa trovarvi).
Da questo punto di vista, Ratzinger ha certamente ragione quando fa notare come la natura del metodo storico-critico fa sì che esso “deve lasciare la parola nel passato”.
Per cui non c’è proprio paragone. Io non potrei mai essere cristiano se non rimanendo agganciato, restando saldo, a quella catena “testimoniale” di cui Lei parla (la Traditio).
Il metodo storico-critico è povero, poverissimo, e – almeno come lo intendo io – è pure consapevole che i suoi stessi criteri, relativamente allo studio dell’autenticità dei detti e dei fatti di Gesù, possono talvolta (o anche più che talvolta) lasciar fuori cose che, potessimo tornare indietro di duemila anni, in Galilea, scopriremmo essere storicamente autentiche.
Esso dunque conosce e riconosce la povertà del suo metodo, ma sa anche che tale povertà è la sua forza, che tale povertà è qualcosa di necessario.
Non sta scritto da nessuna parte infatti che per essere cristiani, o anche solo per essere uomini, bisogna fare storia. Esistono forse ancor oggi paesi e culture dove il solo porsi il problema di quale fondamento storico abbia la propria religione, apparirebbe una cosa bizzarra, bislacca e incomprensibile.
Tuttavia, piaccia o non piaccia, la nostra civiltà è giunta a pensare storicamente. Ora, stando così le cose, delle due l’una: o si accetta la sfida che viene posta dai tempi, ossia ripensare sé stessi storicamente, oppure la si rifiuta, dichiarando l’impresa impossibile o eretica. Nel primo caso, si accetta di parlare una lingua molto più povera di quella che sarebbe la propria, e lo si accetta per il fatto che, semplicemente, gli uomini parlano questa lingua, e il dovere di ogni credente e della chiesa nel suo complesso è di rendere ragione della propria speranza (e per fare questo bisogna saper parlare la stessa lingua del proprio interlocutore).
Nel secondo caso, invece, ci si condanna al proprio splendido isolamento, ci si prende la responsabilità – estremamente grave in quanto chiesa – di non accettare di parlare la lingua degli uomini, e, implicitamente, si mostra di aver ben poca fiducia che lo Spirito soffi realmente lungo le vie della storia (in quanto si afferma che la pretesa di pensare storicamente è un “errare”, una strada che non porta a nulla).
Ecco, guardare retrospettivamente al fondamento della propria fede secondo un’ottica storica – rigorosamente storica – è, a mio avviso, un compito non solo legittimo per chiunque abbia la “curiosità dello storico”, bensì necessario per la stessa chiesa, la quale, in sede di teologia fondamentale, deve saper rendere ragione della propria speranza, e questo significa accettare di parlare con gli uomini sia in filosofese (anche in filosofese contemporaneo, non solo quello antico!) sia in storichese.
Questo, a mio avviso, è il “lasciapassare” e il “rendere conto”, che i fautori del metodo storico-critico, sia in sede storica, sia in sede di rielaborazione teologico-fondamentale, possono offrire ai loro fratelli che si pongono invece nell’ottica “testimoniale”. Il metodo storico-critico sarà anche un brutto anatroccolo, ma è anch’esso di casa nel processo della Traditio, poiché la Traditio avviene solo là dove gli uomini vivono, e gli uomini di questo tempo vivono (anche) pensando storicamente.

Detto questo, ecco alcune piccole precisazioni o rispostine minori o collaterali.

A) Ci terrei a sottolineare che è, a mio avviso, storicamente molto giusto e doveroso dire che Gesù fosse consapevole di essere l’ INIZIO, l’irruzione, del Regno (è nota quella felice formula di David Flusser secondo cui “Gesù è l’unico ebreo dell’antichità a noi noto ad aver affermato non solo l’imminenza del tempo finale, ma insieme l’inizio del nuovo tempo della salvezza già nel presente” . Quello che invece non si può dire (come fa Ratzinger sulla scia di Dodd, o come fanno i detrattori di Pagola) è che egli fosse sic et simpliciter il Regno. Il Regno era presente in Gesù, ma era altro e di più che lo stesso Gesù (era cioè quel compimento escatologico universale che ancor oggi noi attendiamo. Gesù pure lo attese, convinto che esso fosse già alle porte, e, da questo punto di vista, si è sbagliato - anche se per lui, personalmente, l'eschaton si è veramente realizzato in modo completo).

