Il grande Dale Allison, ha affrontato in un recente articolo (The Continuity between John and Jesus, JSHJ, 2003; 1: 6-27) il tema della continuità tra Gesù e Giovanni il Battista, una questione abbastanza importante, soprattutto in considerazione del fatto che certe presentazioni di un Gesù non-escatologico (come quella di Crossan) devono supporre – per poter funzionare – proprio una forte cesura tra Gesù e il suo “mentore”. Ma senza arrivare alle tesi di Crossan circa un vero e proprio “ripudio” da parte di Gesù della visione del proprio maestro, Allison fa notare che anche laddove la continuità tra Gesù e il Battista viene affermata (Theissen, Meier, Merklein, Becker etc.) si insiste sempre molto su un certo “contrasto” tra le due figure, un contrasto funzionale a mettere in luce la specifica “originalità” di Gesù. Allison prende come “test” ciò che scrive Theissen nel suo ottimo manuale sul Gesù storico: “Gesù sembra aver posto più enfasi sulla offerta della salvezza (anche ai peccatori), in connessione con la predicazione della ‘basileia’”.
Ora, Allison – pur senza voler negare la possibilità che tale spostamento d’accento si sia effettivamente verificato – si chiede: ma questo contrasto tra un Gesù come predicatore di salvezza (con il giudizio sullo sfondo) e il Battista come predicatore del giudizio (con la salvezza sullo sfondo) è poi una cosa davvero così certa e assodata? Che con Gesù in primo piano stia la salvezza, e in secondo il giudizio, può anche star bene. Ma cosa sappiamo veramente, invece, del Battista? Abbiamo sufficienti elementi a disposizione per poter concludere con sicurezza che egli era solo ed esclusivamente un predicatore dell’imminente ira divina? Allison sottolinea che ciò di cui disponiamo, in fin dei conti, si limita a qualche breve sommario e ad una manciata di detti. Ma – si chiede l’esegeta della Pittsburgh University – “come sappiamo che tali frasi rappresentano in modo adeguato la totalità di tutto ciò che egli aveva da dire? A meno che non fosse incredibilmente noioso o fosse simile a Gesù, figlio di Anania, il quale , secondo Giuseppe Flavio (Guerra 6.301-302,) ripeteva in continuazione sempre il medesimo ritornello, il Battista deve aver detto molto di più di quei pochi pronunciamenti che le nostre fonti hanno preservato”.
“Se – continua Allison – Giovanni parlò qualche volta, o perfino spesso, di “regno di Dio”, non abbiamo motivo di pensare che il nostro ridotto numero di fonti abbreviate avrebbe dovuto per forza prenderne nota. Non dovrebbe quindi un sobrio giudizio storico ammettere che semplicemente non possiamo sapere se Giovanni ha mai parlato di “regno di Dio” o che cosa intendesse esattamente, qualora l’abbia fatto? (…) Non dovremmo evitare prudentemente un’opinione in materia? Come possiamo giustificare il fatto di stabilire un equazione tra il silenzio testuale di Giovanni con un silenzio storico e poi procedere a sottolineare l’originalità di Gesù?”
Penso che Allison – con questa uscita un po’ inusuale – non abbia affatto tutti i torti. Effettivamente, la sottolineatura che comunemente si fa sull’originalità della predicazione di Gesù rispetto a quella del Battista, è un po’ troppo calcata rispetto a quanto permetta l’esiguità delle fonti disponibili. Più sobriamente, bisognerebbe cercare di esprimersi in questi termini: “per quel poco che ci è dato sapere di Giovanni il Battista, sembrerebbe che, rispetto a lui, in Gesù il tema del giudizio, pur importante, passa in secondo piano rispetto all’annuncio salvifico della basileia: tuttavia non possiamo sapere con certezza che un tale aspetto non fosse presente anche nella predicazione di Giovanni”.
sabato 26 aprile 2008
domenica 13 aprile 2008
Il Figlio dell'uomo: un'invenzione palestinese? Considerazioni in margine ad un'obiezione di Delbert Burkett
Ho sempre ritenuto che, comunque si decida in merito al problema di quale gruppo di detti sia di considerare più probabilmente “autentico” (F.d.U. futuro, F.d.U. nella attività presente, F.d.U. sofferente), almeno non ci possono essere dubbi circa il fatto che Gesù ha utilizzato l’espressione “Figlio dell’uomo”.
Di fronte a coloro che – come, ad es., Philipp Vielhauer – cercavano di attribuire in toto la ricorrenza dell’espressione nella tradizione gesuana alla cristologia della comunità primitiva, mi sembrava decisiva la seguente obiezione - che riporto con le parole di Leonhard Goppelt, traducendole dalla citazione riportata in W.D. Davies, D.C. Allison, Matthew 8-18, p.48 – secondo cui, tale ipotesi, per funzionare, deve supporre che “di questa cristologia, al di fuori dei vangeli, non sia sopravvissuta nemmeno una singola formula comunitaria, un kerygma, una confessione di fede, una preghiera”. Il che va evidentemente contro ogni plausibilità.
Recentemente, però, ho letto da parte di Delbert Burkett (nel suo molto istruttivo The Son of Man Debate) una contro-obiezione alla “obiezione di Goppelt” secondo cui:
“The absence of the title ‘Son of Man’ in the New Testament outside the Gospels and Acts can best be explained if the title had currency primarily in Palestinian Christianity. While most of the New Testament represents the legacy of Hellenistic Christianity outside of Palestine, the Gospels and the early chapters of Acts retain traces of Palestinian tradition. If the title ‘Son of Man’ arose in Palestinian context, it should appear precisely where it does” (p. 123).
Pur trovando tale “contro-obiezione” interessante, ci sono un paio di punti che non mi tornano.
1. Benché le lettere paoline rappresentino per lo più – come dice Burkett – “the legacy of Hellenistic Christianity”, bisogna però ammettere che Paolo è certamente a conoscenza di tradizioni palestinesi su Gesù. Al di là del fatto che egli abbia talvota impiegato persino degli aramaismi (abba, maranatha), ci sono vari casi in cui egli, esplicitamente o implicitamente, mostra di riferirsi e, quindi di conoscere, alcuni detti di Gesù (su questo vedi: M.Pesce, Parole dimenticate di Gesù).
Per quanto ci riguarda, di particolare interesse è l’affermazione che Paolo fa “sulla parola del Signore” in 1 Ts 4,15-17. Sanders (San Paolo, ed. Il Melangolo, p. 37) – il quale, come anche Pesce, ritiene che qui Paolo faccia riferimento a un detto del Gesù storico – individua l’eco di Gesù soprattutto nei seguenti elementi: “noi, i viventi, i superstiti alla venuta del Signore (…) ad un segnale, con voce di arcangelo e al suono della tromba di Dio (…) discenderà dal cielo (…) poi noi, i viventi, i superstiti (…) saremo sempre col Signore”.
In sostanza, qui Paolo mostrerebbe di essere a conoscenza di quei detti (o almeno del “tema”) di Gesù in cui si parla della venuta del Figlio dell’Uomo, insieme agli angeli, al suono di una tromba, mentre coloro che ascoltano sono ancora in vita (cf. Mt 16,27-28; 24,30-31).
Ora, se quindi Paolo conosceva le tradizioni palestinesi che parlano della venuta del Figlio dell’Uomo , come mai non ha utilizzato l’espressione?
Io risponderei: “perché ‘Figlio dell’uomo’, già all’epoca in cui Paolo scrive ai Tessalonicesi (50 circa), era un’espressione cristologicamente insufficiente: Gesù ormai era il Signore, ed è infatti proprio questa l’espressione sostituiva del F.d.U. che troviamo in 1 Ts 4,15-17”.
Burkett, invece, come potrebbe rispondere?
Dovrebbe dire qualcosa del genere: “sì, Paolo nell’anno 50 è naturalmente a conoscenza del titolo coniato “nuovo di zecca” di ‘Figlio dell’uomo’ , che imperversa a più non posso nelle comunità palestinesi di quegli anni. Però, nonostante in tutta la Palestina – da poco più di un pugno di anni - non si parli d’altro che di questo “Figlio dell’uomo”, che costituisce quindi la cristologia par excellence delle comunità palestinesi, Paolo ritiene che i suoi uditori tessalonicesi ne possano fare tranquillamente a meno”.
In sostanza, la singolare storia del titolo “Figlio dell’uomo” si svolgerebbe così: inventata dalle comunità palestinesi non più tardi che alla fine degli ’40 (dopo il “Concilio di Gerusalemme” del 48 – in cui la missione ai pagani, già da tempo in atto, viene ufficialmente confermata - come sarebbe stato possibile inventare un detto come Mt 10,23?), essa avrebbe istantaneamente goduto di un successo incendiario e sbalorditivo, permeando completamente di sé tanto la “tradizione Q” quanto quella marciana, e tuttavia, da un giorno all’altro, sarebbe dovuta diventare talmente “accessoria” che Paolo nel 50 poté riferire ai Tessalonicesi una tradizione in cui si parla della venuta del F.d.U. facendo tranquillamente a meno del titolo.
