Il neotestamentarita di Pittsburgh Dale C. Allison ha dato probabilmente il colpo di grazia a quel luogo comune storiografico che vorrebbe distinguere una First Quest, da Reimarus fino a Schweitzer, una New o Second Quest, coincidente coi lavori dei discepoli di Bultmann, e infine una Third Quest, a partire dal 1980-85 fino ad oggi.
In uno dei saggi del suo recente libro Resurrecting Jesus (T&T Clark, New York-London, 2005), Allison si adopera a mettere impietosamente a nudo una serie di assurdità implicate in tale “fortunata” tripartizione.
La più macroscopica è certamente il fatto di alimentare l’idea secondo cui tra il 1907 – l’anno successivo alla pubblicazione alla Storia della ricerca sulla vita di Gesù di Albert Schweitzer (unanimemente considerata l’orazione funebre della First Quest) - e il 1953 - anno in cui Ernst Kaesemann tenne la sua nota conferenza su Il problema del Gesù storico – non ci sarebbe stata alcuna ricerca storica su Gesù, o, per lo meno, nessuna meritevole di seria considerazione; il che fa sì che alcune periodizzazioni giungano a dare un nome ben preciso a questi quasi cinquant’anni di presunto “vuoto” della ricerca: quello di “No Quest” (si veda ad es. il volume di Salvador Piè i Ninot, La teologia fondamentale, Queriniana, Brescia, p. 327 – N.T. Wright parla – non meno significativamente - di un periodo caratterizzato da una “moratoria” sulla ricerca sul Gesù storico).
Naturalmente, Allison ha buon gioco nel mostrare che in realtà il periodo compreso tra First e Second Quest fu caratterizzato da un'ampia serie di lavori storici su Gesù, alcuni dei quali di importanza fondamentale (si veda la lista alla fine del post). Secondo, il neotestamentarista di Pittsburgh, all’origine di questo paradosso storiografico stanno due fattori principali.
In primo luogo, una confusione su quella che fu la reale portata dell’avvento della critica delle fonti e della critica delle forme: il fatto che esse abbiano fatto crollare la speranza di poter scrivere una “biografia” di Gesù, non significa in alcun modo – come invece, a quanto pare, alcuni devono aver pensato – che con il loro avvento fosse venuta meno anche la possibilità di dire qualcosa sulle parole e gli atti del Gesù storico.
«La morte delle tradizionali ‘vite di Gesù’, l’abbandono della cornice marciana e il rifiuto di tracciare lo sviluppo dell’autocoscienza di Gesù – scrive Allison – non possono essere fatti equivalere con un’eclisse degli studi sul Gesù storico. La prima parte del XX secolo non è stata perciò un periodo di ‘no quest’, bensì di ‘no biography’» (p. 5).
Il secondo fattore all’origine del paradosso “No Quest” è una certa tendenza a guardare al passato della ricerca con “occhi bultmanniani”, come cioè se Bultmann e bultmanniani fossero stati gli unici attori presenti sul palcoscenico degli studi neotestamentari dell’epoca.
Ma questo, puntualizza Allison, è semplicemente falso, anzitutto relativamente al panorama complessivo della ricerca, ma anche in riferimento allo stesso scenario tedesco.
Fino agli anni ’50, infatti, molti seri ricercatori di area anglofona guardavano ancora alla critica delle forme come ad una “tempesta in una tazza da tè”, ed è solamente a partire da allora che, in tale ambito, ci si cominciò a rendere conto della misura in cui i vangeli riflettono gli interessi dei primi cristiani, così da non poter più nutrire quell’atteggiamento di fiducia, ora visto come un po’ a-critico, che si ritrova in lavori come quelli di T.W. Manson o Vincent Taylor.
Tuttavia – nota Allison - nel momento in cui tale consapevolezza emerse, ecco che era nel frattempo già cominciata la New Quest, il che fa sì che nella scena degli studi di lingua inglese non ci fu mai un periodo di “no quest”.