B) Se Gesù rivendicasse un’autorità INFINITAMENTE superiore a quella dei profeti e della legge, non lo so. Soprattutto il problema del rapporto che Gesù ebbe con la Legge è complesso, e io, sinceramente, non l’ho ancora approfondito più di tanto. Di certo rivendicava un’autorità altissima e decisiva, credo però che questo avverbio “infinitamente” possa essere soltanto il verbo che usa un teologo, non uno storico (trattandosi di un giudizio di valore che va ben oltre quel che, eventualmente, si può cercare di appurare a livello di “fatti”). In ogni caso, se anche volessimo dare ragione a quegli storici che affermano che il Gesù storico non pose sé stesso al di sopra della legge (ma, casomai – dico “a caso” – assunse atteggiamenti che si ponevano in tensione con essa, non per principio, bensì in relazione alla particolarità e all’urgenza del momento presente, caratterizzato dall’imminenza dell’eschaton) non credo che tutto ciò implichi necessariamente una contraddizione rispetto alla affermazione dogmatica della divinità di Cristo.
Penso infatti che ciò che è veramente fondamentale e imprescindibile per tale affermazione, standone all’origine, sia la Risurrezione, l’Innalzamento di Gesù alla destra del Padre. E’ questo il punto a partire dal quale si cominciò a capire che, se Dio aveva preso le parti del Crocifisso, innalzandolo alla propria destra, allora questo Crocifisso doveva far parte da sempre della definizione stessa di Dio (c’era una bellissima frase di Pannenberg, ma al momento non riesco a recuperarla). E che tutta la vicenda di questo Crocifisso (che avesse trasceso la Legge o meno, che avesse visto in sé stesso l’inizio del Regno o meno) costituisce la rivelazione definitiva e insuperabile del volto di Dio.

C) In ogni caso, la domanda di come certi risultati della ricerca storica possano essere compatibili con le verità dogmatiche, è una domanda che non deve essere rivolta allo storico, neanche se cattolico o se prete, bensì al teologo (qualora infatti questo storico cattolico rispondesse, lo farebbe da teologo, non da storico).

D) Invece un punto su cui sono in disaccordo è che certe possibili affermazioni dello storico inclinino di per sé verso qualche eresia (ariana, ebionita o altro). Non è vero. Un’affermazione storica è storica, mentre un’affermazione eretica è dogmatica. La storia, a mio avviso, non dà ragione né al dogmatico cattolico, né al dogmatico ariano, né a nessun altro dogmatico. Tra la storia e il dogma c’è sempre un salto ermeneutico, sia che il dogma sia cattolico sia che invece sia eretico. Quando, come nel caso di Pagola, si vuole vedere una “tentazione ariana” in un libro di storia, semplicemente ci si rifiuta di prendere la ricostruzione storica per quello che è, e le si fa violenza, ponendola indebitamente su un piano dogmatico che non è affatto il suo.

E) La necessaria (è verissimo!) esplicitazione del rapporto storia-dogma non è di pertinenza dello storico (anche se è cattolico o persino prete), e non la si deve quindi trovare nelle sue pagine, bensì nelle pagine dei libri di teologia fondamentale o di cristologia.

F) preciso di aver parlato di aver impiegato la categoria un po’ paternalistica di “semplici” solamente per accogliere la preoccupazione che esprimeva il vescovo Fernandez, il quale ha parlato appunto del danno che il libro di Pagola può fare ai “semplici” (e ha ragione! … ma bisogna capire che questo è un problema – e molto grosso – della Chiesa, della sua pastorale. Non è che gli storici, anche cattolici, devono tapparsi la bocca semplicemente perché la Chiesa non si è dimostrata ancora capace di educare – almeno un minimo! – i suoi fedeli comuni a distinguere – non a separare! – l’immagine storica di Gesù da quella teologica e di fede ).

Ricambio i saluti e ringrazio sinceramente per questo bel dialogo che offre, a me stesso in primis, la possibilità di approfondire e, spero, chiarire determinati punti.

Johannes

Anonimo ha detto...

Apprezzo la sua competenza, tuttavia penso che una frase quale questa:
«Il Regno era presente in Gesù, ma era altro e di più che lo stesso Gesù (era cioè quel compimento escatologico universale che ancor oggi noi attendiamo. Gesù pure lo attese, convinto che esso fosse già alle porte, e, da questo punto di vista, si è sbagliato - anche se per lui, personalmente, l'eschaton si è veramente realizzato in modo completo)», non è né storica né teologica, è semplicemente … nulla.
È possibile che Gesù fosse così fesso da sbagliarsi su sé stesso?

Anonimo ha detto...