Ora, tutto è possibile, certo; ma una cosa è il possibile e un’altra il probabile. Mi sembra onestamente molto più semplice tracciare una “storia della tradizione” che veda l’espressione nascere con il Gesù storico, rimanendo poi fedelmente conservata nelle tradizioni evangeliche (dove la troviamo sempre e solo sulle sue labbra) in quanto “memoria Jesu” (salvo essere talvolta sostituita, specialmente là dove poteva essere un po’ ambigua, come in Mt 10,32 dove il “F.d.U.” della fonte Q – cf. Lc 12,8 - viene sostituito dal meno problematico “io”), mentre a livello della confessione di fede e delle formulazioni kerygmatiche, liturgiche e dossologiche, esso fu irrilevante sin dall’inizio, non potendo competere con titoli ben più significativi quali “Cristo” e “Signore”, al punto che Paolo, in modo del tutto naturale, poté riferire ai Tessalonicesi la tradizione sulla venuta del Figlio dell’uomo in termini di “Signore”.
2. E’ proprio vero che il F.d.U. compare precisamente là dove dovrebbe, ossia là dove vengono conservate tradizioni cristologiche palestinesi? Come la mettiamo allora con la Didaché? Il testo – benché di difficile datazione – viene spesso collocato tra la fine del I sec. e l’inizio del II, probabilmente in Siria o perfino in Palestina. In poche parole, si tratta di un testo che come luogo d’origine ed epoca è molto vicino ai sinottici, e che, probabilmente, raccoglie anche delle tradizioni che, almeno in certe parti, sono parallele e indipendenti rispetto a quelle sinottiche.
Di particolare interesse per il nostro problema è il detto che troviamo in 16,8: “Allora il mondo vedrà il Signore che viene sopra le nuvole del cielo”.
Questo loghion ci testimonia chiaramente l’esistenza di un detto sul F.d.U. riportato da una tradizione molto vicina alla Palestina (se non palestinese), in cui però il titolo viene già sostituito con quello più cristologicamente rilevante di “Signore”. Secondo l’ipotesi di Burkett, questo non sarebbe dovuto accadere: se il F.d.U. “should appear precisely where it does” ossia là dove vengono conservate “traces of Palestinian tradition”, perché allora il titolo non compare anche in Didachè 16,8?
In conclusione, la riproposizione da parte di Burkett della tesi secondo cui l’espressione “Figlio dell’uomo” rappresenta in toto una formulazione cristologica delle comunità palestinesi, senza alcun fondamento nel Gesù storico, deve a mio avviso essere respinta.
Di fronte a coloro che – come, ad es., Philipp Vielhauer – cercavano di attribuire in toto la ricorrenza dell’espressione nella tradizione gesuana alla cristologia della comunità primitiva, mi sembrava decisiva la seguente obiezione - che riporto con le parole di Leonhard Goppelt, traducendole dalla citazione riportata in W.D. Davies, D.C. Allison, Matthew 8-18, p.48 – secondo cui, tale ipotesi, per funzionare, deve supporre che “di questa cristologia, al di fuori dei vangeli, non sia sopravvissuta nemmeno una singola formula comunitaria, un kerygma, una confessione di fede, una preghiera”. Il che va evidentemente contro ogni plausibilità.
Recentemente, però, ho letto da parte di Delbert Burkett (nel suo molto istruttivo The Son of Man Debate) una contro-obiezione alla “obiezione di Goppelt” secondo cui:
“The absence of the title ‘Son of Man’ in the New Testament outside the Gospels and Acts can best be explained if the title had currency primarily in Palestinian Christianity. While most of the New Testament represents the legacy of Hellenistic Christianity outside of Palestine, the Gospels and the early chapters of Acts retain traces of Palestinian tradition. If the title ‘Son of Man’ arose in Palestinian context, it should appear precisely where it does” (p. 123).
Pur trovando tale “contro-obiezione” interessante, ci sono un paio di punti che non mi tornano.
1. Benché le lettere paoline rappresentino per lo più – come dice Burkett – “the legacy of Hellenistic Christianity”, bisogna però ammettere che Paolo è certamente a conoscenza di tradizioni palestinesi su Gesù. Al di là del fatto che egli abbia talvota impiegato persino degli aramaismi (abba, maranatha), ci sono vari casi in cui egli, esplicitamente o implicitamente, mostra di riferirsi e, quindi di conoscere, alcuni detti di Gesù (su questo vedi: M.Pesce, Parole dimenticate di Gesù).
Per quanto ci riguarda, di particolare interesse è l’affermazione che Paolo fa “sulla parola del Signore” in 1 Ts 4,15-17. Sanders (San Paolo, ed. Il Melangolo, p. 37) – il quale, come anche Pesce, ritiene che qui Paolo faccia riferimento a un detto del Gesù storico – individua l’eco di Gesù soprattutto nei seguenti elementi: “noi, i viventi, i superstiti alla venuta del Signore (…) ad un segnale, con voce di arcangelo e al suono della tromba di Dio (…) discenderà dal cielo (…) poi noi, i viventi, i superstiti (…) saremo sempre col Signore”.
In sostanza, qui Paolo mostrerebbe di essere a conoscenza di quei detti (o almeno del “tema”) di Gesù in cui si parla della venuta del Figlio dell’Uomo, insieme agli angeli, al suono di una tromba, mentre coloro che ascoltano sono ancora in vita (cf. Mt 16,27-28; 24,30-31).
Ora, se quindi Paolo conosceva le tradizioni palestinesi che parlano della venuta del Figlio dell’Uomo , come mai non ha utilizzato l’espressione?
Io risponderei: “perché ‘Figlio dell’uomo’, già all’epoca in cui Paolo scrive ai Tessalonicesi (50 circa), era un’espressione cristologicamente insufficiente: Gesù ormai era il Signore, ed è infatti proprio questa l’espressione sostituiva del F.d.U. che troviamo in 1 Ts 4,15-17”.
Burkett, invece, come potrebbe rispondere?
Dovrebbe dire qualcosa del genere: “sì, Paolo nell’anno 50 è naturalmente a conoscenza del titolo coniato “nuovo di zecca” di ‘Figlio dell’uomo’ , che imperversa a più non posso nelle comunità palestinesi di quegli anni. Però, nonostante in tutta la Palestina – da poco più di un pugno di anni - non si parli d’altro che di questo “Figlio dell’uomo”, che costituisce quindi la cristologia par excellence delle comunità palestinesi, Paolo ritiene che i suoi uditori tessalonicesi ne possano fare tranquillamente a meno”.
In sostanza, la singolare storia del titolo “Figlio dell’uomo” si svolgerebbe così: inventata dalle comunità palestinesi non più tardi che alla fine degli ’40 (dopo il “Concilio di Gerusalemme” del 48 – in cui la missione ai pagani, già da tempo in atto, viene ufficialmente confermata - come sarebbe stato possibile inventare un detto come Mt 10,23?), essa avrebbe istantaneamente goduto di un successo incendiario e sbalorditivo, permeando completamente di sé tanto la “tradizione Q” quanto quella marciana, e tuttavia, da un giorno all’altro, sarebbe dovuta diventare talmente “accessoria” che Paolo nel 50 poté riferire ai Tessalonicesi una tradizione in cui si parla della venuta del F.d.U. facendo tranquillamente a meno del titolo.
Ora, tutto è possibile, certo; ma una cosa è il possibile e un’altra il probabile. Mi sembra onestamente molto più semplice tracciare una “storia della tradizione” che veda l’espressione nascere con il Gesù storico, rimanendo poi fedelmente conservata nelle tradizioni evangeliche (dove la troviamo sempre e solo sulle sue labbra) in quanto “memoria Jesu” (salvo essere talvolta sostituita, specialmente là dove poteva essere un po’ ambigua, come in Mt 10,32 dove il “F.d.U.” della fonte Q – cf. Lc 12,8 - viene sostituito dal meno problematico “io”), mentre a livello della confessione di fede e delle formulazioni kerygmatiche, liturgiche e dossologiche, esso fu irrilevante sin dall’inizio, non potendo competere con titoli ben più significativi quali “Cristo” e “Signore”, al punto che Paolo, in modo del tutto naturale, poté riferire ai Tessalonicesi la tradizione sulla venuta del Figlio dell’uomo in termini di “Signore”.
2. E’ proprio vero che il F.d.U. compare precisamente là dove dovrebbe, ossia là dove vengono conservate tradizioni cristologiche palestinesi? Come la mettiamo allora con la Didaché? Il testo – benché di difficile datazione – viene spesso collocato tra la fine del I sec. e l’inizio del II, probabilmente in Siria o perfino in Palestina. In poche parole, si tratta di un testo che come luogo d’origine ed epoca è molto vicino ai sinottici, e che, probabilmente, raccoglie anche delle tradizioni che, almeno in certe parti, sono parallele e indipendenti rispetto a quelle sinottiche.
Di particolare interesse per il nostro problema è il detto che troviamo in 16,8: “Allora il mondo vedrà il Signore che viene sopra le nuvole del cielo”.
Questo loghion ci testimonia chiaramente l’esistenza di un detto sul F.d.U. riportato da una tradizione molto vicina alla Palestina (se non palestinese), in cui però il titolo viene già sostituito con quello più cristologicamente rilevante di “Signore”. Secondo l’ipotesi di Burkett, questo non sarebbe dovuto accadere: se il F.d.U. “should appear precisely where it does” ossia là dove vengono conservate “traces of Palestinian tradition”, perché allora il titolo non compare anche in Didachè 16,8?
In conclusione, la riproposizione da parte di Burkett della tesi secondo cui l’espressione “Figlio dell’uomo” rappresenta in toto una formulazione cristologica delle comunità palestinesi, senza alcun fondamento nel Gesù storico, deve a mio avviso essere respinta.