Lo stesso discepolo di Bultmann e noto (ex)new quester James Robinson, nel suo libro del 1959 A New Quest for the Historical Jesus, riconosceva come la ricerca in area anglosassone e francese fosse andata avanti in modo “relativamente indisturbato e ininterrotto”.
Ma anche in riferimento alla sola Germania – sottolinea Allison - la periodizzazione “First-New-Third Quest” fa sì che venga misconosciuta la portata dei lavori di importanti studiosi non bultmanniani come Ethelbert Stauffer e soprattutto Joachim Jeremias, i cui lavori, quali ad es. Le parabole di Gesù (or. ted. 1947) e Le parole di commiato di Gesù (or. ted. 1ed. 1935, 2ed. 1949) sono ancora oggi fondamentali punti di riferimento, così come – tornando all’area anglofona – Le parabole del regno di C.H. Dodd (or. ing. 1935) o il commentario su Q I detti di Gesù di T.W. Manson (or. ing. 1949).
Allison fa poi notare come l’etichetta New Quest sia insufficiente anche a caratterizzare il panorama degli studi compreso nell’arco di tempo che va tra il 1953 e il 1980, poiché è semplicemente falso che durante tutto questo tempo la sola ricerca su Gesù esistente fosse quella dei new questers (mentre il voler far rientrare di forza in tale etichetta i lavori degli studiosi non post-bultmanniani comporterebbe lo svuotamento di significato dell’etichetta stessa); a riguardo Allison cita le importanti cristologie neotestamentarie di Oscar Cullmann (1957), Ferdinand Hahn (1963) e Reginald Fuller (1965) – “that had much to say about Jesus” – e le teologie del Nuovo Testamento di W.G. Kuemmel (1969), Leonhard Goppelt (1975) e Joachim Jeremias (1971), le quali offrono tutte ampie presentazioni del Gesù storico.
Infine, Allison si dichiara perplesso anche a proposito dell’opportunità di parlare di una Third Quest.
“Che cosa, infatti – si domanda l’Autore - separerebbe questa supposta Terza Ricerca dalle ricerche precedenti o dai lavori antecedenti al 1980?” (p. 10).
L’attenzione alle fonti extra-canoniche? Ma alcuni tra i più importanti third questers, come Meier e Sanders, non ne fanno il benché minimo uso! La battaglia contro l’escatologia apocalittica, quale si ritrova nei lavori di Crossan, Borg e Mack? Ma qui non c’è niente di nuovo sotto il sole: la causa era già stata portata avanti ben prima da C.H. Dodd, T.F. Glasson e J.A.T. Robinson.
Si tratta allora, forse, dell’enfasi sul contesto giudaico di Gesù e sul carattere giudaico della sua figura e del suo ministero? Sì, certo, gli attuali studi dedicano molta attenzione a questi aspetti. Tuttavia questi ricercatori non fanno altro che continuare a camminare lungo la strada battuta prima da studiosi come Schlatter, Dalman, Klausner e lo stesso Jeremias.
E’ vero, noi ora non possiamo che guardare alle loro ricostruzioni del giudaismo e al loro uso delle fonti giudaiche come meno sofisticati del nostro, e, pertanto, gli attuali studiosi potranno effettivamente vedere più continuità tra Gesù e il giudaismo di quanta ne vedessero i loro predecessori. Tuttavia, con ciò non ci stiamo inoltrando su un sentiero prima inesplorato, bensì proseguiamo, pur con maggior confidenza e abilità, lungo la medesima strada di prima.
O forse, come sostengono alcuni, si dirà che la Third Quest si distingue chiaramente per l’assenza di qualsivoglia interesse teologico. Ciò è indubbiamente vero per un autore come E.P. Sanders, o anche come lo stesso J.P. Meier, il quale cerca di portare avanti il proprio lavoro attraverso una epoché metodologica radicale rispetto alle proprie convinzioni di fede. Ma lo stesso non si può dire di autori come Marcus Borg e N.T. Wright, in cui gli interessi teologici sono evidenti e, come loro stessi riconoscono apertamente, influenzano o guidano i loro progetti.