Altrove lei ha detto:
«Ora, già solo il considerare come autenticamente gesuano questo "Io Sono" è sufficiente per far capire come il suo libro non possa essere considerato un'opera di ricerca storica. Nessuno tra gli storici più conservatori, nè cattolici nè protestanti, arriva a tanto. Ecco, in conclusione, il libro di Ratzinger rappresenta un'opera di teologia neotestamentaria, spesso molto bella e profonda, ma non di storia. Prendo come esempio la pag. 399, dove si parla della croce come la "vera altezza di Dio", come "roveto ardente", come chiave ermeneutica dell' "Io Sono" e "suprema rivelazione". In questo paragrafo semplicemente meraviglioso io trovo la dimensione più vera, profonda e piena della mia fede cristiana. Tuttavia non posso dire di trovarci il Gesù storico».
Una domanda.
La psicologia insegna che esiste un livello “implicito” di conoscenza, più ampio di quello “esplicito”; questo livello non è però mai del tutto indicibile ed inaccessibile; anzi tutte le metodologie analitiche e terapeutiche, cercano sempre di esplicitarlo, in modo da arricchire la consapevolezza di sé della persona. È lavoro lungo e complesso, ma che talora giunge all’insight (che non è puro “scire”, ma “sapere”).
Sembra però che questo insight sia alla portata di tutti, meno che del Gesù storico; sembra ancora che i contemporanei ne percepissero - più di Lui! - la “differenza ontologica”, pur interpretandola con le proprie categorie culturali.
Questo a me pare veramente TROPPO. Se certo è un’iperbole che Gesù avesse la “visio Dei” 24 ore su 24, è del tutto improbabile che questa “visio” non si sia mai verificata e non sia mai stata accolta.
La ricerca storica sembra impermeabile ad ogni teologia, ma non certo alla pratica discriminatoria della sistematica inaffidabilità del dato.
Ma chi di inaffidabilità ferisce, della stessa perisce.
(Noi crediamo in un Dio affidabile!).

Johannes Weiss ha detto...

RISPOSTA A LYCOPODIUM

Anzitutto, una premessa. Già il solo domandarsi quale “insight” o “autocoscienza” Gesù potesse avere, è probabilmente una domanda mal posta dal punto di vista storico. La questione dell’autocoscienza, dell’autocomprensione, ha infatti senso per noi, che siamo nati in una cultura individualista dove l’introspezione è all’ordine del giorno. Ma molte culture del passato - e anche alcune del presente - non ragionavano come noi. Oggi i neotestamentaristi che si servono dei metodi e dei contributi delle scienze antropologiche, come Richard Rohrbaugh e Bruce Mailna, fanno notare come, nell’ambiente proprio di Gesù, l’ “io privato”, che per noi è tutto, fosse qualcosa di trascurabile: ciò che aveva importanza era piuttosto l’ “io collettivo”, quello cioè del proprio “in-group” . In quanto persona mediterranea, Gesù non si poneva tanto il problema il problema introspettivo del “chi sono io?” quanto quello del “voi chi dite che io sia?”. Con questo non si vuole ovviamente dire che Gesù non avesse la capacità di riflettere su sé stesso (un uomo di una cultura collettivistica è pur sempre un uomo, non una bestia!), bensì che per lui, come per tutte le persone del contesto in cui viveva, la risposta alla domanda “chi sono io?” passava in modo molto più stretto attraverso la considerazione che di lui aveva il suo “in-group”, di quanto accada a noi. Gesù viveva in una cultura collettivista, e le persone che vivevano all’interno di tale cultura erano tendenzialmente anti-introspettive. Per cui la domanda “Gesù, nel suo profondo, chi pensava di essere?” non è una buona domanda storica. Più rilevanti sono il ruolo “ufficiale” rivestito da Gesù all’interno del suo gruppo, nonché l’identità e gli obiettivi del gruppo stesso all’interno dello spettro dei vari gruppi e fazioni del suo contesto storico.
Ad ogni modo, visto che – volenti o nolenti – noi siamo persone individualisticamente e introspettivamente formate, e che pertanto troviamo non solo sensata ma addirittura decisiva e imprescindibile la domanda sull’ “autocoscienza”, concediamoci pure di interrogarci sull’ “insight” proprio di Gesù.
Ebbene, assodato che anche Gesù, come ogni altro essere umano, avrà avuto anch’egli un suo “insight”, il punto decisivo è “come possiamo discernerlo?”. Ora, io credo che se c’è una strada assolutamente sbagliata per rispondere alla domanda di come Gesù tematizzasse il suo “insight”, sia proprio quello di procedere mediante una deduzione a partire da una verità dogmatica, come, ad es., l’unione ipostatica.
Piuttosto ci si dovrà fondare su un’analisi critica delle tradizioni di cui disponiamo.
Ebbene, a seguito di tale analisi, il massimo che si può dire è che Gesù interpretò sé stesso
A) come un profeta investito di una missione decisiva nel momento “climatico” della storia d’Israele: quella di essere l’annunciatore e il portatore stesso della signoria definitiva di Dio;
B) e destinato ad assolvere il ruolo di giudice escatologico (come Figlio dell’uomo) al momento dell’instaurazione piena e definitiva della Basileia.
A ciò si può aggiungere il fatto che C) Gesù manifestò una modalità abbastanza originale e distintiva di relazionarsi al Dio d’Israele, caratterizzata da un atteggiamento di estrema confidenza e fiducia, arrivando talvolta ad esprimere esplicitamente il proprio rapporto con Dio nei termini di una relazione padre-figlio (in modo per certi versi analogo a Honi il disegnatore di cerchi, il quale poté dire di sé stesso che, di fronte a Dio, era “come un figlio della casa”).
Ma quand’anche si concluda che, occasionalmente, Gesù si autodefinì come “il Figlio”, ciò non significa che egli potesse concepire tale figliolanza in senso ontologico. Ciò infatti trascendeva radicalmente le possibilità dell’orizzonte culturale a lui disponibile, sicché, per affermare questa “autocoscienza filiale in senso ontologico” sarebbe necessario postulare una conoscenza miracolosa infusa direttamente a Dio.
E se il teologo può ritenersi autorizzato a fare un’operazione del genere, lo storico invece assolutamente non può (ma io non sono affatto sicuro che, anche dal punto di vista teologico, l’affermare la presenza nel Gesù storico di un’autocoscienza esplicitamente riflessa e tematizzata della propria divinità, costituisca la migliore delle soluzioni …).