Etichette:
"x. Delbert Burkett e il Figlio dell'uomo"
lunedì 7 aprile 2008
La risurrezione di Gesù: un evento "dissonante".
La questione della risurrezione, nella misura in cui è vista come fondamento per la fede, esula decisamente dai miei interessi principali. Però la curiosità storica spinge comunque a fare un pensiero o due a riguardo.
Stavo pensando che c’è un punto specifico, che mi induce a pensare che effettivamente i discepoli di Gesù debbano aver vissuto un qualche genere di esperienza eccezionale, che li ha colti impreparati, trattandosi di qualcosa che non rientrava nelle loro aspettative.
1. Gesù aveva portato avanti un messaggio fortemente escatologico a proposito dell’imminenza del regno di Dio.
2. Tale venuta della basileia avrebbe comportato, tra le altre cose, il giudizio universale da parte di Dio, il quale, a sua volta, avrebbe implicato anche la resurrezione generale dei morti (gli uomini di Ninive e la regina del Sud avrebbero condannato i contemporanei di Gesù che avevano rifiutato il suo annuncio: evidentemente, essi avrebbero dovuto essere risuscitati per poter partecipare al giudizio, e, del resto non v’è dubbio che Gesù condividesse con i farisei la credenza nella risurrezione dei morti ,vedi la polemica coi sadducei).
3. Quindi Gesù, e i suoi discepoli dietro a lui, si aspettavano che, e al momento dell’irruzione del Regno in potenza, si sarebbe verificata, tra le altre cose, anche la risurrezione generale dei morti.
3.1. Ciò sembrerebbe implicato anche nell’ultima cena, quando Gesù – intuendo forse una fine violenta – afferma che non avrebbe più bevuto il frutto della vite fino a quando non lo avrebbe bevuto di nuovo nel regno di Dio.
Con tale dichiarazione Gesù sembra infatti affermare 1) ancora una volta l’imminenza del regno di Dio (e non caso la struttura della promessa è la medesima di quella in Mc 9,1 – che io considero storicamente autentica); 2) lasciando intendere (forse) che egli, Gesù, avrebbe partecipato al banchetto nel Regno solo dopo aver sperimentato sulla propria pelle la tribolazione escatologica, forse anche fino alle estreme conseguenze; 3) e che quindi, nel caso di Gesù, la partecipazione al banchetto escatologico sarebbe avvenuta non in modo “naturale” ma in virtù di un atto escatologico di Dio, quale appunto la resurrezione dei morti [ad ogni modo questo punto 3.1. non è decisivo. Quand’anche si ritenga che la promessa solenne contenuta in Mc 14,25 costituisca solo una testimonianza della fervente attesa imminente del Regno, e non anche una velata allusione da parte di Gesù ad una sua fine violenta, rimane comunque valida la conclusione raggiunta al punto 3].
4. Ora, l’esperienza pasquale dei discepoli si discosta in modo notevole dalle aspettative escatologiche che essi nutrivano durante il ministero terreno di Gesù. Loro si aspettavano la risurrezione generale dei morti nell’ambito di una catena di eventi escatologici comprendenti l’irruzione della signoria definitiva di Dio, con le sue mastodontiche conseguenze anche politiche e sociali, e il giudizio universale. Oltretutto, tale risurrezione generale non era nemmeno il punto focale dei loro pensieri, e infatti troviamo ben poche affermazioni a riguardo nei vangeli: si trattava infatti di una semplice implicazione, un’ovvia conseguenza della venuta della basileia.
Ebbene, ciò che accade a Pasqua non coincide affatto con ciò che i discepoli attendevano accadesse. Già la risurrezione generale non era al centro del loro “campo visivo”, ma sullo sfondo: ma la risurrezione di un singolo, poi!
Questa non era in alcun modo immaginabile né da loro, né da qualsiasi altro giudeo che credesse nella risurezzione. Non esisteva nel giudaismo l’idea che un singolo, solo un singolo, potesse essere risuscitato dai morti. La risurrezione era per definizione un evento escatologico collettivo. Ci si poteva aspettare che lo spirito di un profeta o di un giusto venisse esaltato in cielo, mentre le sue ossa rimanevano ancora nella terra, o si poteva arrivare a pensare che egli fosse in realtà stato rapito in cielo alla maniera di Enoch ed Elia (con una morte quindi solo apparente). Ma la risurrezione di un morto, di uno soltanto, era qualcosa di non contemplato dalle categorie mentali giudaiche.
5. Gesù, del resto, non aveva mai parlato ai discepoli della sua personale risurrezione: le predizioni che troviamo nei vangeli sono profezie post-eventum, oppure, qualora vi si voglia vedere un qualche nucleo storico, devono essere interpretate attraverso una concezione collettiva del Figlio dell’uomo – il gruppo dei discepoli, Gesù compreso – che passa attraverso i due stadi della tribolazione ed esaltazione.
6. La conclusione a cui giungo è che i discepoli non poterono inventarsi di sana pianta qualcosa che non era in alcun modo contemplato nelle possibilità concettuali dell’escatologia giudaica. Essi andarono perciò effettivamente incontro ad un’esperienza singolare che non rientrava affatto nelle loro aspettative, e, di fronte alla quale, reagirono in effetti con un certa incredulità e scetticismo.
7. E’ possibile che le loro aspettative precedenti (la risurrezione generale nell’ambito della venuta del Regno) abbia contribuito a far sì che essi interpretassero tale esperienza singolare appunto come “risurrezione”, piuttosto che come semplice “esaltazione”. Tali aspettative possono aver contribuito a interpretare l’evento singolare (risurrezione del loro leader, piuttosto che la sua giustificazione ed esaltazione in spirito nei cieli), ma non a crearlo: essi si aspettavano infatti un evento escatologico collettivo di portata “cosmica”, non individuale!
8. Con ciò non ho evidentemente affatto stabilito che la risurrezione sia un evento storico realmente verificatosi. Anzitutto perché, a rigor di termini, non è semplicemente possibile parlare della risurrezione come evento storico: l’escatologia è infatti per definizione ciò che trascende, compie, mette fine o racchiude la storia. Un evento escatologico, quand’anche - come nel caso della fede cristiana - sia visto come verificatosi all’interno della storia, rimane pur sempre di ordine “meta-storico”. Rigorosamente parlando, storica non è la risurrezione di Gesù (un risorto è ipso facto oltre e sopra la storia) ma l’esperienza che ne ebbero i suoi discepoli. In secondo luogo, il mio ragionamento non dice nemmeno nulla riguardo al grado di affidabilità della interpretazione (la categoria “risurrezione”) con cui i discepoli sperimentarono l’evento singolare (le apparizioni pasquali). Semplicemente mi sembra di aver concluso che l’annuncio della risurrezione di Gesù non è qualcosa che i discepoli poterono inventarsi di sana pianta, sia per dolo sia per semplice wishful thinking, in quanto tale annuncio stava decisamente in tensione con le aspettative e le categorie del loro orizzonte concettuale escatologico. Da questo punto di vista l’esperienza della risurrezione di Gesù più che essere il frutto di una “dissonanza cognitiva”, è essa stessa la dissonanza che costrinse i discepoli di Gesù a rivedere lo scenario escatologico che fino a quel momento avevano in mente.
Ad ogni modo, è solo un’opinione assai acerba, essendo la prima volta che mi accosto a tale problema.
Stavo pensando che c’è un punto specifico, che mi induce a pensare che effettivamente i discepoli di Gesù debbano aver vissuto un qualche genere di esperienza eccezionale, che li ha colti impreparati, trattandosi di qualcosa che non rientrava nelle loro aspettative.
1. Gesù aveva portato avanti un messaggio fortemente escatologico a proposito dell’imminenza del regno di Dio.
2. Tale venuta della basileia avrebbe comportato, tra le altre cose, il giudizio universale da parte di Dio, il quale, a sua volta, avrebbe implicato anche la resurrezione generale dei morti (gli uomini di Ninive e la regina del Sud avrebbero condannato i contemporanei di Gesù che avevano rifiutato il suo annuncio: evidentemente, essi avrebbero dovuto essere risuscitati per poter partecipare al giudizio, e, del resto non v’è dubbio che Gesù condividesse con i farisei la credenza nella risurrezione dei morti ,vedi la polemica coi sadducei).
3. Quindi Gesù, e i suoi discepoli dietro a lui, si aspettavano che, e al momento dell’irruzione del Regno in potenza, si sarebbe verificata, tra le altre cose, anche la risurrezione generale dei morti.
3.1. Ciò sembrerebbe implicato anche nell’ultima cena, quando Gesù – intuendo forse una fine violenta – afferma che non avrebbe più bevuto il frutto della vite fino a quando non lo avrebbe bevuto di nuovo nel regno di Dio.
Con tale dichiarazione Gesù sembra infatti affermare 1) ancora una volta l’imminenza del regno di Dio (e non caso la struttura della promessa è la medesima di quella in Mc 9,1 – che io considero storicamente autentica); 2) lasciando intendere (forse) che egli, Gesù, avrebbe partecipato al banchetto nel Regno solo dopo aver sperimentato sulla propria pelle la tribolazione escatologica, forse anche fino alle estreme conseguenze; 3) e che quindi, nel caso di Gesù, la partecipazione al banchetto escatologico sarebbe avvenuta non in modo “naturale” ma in virtù di un atto escatologico di Dio, quale appunto la resurrezione dei morti [ad ogni modo questo punto 3.1. non è decisivo. Quand’anche si ritenga che la promessa solenne contenuta in Mc 14,25 costituisca solo una testimonianza della fervente attesa imminente del Regno, e non anche una velata allusione da parte di Gesù ad una sua fine violenta, rimane comunque valida la conclusione raggiunta al punto 3].