Nemmeno si può prendere come indice distintivo l’enorme volume di produzione che caratterizza la Third Quest, poiché semplicemente accade che – per ragioni che non hanno nulla a che vedere con la ricerca sul Gesù storico – vi siano più studiosi di Nuovo Testamento e più editori di quel che essi producono, di quanti ve ne fossero in passato.
Insomma – conclude Allison – “io non sono in alcun modo un’antagonista dell’innovazione; tuttavia non desidero strombazzarla là dove essa non esiste. L’asserzione circa una “Third Quest” sulla quale ci siamo imbarcati, può essere parzialmente dovuta – sospetto – a una certa “snobberia” cronologica, alla sempre presente tentazione - istintiva in un mondo tecnologicamente orientato – di guardare al nuovo come automaticamente migliore, di adulare noi stessi attribuendo alla nostra epoca un significato esagerato.
Non è forse una gran bella cosa credere che le promesse della ricerca passata si siano infine adempiute nel nostro proprio lavoro?” (p. 14).
LIBRI SU GESU’ SCRITTI IN QUELLA PRESUNTA “NO MAN’S LAND” TRA FIRST E SECOND QUEST: 1907-1953
E.D. Burton, The Life of Christ (1907); William Sanday, The Life of Christ in Recent Research (1907); A.T. Robertson, Epochs in the Life of Christ (1907); James Denney, Jesus and the Gospels (1908); Johannes Weiss, Christus (1909); C.G. Montefiore, Some Elements of the Religious Teaching of Jesus (1910); E.F. Scott, The Kingdom and the Messiah (1911), Paul Fiebig, Die Gleichnisreden Jesu im Licht der rabbinischen Gleichnisse (1912); George Holley Gilbert, Jesus (1912); Wilhelm Heitmüller, Jesus (1913); H.L. Jackson, The Eschatology of Jesus (1913); Paul Wernle, Jesus (1916); T.R. Glover, The Jesus of History (1917); W. Manson, Christ’s View of the Kingdom of God (1918); H.G. Enelow, A Jewish View of Jesus (1921); Adolf Schlatter, Die Geschichte des Christus (1921); F.C. Grant, The Life and Times of Jesus (1921); Gustaf Dalman, Jesus-Jeschua (1922); Burton Scott Easton, Christ and His Teaching (1922); Joseph Klausner, Yeshu ha-Notsri (1922); A.C. Headlam, The Life and Teaching of Jesus Christ (1923); A.H. McNeile, Concerning the Christ (1924); James Moffatt, Everyman’s Life of Jesus (1924); E.F. Scott, The Ethical Teaching of Jesus (1924); Maurice Goguel, Vie de Jésus (1925); B.W. Bacon, The Study of Jesus (1926); Shirley Jackson Case, Jesus: A New Biography (1927); Joseph Warschauer, The Historical Life of Christ (1927); Maurice Goguel, Critique et Histoire (1928); W. Michaelis, Täufer, Jesus, Urgemeinde (1928); Walter E. Bundy, Our Recovery of Jesus (1929); B.W. Bacon, Jesus the Son of God (1930); B.H. Branscomb, Jesus and the Law of Moses (1930); Burton Scott Easton, Christ in the Gospels (1930); P. Feine, Jesus (1930); Joachim Jeremias, Jesus als Weltvollender (1930); Robert Eisler, IHΣOYΣ BAΣIΛEYΣ OY BAΣIΛEYΣAΣ (2 vols. 1929-30); James Mackinnon, The Historic Jesus (1931); T.W. Manson, The Teaching of Jesus (1931); H.D. Wendland, Die Eschatologie des Reiches Gottes bei Jesus (1931); F.M. Braun, Où en est le problem de Jésus? (1932); F.C. Burkitt, Jesus Christ (1932); C.A.H. Guignebert, Jésus (1933); James Stewart, The Life and Teaching of Jesus Christ (1933); Rudolf Otto, Reich Gottes und Menschensohn (1934); C.H. Dodd, The Parables of the Kingdom (1935); Joachim Jeremias, Die Abendmahlsworte Jesu (1935); W.O.E. Oesterley, The Gospel Parables in the Light