Quanto al problema della "visio Dei", se qualcuno ritiene proprio di non poter fare a meno di parlarne, al fine di non mettere a repentaglio l'unione ipostatica (e io non concordo su questo pericolo), credo che sarebbe saggio parlarne come di un orizzonte atematico e metacategoriale in cui era inviluppata tutta l'attività conoscitiva di Gesù, piuttosto che come qualcosa che potesse tradursi in una conoscenza tematizzata e riflessa.
In un caso come nell'altro, si tratta però di ragionamenti teologici. Perchè dalle tesimonianze sinottiche (le sole storicamente affidabili), di "dati" che attestino la "visio Dei" se ne vedono proprio pochi o non se ne vedono affatto.
Per la precisione, si potrebbe addurre soltanto il noto "logion giovvaneo" di Mt 11,27 a proposito della cui autenticità però gli storici sono molto divisi.
In ogni caso, quand'anche si opti per la sua autenticità, il logion attesta propriamente solo una rivendicazione da parte di Gesù di una speciale conoscenza e capacità rivelatoria del Dio-Abbà, e nient'affatto che tale conoscenza sia fondata sulla "visio Dei".

Anonimo ha detto...

30.000 copie vendute (poi non era un'operazione commerciale, alla Augias Pesce):
http://www.lozuavopontificio.net/osservatorio/2008/02/12/il-gesu-di-pagola-non-e-il-gesu-della-fede-della-chiesa/

Johannes Weiss ha detto...

Per Nkydavcs

dunque il criterio in base al quale si giudica se un libro è serio o no, è il numero di copie che vende?
Mmh, posso anche starci...mi chiedo però se chi lo sostiene sia pronto ad applicarlo con coerenza:
il libro su Gesù di Armand Puig i Tarrech, nel giro di solo un anno dalla sua pubblicazione in catalano (maggio 2004-maggio 2005) aveva totalizzato già cinque edizioni e 20mila copie vendute (da un annetto è stato tradotto anche da noi, per la San Paolo, anche qui, mi pare, con buoni livelli di vendita). Un caso dunque del tutto analogo al libro di Pagola.
Quindi, come la mettiamo? Anche il libro di Puig i Tarrech (pontificalmente approvato: si veda la 4a di copertina dell'edizione italiana) è un'operazione commerciale?
(...per non parlare del Gesù di Ratzinger...)

Io penso che, se si vuol essere un minimo seri, un libro lo si giudica solo leggendolo per quello che è, e non dal numero di vendite che raggiunge.