4. Ora, l’esperienza pasquale dei discepoli si discosta in modo notevole dalle aspettative escatologiche che essi nutrivano durante il ministero terreno di Gesù. Loro si aspettavano la risurrezione generale dei morti nell’ambito di una catena di eventi escatologici comprendenti l’irruzione della signoria definitiva di Dio, con le sue mastodontiche conseguenze anche politiche e sociali, e il giudizio universale. Oltretutto, tale risurrezione generale non era nemmeno il punto focale dei loro pensieri, e infatti troviamo ben poche affermazioni a riguardo nei vangeli: si trattava infatti di una semplice implicazione, un’ovvia conseguenza della venuta della basileia.
Ebbene, ciò che accade a Pasqua non coincide affatto con ciò che i discepoli attendevano accadesse. Già la risurrezione generale non era al centro del loro “campo visivo”, ma sullo sfondo: ma la risurrezione di un singolo, poi!
Questa non era in alcun modo immaginabile né da loro, né da qualsiasi altro giudeo che credesse nella risurezzione. Non esisteva nel giudaismo l’idea che un singolo, solo un singolo, potesse essere risuscitato dai morti. La risurrezione era per definizione un evento escatologico collettivo. Ci si poteva aspettare che lo spirito di un profeta o di un giusto venisse esaltato in cielo, mentre le sue ossa rimanevano ancora nella terra, o si poteva arrivare a pensare che egli fosse in realtà stato rapito in cielo alla maniera di Enoch ed Elia (con una morte quindi solo apparente). Ma la risurrezione di un morto, di uno soltanto, era qualcosa di non contemplato dalle categorie mentali giudaiche.
5. Gesù, del resto, non aveva mai parlato ai discepoli della sua personale risurrezione: le predizioni che troviamo nei vangeli sono profezie post-eventum, oppure, qualora vi si voglia vedere un qualche nucleo storico, devono essere interpretate attraverso una concezione collettiva del Figlio dell’uomo – il gruppo dei discepoli, Gesù compreso – che passa attraverso i due stadi della tribolazione ed esaltazione.
6. La conclusione a cui giungo è che i discepoli non poterono inventarsi di sana pianta qualcosa che non era in alcun modo contemplato nelle possibilità concettuali dell’escatologia giudaica. Essi andarono perciò effettivamente incontro ad un’esperienza singolare che non rientrava affatto nelle loro aspettative, e, di fronte alla quale, reagirono in effetti con un certa incredulità e scetticismo.
7. E’ possibile che le loro aspettative precedenti (la risurrezione generale nell’ambito della venuta del Regno) abbia contribuito a far sì che essi interpretassero tale esperienza singolare appunto come “risurrezione”, piuttosto che come semplice “esaltazione”. Tali aspettative possono aver contribuito a interpretare l’evento singolare (risurrezione del loro leader, piuttosto che la sua giustificazione ed esaltazione in spirito nei cieli), ma non a crearlo: essi si aspettavano infatti un evento escatologico collettivo di portata “cosmica”, non individuale!
8. Con ciò non ho evidentemente affatto stabilito che la risurrezione sia un evento storico realmente verificatosi. Anzitutto perché, a rigor di termini, non è semplicemente possibile parlare della risurrezione come evento storico: l’escatologia è infatti per definizione ciò che trascende, compie, mette fine o racchiude la storia. Un evento escatologico, quand’anche - come nel caso della fede cristiana - sia visto come verificatosi all’interno della storia, rimane pur sempre di ordine “meta-storico”. Rigorosamente parlando, storica non è la risurrezione di Gesù (un risorto è ipso facto oltre e sopra la storia) ma l’esperienza che ne ebbero i suoi discepoli. In secondo luogo, il mio ragionamento non dice nemmeno nulla riguardo al grado di affidabilità della interpretazione (la categoria “risurrezione”) con cui i discepoli sperimentarono l’evento singolare (le apparizioni pasquali). Semplicemente mi sembra di aver concluso che l’annuncio della risurrezione di Gesù non è qualcosa che i discepoli poterono inventarsi di sana pianta, sia per dolo sia per semplice wishful thinking, in quanto tale annuncio stava decisamente in tensione con le aspettative e le categorie del loro orizzonte concettuale escatologico. Da questo punto di vista l’esperienza della risurrezione di Gesù più che essere il frutto di una “dissonanza cognitiva”, è essa stessa la dissonanza che costrinse i discepoli di Gesù a rivedere lo scenario escatologico che fino a quel momento avevano in mente.
Ad ogni modo, è solo un’opinione assai acerba, essendo la prima volta che mi accosto a tale problema.
domenica 6 aprile 2008
Chi erano i "peccatori"? Riflessioni in margine al volume di James Dunn
Ho notato che James Dunn, nel suo poderoso “Gli albori del cristianesimo. Il Gesù ricordato”, si riallaccia a Jeremias nel sostenere che i “peccatori” a cui Gesù si rivolgeva erano persone che venivano così denigrate da parte dei farisei, e quindi, probabilmente, semplice gente comune che non intendeva vivere secondo le norme dell’osservanza farisaica, e nient’affatto quindi – come ha sostenuto Sanders – gli empi.
Vediamo un po’ la questione da più vicino.
TESI DI JEREMIAS
I “peccatori” a cui Gesù offre la partecipazione al regno di Dio sono i gli ‘amme ha ‘ares, ossia il “popolo della terra”, la gente comune, semplice e non istruita, che non aveva possibilità di adeguare la propria vita alle speciali regole e osservanze farisaiche
ANTITESI DI SANDERS
I “peccatori” sono i veri propri empi, coloro che cioè vivevano abitualmente e impenitentemente in aperto contrasto alla Legge di Mosè (cf. Gesù e il giudaismo, p. 226-276): è a costoro che Gesù avrebbe assicurato la partecipazione al regno di Dio (oltretutto, secondo Sanders, senza richiedere alcun tipo di conversione o penitenza).
SINTESI: RIPRESA DI JEREMIAS DA PARTE DI DUNN
Per Dunn, Jeremias ha visto giusto, ma non ha argomentato bene. Di per sé Sanders avrebbe ragione quando specifica che, in sé stesse, le denominazioni peccatori e ‘amme ha ‘ares, denotano gruppi di persone differenti, e non sono quindi intercambiabili. Sanders però non avrebbe fatto i conti con la valenza altamente polemica del termine “peccatori” nel contesto del giudaismo dell’epoca, caratterizzato com’era da forti divisioni tra fazioni che portavano avanti differenti visioni del giudaismo stesso.
“ ‘Peccatori’ – scrive Dunn - non era un termine assoluto (…). Nel vocabolario delle fazioni, ‘peccatore’ era diventato un termine spregiativo (…), una parola che esprimeva disapprovazione vituperevole e disprezzo per chi appartenesse ad un’altra fazione”.
Alcuni passi nel libro dei Maccabei, nel corpus enochico, negli scritti di Qumran e nei Salmi di Salomone forniscono testimonianze di quest’utilizzo del termine “peccatori” in chiave polemica, al fine di screditare gli avversari del proprio gruppo, ossia di tutti coloro che praticavano un “giudaismo differente” da quello della fazione a cui apparteneva lo scrivente.
Ed è sempre in questa accezione polemica che – secondo Dunn – il termine compare nella tradizione evangelica, ad esempio nell’antitesi tra “giusti” e “peccatori” (Mc 2,17) o nella parabola del fariseo e del pubblicano (Lc 15,7).
In conclusione, secondo Dunn, Gesù allorché si autodefiniva inviato ai peccatori/malati, esprimeva la sua autoconsapevolezza della propria missione profetica avvalendosi proprio di quelle categorie con cui i farisei lo criticavano. Ossia: i farisei criticavano Gesù per il fatto di accompagnarsi a coloro che dai farisei erano considerati (secondo la visione Jeremias-Dunn) “peccatori”, ossia la gente comune che non riteneva necessario o possibile impostare la propria vita secondo la pietà e le norme farisaiche. Costoro sarebbero i peccatori/malati, e Gesù farebbe propria tale distinzione in giusti/sani (farisei) e peccatori/malati (gente comune), rivendicando di essere inviato proprio a coloro che i farisei allontanavano da sé.
OBIEZIONI
Perché mai Gesù, dovrebbe far propria la Weltanschauung farisaica, con la sua (presunta) rigida divisione: “noi = giusti” , “tutti gli altri = peccatori”?
A mio avviso, Dunn, per sostenere la sua posizione deve necessariamente postulare una di queste due cose:
A. Gesù si autoconcepisce come inviato alle “pecore perdute dei farisei” (gli ‘amme ha ‘ares) [e non solo nel contesto polemico riportato in Mc 2,16-17, ma come prassi programmatica del proprio ministero, cf. la “voce popolare” di Gesù come “mangione e beone, amico dei pubblicani e dei peccatori” Mt 11,7] in quanto egli stesso è un fariseo: egli si muove all’interno di tali categorie, perché sono anche le sue. Con la differenza che egli, per qualche ragione (magari dovuta alla eccezionalità del momento presente, nell’imminenza del climax escatologico) ritiene di dover chiamare e radunare proprio coloro da cui normalmente bisognerebbe stare alla larga: quella razza di “peccatori” che sono la gente comune.