of their Jewish Background (1936); H.J. Cadbury, The Peril of Modernizing Jesus (1937); P. Couchoud, Jésus (1937); C.H. Dodd, History and the Gospels (1938); P. Gardner-Smith, The Christ of the Gospels (1938); G. Lindeskog, Jesusfrge im neuzeitlichen Judentum (1938); H.D.A. Major, T.W. Manson, and C.J. Wright, The Mission and Message of Jesus (1938); Vincent Taylor, Jesus and His Sacrifice (1938); Martin Dibelius, Jesus (1939), A.T. Cadoux, The Theology of Jesus (1940), W. Grundmann, Jesus der Galiläer und das Judentum (1940); C.C. McCown, The Search for the Real Jesus (1940), Rudolf Meyer, Der Prophet aus Galilaäa (1940); G. Ogg, The Chronology of the Public Ministry of Jesus (1940); C.J. Cadoux, The Historic Mission of Jesus (1941); J. Leipoldt, Jesu Verhältnis zu Griechen und Juden (1941); John Knox, The Man Christ Jesus (1942); W. Michaelis, Der Herr verzieht nicht die Verheissung (1942); Anthony Flew, Jesus and His Church (1943); William Manson, Jesus the Messiah (1943); A.E.J. Rawlinson, Christ in the Gospels (1944); H.B. Sharman, Son of Man and Kingdom of God (1944); W.G. Kümmel, Verheissung und Erfüllung (1945); E.C. Colwell, An Approach to the Teaching of Jesus (1946); F.M. Braun, Jesus (1947); H.J. Cadbury, Jesus: What Manner of Man? (1947); Jean G.H. Hoffmann, Les vies de Jésus et le Jésus de l’histoire (1947); G. Lundström, Guds Rike i Jesu Förkunnelse (1947) ; Johw Wick Bowman, The Religion of Maturity (1948) ; C.J. Cadoux, The Life of Jesus (1948) ; George S. Duncan, Jesus, Son of Man (1948); C.W.F. Smith, The Jesus of the Parables (1948); S.H. Hooke, The Kingdom of God in the Experience of Jesus (1949); E.J. Goodspeed, A Life of Jesus (1950); A.M. Hunter, The Work and Words of Jesus (1950); H.A. Guy, The Life of Christ (1951); J. Finegan, Rediscovering Jesus (1952); T.W. Manson, The Servant-Messiah (1953); Ernst Percy, Die Botschaft Jesu (1953).
[La lista è riportata da: D.C. Allison, Resurrecting Jesus. The Earliest Christian Tradition and its Interpreters, T&T Clark, New Yorl-London, p. 23-25. Allison riporta anche una lista di opere su Gesù uscite nel periodo 1954-79, comunemente visto come dominato dalla New Quest]
P.S. Vorrei aggiungere alle riflessioni di Allison, anche la – molto semplice – osservazione che lo stesso Bultmann, che viene appunto visto come l’emblema stesso della No Quest appartiene invece a pieno diritto (e in positivo!) alla storia della ricerca su Gesù. Egli potrà aver liquidato la ricerca storica su Gesù come inutile dal punto di vista teologico, ma non si è mai sognato di negarne la possibilità stessa in quanto storia!
Come scrive lo stesso Bultmann: “se noi sappiamo poco della vita e della personalità di Gesù, sappiamo invece molto della sua predicazione, tanto che siamo in grado di farcene un’immagine coerente” (Gesù, Queriniana, Brescia, p. 12). L’esegeta e teologo di Marburgo insomma, ben lungi dall’aver indetto “moratorie” di sorta sulla ricerca storica su Gesù, vi ha contribuito egli stesso in modo ancor oggi fondamentale, soprattutto con la sua Geschichte der Synoptischen Tradition (1921); ma anche con il volume Jesus del 1926, e, in misura ancor più ridotta, con la trentina di pagine dedicate alla predicazione di Gesù nella sua Teologia del Nuovo Testamento.
venerdì 27 giugno 2008
domenica 22 giugno 2008
Attesa imminente ed "errore" di Gesù. Il dato storico e il "problema" teologico.