B. Gesù non condivide affatto le categorie farisaiche, ma è costretto a conformarvisi, dal momento che i farisei influenzano in modo determinante la vita religiosa e sociale di tutta la nazione israelita, Galilea compresa. Essi hanno l’effettivo potere di porre in stato di marginalità tutti coloro che non sono disposti ad intraprendere la loro pietà e a seguire le loro norme particolari. Dal momento quindi che le “pecore perdute dei farisei” coincidono punto per punto con le “pecore perdute di Israele”, Gesù deve per forza concepire la propria missione come destinata alla grande massa di gente comune che è stata tagliata fuori dalla vita sociale e religiosa palestinese, a causa del propria negligenza nell’osservare la prassi farisaica.
Ma, evidentemente, Dunn non ritiene affatto nè che Gesù sia un fariseo (nemmeno un fariseo riformatore) né che condivida e sottoscriva le categorie farisaiche “giusti=farisei” e “peccatori= gente comune”.
Quindi bisogna necessariamente che Dunn postuli che nella Galilea degli anni ’20 e ’30 non solo c’era la presenza farisaica (il che viene peraltro contestato da alcuni), ma che tale presenza era di rilevanza tale da esercitare un’influenza normativa e determinante in tutto l’ambito sociale e religioso.
Solo se i farisei erano così potenti e influenti da determinare la marginalizzazione come “peccatori” di chi non osservava la loro pietà, ha senso identificare i “peccatori”, a cui Gesù destinava preferenzialmente la propria missione profetica di restaurazione di Israele, con il “popolo della terra”, la gente comune.
Questo scenario, all’insegna della dominanza religiosa-culturale-sociale dei farisei è però del tutto inverosimile.
1. Come scrive E.P. Sanders: “nessun piccolo gruppo di bigotti superpii e supercolti poteva in qualunque modo escludere di fatto dalla vita religiosa e sociale coloro che non si conformavano ai loro modelli”.
2. I farisei oltretutto – come ha mostrato, tra gli altri, Anthony Saldarini - erano per l’appunto solo un piccolo gruppo in mezzo ai tanti, che non aveva diretto accesso alle leve del potere politico. Si trattava per lo più di un gruppo formato da retainers, ossia “persone addette ai servizi” che costituivano una sorta di burocrazia colta, incaricata di esercitare una serie di uffici e mansioni alle dipendenze delle classi dominanti. Essi cercavano di estendere la loro influenza sia verso l’alto, cercando di guadagnare alla propria causa le classi dominanti, sia verso il basso, in direzione della popolazione comune, tra la quale in effetti – come ci informa Giuseppe Flavio – essi godevano di una certa stima. Ad ogni modo, a parte qualche significativa eccezione, essi non erano nel complesso parte della classe dominante e dirigente.
3. Se i farisei fossero poi effettivamente presenti in quegli anni in Galilea, o meno, è questione attualmente assai dibattuta. Comunque stessero le cose, penso proprio che si possano sottoscrivere le seguenti considerazioni di Anthony Saldarini: “Sostenere che i farisei fossero presenti in Galilea non significa affermare che la dirigessero o fossero anche solo una delle forze al potere. (…) Se i farisei erano presenti in Galilea, non facevano parte della classe dominante, né della dirigenza tradizionale galilaica: costituivano un gruppo sociale riconosciuto e organizzato, ma solo uno fra i tanti della società palestinese”.
Una volta che si è compreso tutto questo l’identificazione dei “peccatori” con “tutti coloro che non osservavano la pietà farisaica”, sostenuta da Dunn, diventa fortemente problematica. Essa non rende affatto ragione della specificità del ministero di Gesù, anzi la rende assai poco comprensibile.
Perché mai egli avrebbe dovuto impostare il proprio ministero secondo le categorie farisaiche, andando alla ricerca di coloro che secondo i farisei erano “malati”, ma che per la stragrande maggioranza del giudaismo erano invece assolutamente “sani”? Questi presunti “malati” che si rifiutavano di adottare la prassi farisaica non avevano proprio alcun bisogno di un medico che andasse in loro soccorso: non erano affatto emarginati, né religiosamente né socialmente! Una minoranza che non detiene le leve del potere non è in alcun modo in grado di marginalizzare nessuno!
Perché mai Gesù avrebbe dovuto considerarsi inviato alle “pecore perdute dei farisei”?
CONCLUSIONE
In conclusione, ritengo che la riproposizione da parte di Dunn della tesi di Jeremias sull’identità tra “peccatori” e “gente comune” o “non-farisei”, sia da respingere nettamente.
I “peccatori” che Gesù invitava all’ingresso nel regno di Dio, nell’Israele escatologico restaurato, non erano la gente comune che non osservava la pietà farisaica, bensì coloro che erano realmente emarginati dalla vita religiosa e sociale palestinese a causa del loro ripudio pratico della Legge di Mosè: gli empi.
Su questo Sanders è completamente nel giusto; più discutibile è invece l’altra sua grande tesi: che Gesù avrebbe offerto a costoro il Regno in modo completamente gratuito, prescindendo completamente da qualsiasi dinamica di conversione. Ma questa è un’altra questione.
APPENDICE
Infine, si potrebbe forse contestare l’idea stessa secondo cui i farisei stabilissero degli steccati così netti e invalicabili tra di essi e il resto della popolazione giudaica. A ben vedere ciò è in palese contraddizione con l’affermazione di Giuseppe Flavio secondo cui i farisei godevano di una certa stima tra la popolazione: ora, una volta che si assume che gran parte della popolazione non aveva evidentemente né l’istruzione, né le possibilità economiche e le condizioni di vita adatte per permettersi il “lusso” di adottare la prassi farisaica, viene proprio da domandarsi in che modo i farisei avrebbero potuto godere di stima tra una popolazione così poco permeabile alle loro pratiche, qualora questi fossero stati degli inflessibili bacchettoni!
Diverse fonti (Atti 5,33-40; Giuseppe Flavio e il trattato Sanhedrin della Mishnà) suggeriscono al contrario che i farisei fossero noti per una certa “clemenza” e “flessibilità” (al contrario dei sadducei). Se nei vangeli essi si dimostrano così rigidi e bacchettoni ciò lo si deve forse (oltre che ad una certa tendenza all’esagerazione dovuta ai contrasti che intercorrevano tra i farisei e la chiesa primitiva negli anni successivi al 70), ad una certa “vicinanza” o “affinità” con cui i farisei percepivano la figura di Gesù: essi polemizzavano con Gesù, proprio perché, per certi aspetti, lo sentivano vicino a loro.
Sia il movimento farisaico sia quello di Gesù condividevano una certa affinità quanto ad aspettative escatologiche e per il fatto che entrambi si rivolgevano direttamente al popolo. Proprio perché erano in parte vicini (e rivali), le stravaganze del movimento di Gesù (che si rivolgeva non solo alla gente comune, ma anche agli empi, che non teneva in gran conto le leggi di purità) risultavano ancora più irritanti agli occhi dei farisei.
Vediamo un po’ la questione da più vicino.
TESI DI JEREMIAS
I “peccatori” a cui Gesù offre la partecipazione al regno di Dio sono i gli ‘amme ha ‘ares, ossia il “popolo della terra”, la gente comune, semplice e non istruita, che non aveva possibilità di adeguare la propria vita alle speciali regole e osservanze farisaiche
ANTITESI DI SANDERS
I “peccatori” sono i veri propri empi, coloro che cioè vivevano abitualmente e impenitentemente in aperto contrasto alla Legge di Mosè (cf. Gesù e il giudaismo, p. 226-276): è a costoro che Gesù avrebbe assicurato la partecipazione al regno di Dio (oltretutto, secondo Sanders, senza richiedere alcun tipo di conversione o penitenza).
SINTESI: RIPRESA DI JEREMIAS DA PARTE DI DUNN
Per Dunn, Jeremias ha visto giusto, ma non ha argomentato bene. Di per sé Sanders avrebbe ragione quando specifica che, in sé stesse, le denominazioni peccatori e ‘amme ha ‘ares, denotano gruppi di persone differenti, e non sono quindi intercambiabili. Sanders però non avrebbe fatto i conti con la valenza altamente polemica del termine “peccatori” nel contesto del giudaismo dell’epoca, caratterizzato com’era da forti divisioni tra fazioni che portavano avanti differenti visioni del giudaismo stesso.
“ ‘Peccatori’ – scrive Dunn - non era un termine assoluto (…). Nel vocabolario delle fazioni, ‘peccatore’ era diventato un termine spregiativo (…), una parola che esprimeva disapprovazione vituperevole e disprezzo per chi appartenesse ad un’altra fazione”.
Alcuni passi nel libro dei Maccabei, nel corpus enochico, negli scritti di Qumran e nei Salmi di Salomone forniscono testimonianze di quest’utilizzo del termine “peccatori” in chiave polemica, al fine di screditare gli avversari del proprio gruppo, ossia di tutti coloro che praticavano un “giudaismo differente” da quello della fazione a cui apparteneva lo scrivente.
Ed è sempre in questa accezione polemica che – secondo Dunn – il termine compare nella tradizione evangelica, ad esempio nell’antitesi tra “giusti” e “peccatori” (Mc 2,17) o nella parabola del fariseo e del pubblicano (Lc 15,7).
In conclusione, secondo Dunn, Gesù allorché si autodefiniva inviato ai peccatori/malati, esprimeva la sua autoconsapevolezza della propria missione profetica avvalendosi proprio di quelle categorie con cui i farisei lo criticavano. Ossia: i farisei criticavano Gesù per il fatto di accompagnarsi a coloro che dai farisei erano considerati (secondo la visione Jeremias-Dunn) “peccatori”, ossia la gente comune che non riteneva necessario o possibile impostare la propria vita secondo la pietà e le norme farisaiche. Costoro sarebbero i peccatori/malati, e Gesù farebbe propria tale distinzione in giusti/sani (farisei) e peccatori/malati (gente comune), rivendicando di essere inviato proprio a coloro che i farisei allontanavano da sé.
OBIEZIONI
Perché mai Gesù, dovrebbe far propria la Weltanschauung farisaica, con la sua (presunta) rigida divisione: “noi = giusti” , “tutti gli altri = peccatori”?
A mio avviso, Dunn, per sostenere la sua posizione deve necessariamente postulare una di queste due cose:
A. Gesù si autoconcepisce come inviato alle “pecore perdute dei farisei” (gli ‘amme ha ‘ares) [e non solo nel contesto polemico riportato in Mc 2,16-17, ma come prassi programmatica del proprio ministero, cf. la “voce popolare” di Gesù come “mangione e beone, amico dei pubblicani e dei peccatori” Mt 11,7] in quanto egli stesso è un fariseo: egli si muove all’interno di tali categorie, perché sono anche le sue. Con la differenza che egli, per qualche ragione (magari dovuta alla eccezionalità del momento presente, nell’imminenza del climax escatologico) ritiene di dover chiamare e radunare proprio coloro da cui normalmente bisognerebbe stare alla larga: quella razza di “peccatori” che sono la gente comune.
B. Gesù non condivide affatto le categorie farisaiche, ma è costretto a conformarvisi, dal momento che i farisei influenzano in modo determinante la vita religiosa e sociale di tutta la nazione israelita, Galilea compresa. Essi hanno l’effettivo potere di porre in stato di marginalità tutti coloro che non sono disposti ad intraprendere la loro pietà e a seguire le loro norme particolari. Dal momento quindi che le “pecore perdute dei farisei” coincidono punto per punto con le “pecore perdute di Israele”, Gesù deve per forza concepire la propria missione come destinata alla grande massa di gente comune che è stata tagliata fuori dalla vita sociale e religiosa palestinese, a causa del propria negligenza nell’osservare la prassi farisaica.
Ma, evidentemente, Dunn non ritiene affatto nè che Gesù sia un fariseo (nemmeno un fariseo riformatore) né che condivida e sottoscriva le categorie farisaiche “giusti=farisei” e “peccatori= gente comune”.
Quindi bisogna necessariamente che Dunn postuli che nella Galilea degli anni ’20 e ’30 non solo c’era la presenza farisaica (il che viene peraltro contestato da alcuni), ma che tale presenza era di rilevanza tale da esercitare un’influenza normativa e determinante in tutto l’ambito sociale e religioso.
Solo se i farisei erano così potenti e influenti da determinare la marginalizzazione come “peccatori” di chi non osservava la loro pietà, ha senso identificare i “peccatori”, a cui Gesù destinava preferenzialmente la propria missione profetica di restaurazione di Israele, con il “popolo della terra”, la gente comune.
Questo scenario, all’insegna della dominanza religiosa-culturale-sociale dei farisei è però del tutto inverosimile.
1. Come scrive E.P. Sanders: “nessun piccolo gruppo di bigotti superpii e supercolti poteva in qualunque modo escludere di fatto dalla vita religiosa e sociale coloro che non si conformavano ai loro modelli”.
2. I farisei oltretutto – come ha mostrato, tra gli altri, Anthony Saldarini - erano per l’appunto solo un piccolo gruppo in mezzo ai tanti, che non aveva diretto accesso alle leve del potere politico. Si trattava per lo più di un gruppo formato da retainers, ossia “persone addette ai servizi” che costituivano una sorta di burocrazia colta, incaricata di esercitare una serie di uffici e mansioni alle dipendenze delle classi dominanti. Essi cercavano di estendere la loro influenza sia verso l’alto, cercando di guadagnare alla propria causa le classi dominanti, sia verso il basso, in direzione della popolazione comune, tra la quale in effetti – come ci informa Giuseppe Flavio – essi godevano di una certa stima. Ad ogni modo, a parte qualche significativa eccezione, essi non erano nel complesso parte della classe dominante e dirigente.
3. Se i farisei fossero poi effettivamente presenti in quegli anni in Galilea, o meno, è questione attualmente assai dibattuta. Comunque stessero le cose, penso proprio che si possano sottoscrivere le seguenti considerazioni di Anthony Saldarini: “Sostenere che i farisei fossero presenti in Galilea non significa affermare che la dirigessero o fossero anche solo una delle forze al potere. (…) Se i farisei erano presenti in Galilea, non facevano parte della classe dominante, né della dirigenza tradizionale galilaica: costituivano un gruppo sociale riconosciuto e organizzato, ma solo uno fra i tanti della società palestinese”.
Una volta che si è compreso tutto questo l’identificazione dei “peccatori” con “tutti coloro che non osservavano la pietà farisaica”, sostenuta da Dunn, diventa fortemente problematica. Essa non rende affatto ragione della specificità del ministero di Gesù, anzi la rende assai poco comprensibile.
Perché mai egli avrebbe dovuto impostare il proprio ministero secondo le categorie farisaiche, andando alla ricerca di coloro che secondo i farisei erano “malati”, ma che per la stragrande maggioranza del giudaismo erano invece assolutamente “sani”? Questi presunti “malati” che si rifiutavano di adottare la prassi farisaica non avevano proprio alcun bisogno di un medico che andasse in loro soccorso: non erano affatto emarginati, né religiosamente né socialmente! Una minoranza che non detiene le leve del potere non è in alcun modo in grado di marginalizzare nessuno!
Perché mai Gesù avrebbe dovuto considerarsi inviato alle “pecore perdute dei farisei”?
CONCLUSIONE
In conclusione, ritengo che la riproposizione da parte di Dunn della tesi di Jeremias sull’identità tra “peccatori” e “gente comune” o “non-farisei”, sia da respingere nettamente.
I “peccatori” che Gesù invitava all’ingresso nel regno di Dio, nell’Israele escatologico restaurato, non erano la gente comune che non osservava la pietà farisaica, bensì coloro che erano realmente emarginati dalla vita religiosa e sociale palestinese a causa del loro ripudio pratico della Legge di Mosè: gli empi.
Su questo Sanders è completamente nel giusto; più discutibile è invece l’altra sua grande tesi: che Gesù avrebbe offerto a costoro il Regno in modo completamente gratuito, prescindendo completamente da qualsiasi dinamica di conversione. Ma questa è un’altra questione.
APPENDICE
Infine, si potrebbe forse contestare l’idea stessa secondo cui i farisei stabilissero degli steccati così netti e invalicabili tra di essi e il resto della popolazione giudaica. A ben vedere ciò è in palese contraddizione con l’affermazione di Giuseppe Flavio secondo cui i farisei godevano di una certa stima tra la popolazione: ora, una volta che si assume che gran parte della popolazione non aveva evidentemente né l’istruzione, né le possibilità economiche e le condizioni di vita adatte per permettersi il “lusso” di adottare la prassi farisaica, viene proprio da domandarsi in che modo i farisei avrebbero potuto godere di stima tra una popolazione così poco permeabile alle loro pratiche, qualora questi fossero stati degli inflessibili bacchettoni!
Diverse fonti (Atti 5,33-40; Giuseppe Flavio e il trattato Sanhedrin della Mishnà) suggeriscono al contrario che i farisei fossero noti per una certa “clemenza” e “flessibilità” (al contrario dei sadducei). Se nei vangeli essi si dimostrano così rigidi e bacchettoni ciò lo si deve forse (oltre che ad una certa tendenza all’esagerazione dovuta ai contrasti che intercorrevano tra i farisei e la chiesa primitiva negli anni successivi al 70), ad una certa “vicinanza” o “affinità” con cui i farisei percepivano la figura di Gesù: essi polemizzavano con Gesù, proprio perché, per certi aspetti, lo sentivano vicino a loro.
Sia il movimento farisaico sia quello di Gesù condividevano una certa affinità quanto ad aspettative escatologiche e per il fatto che entrambi si rivolgevano direttamente al popolo. Proprio perché erano in parte vicini (e rivali), le stravaganze del movimento di Gesù (che si rivolgeva non solo alla gente comune, ma anche agli empi, che non teneva in gran conto le leggi di purità) risultavano ancora più irritanti agli occhi dei farisei.
venerdì 4 aprile 2008
Cantalamessa parte II : niente Gesù storico senza fede in Dio ???
Un'altra cosa estremamente interessante e contestabile Cantalamessa ce la dice nel suo intervento del 12-05-2007 al Festival della filosofia Roma, che lo ha visto partecipare come relatore insieme ad una grandissima studiosa americana, Paula Fredriksen, e ad un paio di presunti “esperti” nostrani, alquanto improvvisati (per non dirne peggio … ): Paolo Flores d’Arcais ed Eugenio Scalfari.
Questo intervento – per certi aspetti anche ben fatto – presenta diverse cosucce su cui ci sarebbe da ridire: ad esempio, sono abbastanza inorridito dal modo intollerabilmente superficiale e semplificante con cui il biblista francescano accosta i proponenti di un “Gesù cinico” alla “filosofia” New Age.
Mi riesce infatti molto difficile immaginare che cosa mai possa avere di new-age un Gesù fortemente sociale e politico come quello che ha ricostruito John Dominic Crossan!!!
Forse solo Marcus J. Borg col suo insistere (soprattutto nel suo libro “Jesus: A New Vision”) su Gesù come “uomo dello spirito”, può portare a qualche associazione in tal senso … ma anche in questo caso sarebbe ingiusto liquidare il Gesù di Borg come “New-age”, anzitutto perché fondamentalmente Borg non fa altro che sviluppare le tesi di G. Vermes su Gesù quale “jewish mystic”, ma soprattutto perché anche il Gesù di Borg ha connotazioni fortemente politiche e sociali (e non credo che ciò si possa accordare molto con il New-Age).
Insomma, certe semplificazioni un (ex)studioso come Cantalamessa se le dovrebbe proprio risparmiare.
Ma il punto veramente “caldo” del suo intervento è quando, pochi passi prima, Cantalamessa afferma:
“La mia convinzione è che, se si nega o si prescinde dalla fede in Dio non si elimina solo la divinità, o il cosiddetto Cristo della fede, ma anche il Gesú storico tout court, non si salva neppure l’uomo Gesú. Nessuno può contestare storicamente che il Gesú dei vangeli vive e opera in continuo in riferimento al Padre celeste, che prega e insegna a pregare, che fonda tutto sulla fede in Dio. Se si elimina questa dimensione dal Gesú dei vangeli non resta di lui assolutamente niente.
Ma se Dio non esiste, Gesú non è che uno dei tanti illusi che ha pregato, adorato, parlato con la propria ombra o la proiezione della propria essenza, per dirla con Feuerbach. E come si spiega allora che la vita di quest’uomo “ha cambiato il mondo”?”
Di fronte ad affermazioni del genere io resto francamente un po’ sconcertato. Ma perché mai chi volesse indagare il Gesù storico prescindendo dal Cristo della fede, dovrebbe essere condannato a veder svanire dalle proprie mani l’oggetto della sua ricerca? Perché, allorchè si cerca di distinguere l’immagine di fede degli evangelisti dall’impulso storico che le ha determinate, non dovrebbe restare nulla dell’uomo Gesù?
Cosa ci sta dicendo Cantalamessa: che uno storico per accostarsi alla figura di Gesù deve necessariamente fare una professione di fede cristologica? O che dovrebbe ammettere che Dio esiste, pena il far precipitare la figura di Gesù nell’assurdo? Ma perché??? Il noto predicatore pontificio sarebbe forse disposto a concedere l’autenticità della rivelazione coranica, allorché intendesse accostarsi dal punto di vista storico a Maometto?
Io resto veramente allibito di fronte a frasi del genere.
Non posso concepire che un uomo intellettualmente dotato (assai più di me!!) come Cantalamessa pensi una cosa del genere. Alla fine mi viene da pensare, che, semplicemente, l’esegeta francescano sta facendo una ENORME confusione di piani: un conto è infatti dire che lo storico deve entrare in un rapporto di “simpatia” con la fede giudaica di Gesù e con la fede cristologica dei suoi discepoli; un altro è sostenere che egli le debba sottoscrivere!!!
Se Cantalamessa intendeva dire la prima cosa, allora sono d’accordo. Che si debba entrare in un rapporto di “simpatia” con la fede giudaica di Gesù e le sue visioni teologiche sul Padre e sul Regno, è qualcosa di veramente ovvio. Si tratta semplicemente di rispettare l’oggetto dell’indagine storica per quello che è.
E, in senso un po’ diverso, lo stesso si può dire anche nei confronti della fede cristologica depositata nei testi neotestamentari: lo storico non deve accostarsi alla teologia degli evangelisti come a qualcosa di radicalmente fuorviante e corrotto rispetto alla figura di Gesù. Bensì, deve penetrare tali testimonianze di fede, cercando di capire, per quanto è possibile, quale è stato il punto originario a partire dal quale esse hanno cominciato il loro sviluppo.
In sostanza, Cantalamessa intendeva forse presentare la tesi di James Dunn (a lui estremamente caro) secondo cui il Gesù a cui lo storico può avere accesso non è tanto un immaginario e neutrale “Gesù storico”, bensì il “Gesù ricordato”, che cominciò ad impressionare la memoria dei suoi discepoli sin dal tempo del loro ministero itinerante al suo seguito. In poche parole, secondo Dunn, possiamo nel migliore dei casi soltanto arrivare a vedere Gesù con gli “occhi” con cui lo videro i suoi primi discepoli.
Se Dunn abbia ragione o no, non starò qui a discuterlo, anche perché dovrei sinceramente dedicarci un po’ di tempo, di lettura e di riflessione. In ogni caso si tratta però di qualcosa di completamente diverso dal concetto che p. Cantalamessa ha voluto propinarci al Festival della Filosofia di Roma, ossia che prescindendo dalla fede in Dio, non è possibile indagare il Gesù storico: questo io – Johannes Weiss, colui che non intende saltare il “grande e brutto fossato” – lo rifiuto categoricamente con tutte le mie forze.
Questo intervento – per certi aspetti anche ben fatto – presenta diverse cosucce su cui ci sarebbe da ridire: ad esempio, sono abbastanza inorridito dal modo intollerabilmente superficiale e semplificante con cui il biblista francescano accosta i proponenti di un “Gesù cinico” alla “filosofia” New Age.
Mi riesce infatti molto difficile immaginare che cosa mai possa avere di new-age un Gesù fortemente sociale e politico come quello che ha ricostruito John Dominic Crossan!!!
Forse solo Marcus J. Borg col suo insistere (soprattutto nel suo libro “Jesus: A New Vision”) su Gesù come “uomo dello spirito”, può portare a qualche associazione in tal senso … ma anche in questo caso sarebbe ingiusto liquidare il Gesù di Borg come “New-age”, anzitutto perché fondamentalmente Borg non fa altro che sviluppare le tesi di G. Vermes su Gesù quale “jewish mystic”, ma soprattutto perché anche il Gesù di Borg ha connotazioni fortemente politiche e sociali (e non credo che ciò si possa accordare molto con il New-Age).
Insomma, certe semplificazioni un (ex)studioso come Cantalamessa se le dovrebbe proprio risparmiare.
Ma il punto veramente “caldo” del suo intervento è quando, pochi passi prima, Cantalamessa afferma:
“La mia convinzione è che, se si nega o si prescinde dalla fede in Dio non si elimina solo la divinità, o il cosiddetto Cristo della fede, ma anche il Gesú storico tout court, non si salva neppure l’uomo Gesú. Nessuno può contestare storicamente che il Gesú dei vangeli vive e opera in continuo in riferimento al Padre celeste, che prega e insegna a pregare, che fonda tutto sulla fede in Dio. Se si elimina questa dimensione dal Gesú dei vangeli non resta di lui assolutamente niente.
Ma se Dio non esiste, Gesú non è che uno dei tanti illusi che ha pregato, adorato, parlato con la propria ombra o la proiezione della propria essenza, per dirla con Feuerbach. E come si spiega allora che la vita di quest’uomo “ha cambiato il mondo”?”
Di fronte ad affermazioni del genere io resto francamente un po’ sconcertato. Ma perché mai chi volesse indagare il Gesù storico prescindendo dal Cristo della fede, dovrebbe essere condannato a veder svanire dalle proprie mani l’oggetto della sua ricerca? Perché, allorchè si cerca di distinguere l’immagine di fede degli evangelisti dall’impulso storico che le ha determinate, non dovrebbe restare nulla dell’uomo Gesù?
Cosa ci sta dicendo Cantalamessa: che uno storico per accostarsi alla figura di Gesù deve necessariamente fare una professione di fede cristologica? O che dovrebbe ammettere che Dio esiste, pena il far precipitare la figura di Gesù nell’assurdo? Ma perché??? Il noto predicatore pontificio sarebbe forse disposto a concedere l’autenticità della rivelazione coranica, allorché intendesse accostarsi dal punto di vista storico a Maometto?
Io resto veramente allibito di fronte a frasi del genere.
Non posso concepire che un uomo intellettualmente dotato (assai più di me!!) come Cantalamessa pensi una cosa del genere. Alla fine mi viene da pensare, che, semplicemente, l’esegeta francescano sta facendo una ENORME confusione di piani: un conto è infatti dire che lo storico deve entrare in un rapporto di “simpatia” con la fede giudaica di Gesù e con la fede cristologica dei suoi discepoli; un altro è sostenere che egli le debba sottoscrivere!!!
Se Cantalamessa intendeva dire la prima cosa, allora sono d’accordo. Che si debba entrare in un rapporto di “simpatia” con la fede giudaica di Gesù e le sue visioni teologiche sul Padre e sul Regno, è qualcosa di veramente ovvio. Si tratta semplicemente di rispettare l’oggetto dell’indagine storica per quello che è.
E, in senso un po’ diverso, lo stesso si può dire anche nei confronti della fede cristologica depositata nei testi neotestamentari: lo storico non deve accostarsi alla teologia degli evangelisti come a qualcosa di radicalmente fuorviante e corrotto rispetto alla figura di Gesù. Bensì, deve penetrare tali testimonianze di fede, cercando di capire, per quanto è possibile, quale è stato il punto originario a partire dal quale esse hanno cominciato il loro sviluppo.
In sostanza, Cantalamessa intendeva forse presentare la tesi di James Dunn (a lui estremamente caro) secondo cui il Gesù a cui lo storico può avere accesso non è tanto un immaginario e neutrale “Gesù storico”, bensì il “Gesù ricordato”, che cominciò ad impressionare la memoria dei suoi discepoli sin dal tempo del loro ministero itinerante al suo seguito. In poche parole, secondo Dunn, possiamo nel migliore dei casi soltanto arrivare a vedere Gesù con gli “occhi” con cui lo videro i suoi primi discepoli.
Se Dunn abbia ragione o no, non starò qui a discuterlo, anche perché dovrei sinceramente dedicarci un po’ di tempo, di lettura e di riflessione. In ogni caso si tratta però di qualcosa di completamente diverso dal concetto che p. Cantalamessa ha voluto propinarci al Festival della Filosofia di Roma, ossia che prescindendo dalla fede in Dio, non è possibile indagare il Gesù storico: questo io – Johannes Weiss, colui che non intende saltare il “grande e brutto fossato” – lo rifiuto categoricamente con tutte le mie forze.
Cantalamessa e Martin Hengel: ma che castroneria!
Ci sono alcune cose che proprio non posso perdonare ad uno studioso (benché ormai “in pensione”) del calibro di Raniero Cantalamessa. La prima che intendo affrontare è il fatto di aver ficcato (nella sua recensione contestatrice a M. Pesce) il nome di Martin Hengel all’interno di un presunto famigerato filone storiografico radicale che, cominciando da Reimarus, Voltaire e Renan porta fino a Brandon, a Bloom e alla Pagels.
Lasciando da parte la questione se questo insieme alquanto eterogeneo di studiosi possa effettivamente costituire qualcosa un “filone”, io vorrei semplicemente capire che cosa mai c’azzecca Martin Hengel!
Pesce ha giustamente replicato che Hengel appartiene ai grandi nomi dell’esegesi; ma la sua risposta è stata fin troppo signorile: il punto è che lo studioso di Tubinga non è solo un grande esegeta, bensì uno studioso che si colloca decisamente sul lato “conservatore” dello spettro della ricerca!
Qui in Italia di Hengel (su temi attinenti direttamente il Gesù storico; lasciando da parte i suoi immensi lavori sugli zeloti o sul rapporto tra giudaismo ed ellenismo) abbiamo praticamente soltanto Sequela e carisma (Paideia), la sua ottima monografia degli anni Sessanta sul loghion di Mt 8,21-22 (Lascia che i morti seppelliscano i morti). Prendiamo dunque in mano questo piccolo ma prezioso volume e andiamo vedere cosa ci dice il “radicale" Hengel alle pagine 121-123 . Leggiamo:
Anche qui viene confermata l’impressione che la rivendicazione di autorità avanzata da Gesù possa essere descritta al meglio attraverso la categoria del carismatico escatologico, che va ben al di là di quanto potrebbe essere accostato sia a modelli profetici sia paralleli di ambito veterotestamentario o dell’epoca del Nuovo Testamento. Si potrebbe comunque trasferire una osservazione fatta da E. Fuchs (…) all’ “insegnamento e comportamento” di Gesù: “Gesù osa far valere la volontà di Dio, come se stesse al posto stesso di Dio”. (…) Si potrebbe parlare a questo proposito dell’ “immediatezza del suo rapporto con Dio”, della sua “certezza di Dio” e (…) della sua “rivendicazione di autorità” singolare e senza paralleli, perché fondata in Dio stesso. Senza dubbio Gesù non era affatto un “maestro” paragonabile agli scribi del rabbinismo più tardo, ed era di gran lunga di più che un profeta. Anche all’interno della definizione da noi preferita di “carismatico escatologico”, egli rimane alla fin fine incommensurabile e fa saltare in sostanza tutti i tentativi di catalogarlo dal punto di vista della fenomenologia della religione o della sociologia della religione. Ben a ragione, dunque, nelle più recenti discussioni sul Gesù storico il fenomeno dell’autorità senza paralleli di Gesù è al centro dell’attenzione. La definizione migliore che si possa dare di tale autorità è “messianica”. Come si può mettere in un filone di studiosi “radicali” un autore che ha scritto una cosa del genere?
Questo ritratto storico di Gesù, eminentemente messianico, realizzato da Hengel è quanto di più vicino e compatibile si possa immaginare con una visione cristologica, e sembra già pronto per l’uso dei teologi fondamentali!
Per una conferma ulteriore, si veda anche il suo volume Studies in Early Christology, contenente diversi saggi, tra cui “Jesus the Messiah of Israel” e “'Jesus as Messianic Teacher of Wisdom and the Beginnings of Christology”.
Più chiaro di così!
Oppure, per chi legge il tedesco, si legga il supertomo di quasi ottocento pagine Jesus un das Judentum (Mohr/Siebeck), che l'esegeta ha dato alle stampe lo scorso anno (oppure seguite la lettura che ne sta facendo il biblista evangelical Darrell Bock sul suo blog: vedi http://blog.bible.org/bock/node/356 dove riporta sinteticamente le considerazioni di Hengel in favore della realtà e storicità delle apparizioni pasquali).
A ciò si aggiunga – come chicca finale – il fatto che lo stesso Hengel è autore di un lavoro (Was Jesus a revolutionist?) espressamente dedicato, tra l’altro, a criticare la nota tesi di Brandon su Gesù come rivoluzionario politico. E Cantalamessa ce lo ficca proprio accanto!
In una parola: incommentabile.
Lasciando da parte la questione se questo insieme alquanto eterogeneo di studiosi possa effettivamente costituire qualcosa un “filone”, io vorrei semplicemente capire che cosa mai c’azzecca Martin Hengel!
Pesce ha giustamente replicato che Hengel appartiene ai grandi nomi dell’esegesi; ma la sua risposta è stata fin troppo signorile: il punto è che lo studioso di Tubinga non è solo un grande esegeta, bensì uno studioso che si colloca decisamente sul lato “conservatore” dello spettro della ricerca!
Qui in Italia di Hengel (su temi attinenti direttamente il Gesù storico; lasciando da parte i suoi immensi lavori sugli zeloti o sul rapporto tra giudaismo ed ellenismo) abbiamo praticamente soltanto Sequela e carisma (Paideia), la sua ottima monografia degli anni Sessanta sul loghion di Mt 8,21-22 (Lascia che i morti seppelliscano i morti). Prendiamo dunque in mano questo piccolo ma prezioso volume e andiamo vedere cosa ci dice il “radicale" Hengel alle pagine 121-123 . Leggiamo:
Anche qui viene confermata l’impressione che la rivendicazione di autorità avanzata da Gesù possa essere descritta al meglio attraverso la categoria del carismatico escatologico, che va ben al di là di quanto potrebbe essere accostato sia a modelli profetici sia paralleli di ambito veterotestamentario o dell’epoca del Nuovo Testamento. Si potrebbe comunque trasferire una osservazione fatta da E. Fuchs (…) all’ “insegnamento e comportamento” di Gesù: “Gesù osa far valere la volontà di Dio, come se stesse al posto stesso di Dio”. (…) Si potrebbe parlare a questo proposito dell’ “immediatezza del suo rapporto con Dio”, della sua “certezza di Dio” e (…) della sua “rivendicazione di autorità” singolare e senza paralleli, perché fondata in Dio stesso. Senza dubbio Gesù non era affatto un “maestro” paragonabile agli scribi del rabbinismo più tardo, ed era di gran lunga di più che un profeta. Anche all’interno della definizione da noi preferita di “carismatico escatologico”, egli rimane alla fin fine incommensurabile e fa saltare in sostanza tutti i tentativi di catalogarlo dal punto di vista della fenomenologia della religione o della sociologia della religione. Ben a ragione, dunque, nelle più recenti discussioni sul Gesù storico il fenomeno dell’autorità senza paralleli di Gesù è al centro dell’attenzione. La definizione migliore che si possa dare di tale autorità è “messianica”. Come si può mettere in un filone di studiosi “radicali” un autore che ha scritto una cosa del genere?
Questo ritratto storico di Gesù, eminentemente messianico, realizzato da Hengel è quanto di più vicino e compatibile si possa immaginare con una visione cristologica, e sembra già pronto per l’uso dei teologi fondamentali!
Per una conferma ulteriore, si veda anche il suo volume Studies in Early Christology, contenente diversi saggi, tra cui “Jesus the Messiah of Israel” e “'Jesus as Messianic Teacher of Wisdom and the Beginnings of Christology”.
Più chiaro di così!
Oppure, per chi legge il tedesco, si legga il supertomo di quasi ottocento pagine Jesus un das Judentum (Mohr/Siebeck), che l'esegeta ha dato alle stampe lo scorso anno (oppure seguite la lettura che ne sta facendo il biblista evangelical Darrell Bock sul suo blog: vedi http://blog.bible.org/bock/node/356 dove riporta sinteticamente le considerazioni di Hengel in favore della realtà e storicità delle apparizioni pasquali).
A ciò si aggiunga – come chicca finale – il fatto che lo stesso Hengel è autore di un lavoro (Was Jesus a revolutionist?) espressamente dedicato, tra l’altro, a criticare la nota tesi di Brandon su Gesù come rivoluzionario politico. E Cantalamessa ce lo ficca proprio accanto!
In una parola: incommentabile.
Iscriviti a:
Post (Atom)