Vorrei rispondere qui, in “prima pagina”, a una questione postami in un commento al precedente post, quella del carattere problematico dell’attesa escatologica imminente di Gesù.
Con essa si intende il fatto che Gesù guardasse alla venuta del Regno di Dio non solo come a un evento futuro (meno che mai indefinitamente futuro, al punto da inglobare 2000 anni!), oltre che già presente, ma precisamente come un evento futuro IMMINENTE, appunto in quanto ha già fatto irruzione … e quando il fico mette le foglie, l’estate non tarda (meno che mai di 2000 anni).
Ora, questa nota dell’imminenza è un dato assolutamente innegabile della tradizione più antica, e i soli “storici” che la negano a Gesù (attribuendola alla comunità post-pasquale) sono quelli che fanno riferimento al Jesus Seminar. Consultate Meier, Sanders, Theissen, Schlosser e tutti gli altri migliori studiosi del Gesù storico e vedrete l’aspettativa imminente chiaramente affermata.
Lo studioso cattolico Bruce Malina (pioniere dell’applicazione degli studi antropologici a quelli biblici) addirittura afferma che un’ ottica di futuro distante o remoto era semplicemente estranea alle categorie mentali di un contadino mediterraneo, la cui attenzione si concentrava sul presente o, al più, sul futuro concepito come necessariamente imminente.
Ed è questa aspettativa escatologica imminente a cui un bravo teologo come Paolo Gamberini si riferisce quando scrive: “Gesù pensava che Dio nell’immediato futuro avrebbe agito in maniera ancora più profonda, creando cieli e terra nuovi. Avrebbe restaurato le dodici tribù di Israele, e la pace e la giustizia avrebbero prevalso. Gesù non si aspettava dunque una fine del mondo nel senso di distruzione, ma una trasformazione per opera del diretto intervento di Dio secondo lo spirito del Libro dei Giubilei, in cui si fa menzione di un nuovo tempio. La realtà cosmica e celeste, attesa da Gesù, non esclude la risurrezione dei morti” (…) Se da un lato deve essere esclusa una comprensione politica e militare del regno di Dio (messianismo davidico) da un altro bisogna evitare di comprendere il Regno come un semplice riordinamento o svelamento del mondo presente. Dio sta irrompendo ora nel presente, ma di più si sta preparando nel futuro: questo “magis” è di carattere cosmico e sociale e in esso i peccatori e tutti coloro che stanno ai margini troveranno un posto”(P. Gamberini, Questo Gesù, EDB, Bologna, 2005, p. 93).
Questo è il regno di Dio che Gesù ritiene già aver fatto irruzione con la sua stessa persona e ministero, e che sarebbe presto “sbocciato” in tutta la sua pienezza, tanto presto quanto l’estate segue alla comparsa delle foglie del fico: un regno di dimensioni indubbiamente cosmiche e miracolose (risurrezione dei morti, ritorno delle dieci tribù perdute d’Israele), ma anche politiche (romani ed erodiani avrebbero lasciato il posto a una nuova modalità di esercizio del potere - come servizio – i cui rappresentati sarebbero stati i Dodici discepoli di Gesù) e sociali (i peccatori e tutti coloro che vivono ai margini vi avrebbero partecipato e ai primi posti).
Ora, questo Regno, quale Gesù lo concepiva, è semplicemente un fatto che non venne mai.
Ciò che venne è la risurrezione di Gesù stesso (che diede un ulteriore impulso escatologico ai discepoli: “se Gesù è risorto, allora la fine dei tempi è già iniziata!) e la conseguente formazione della Chiesa come “Israele escatologico” ora aperto anche alle Genti (conformemente ad una particolare linea tra le concezioni escatologiche giudaiche).
Ma ciò non è propriamente ciò che Gesù aveva annunciato e si attendeva. Dunque come stanno le cose: Gesù si è sbagliato? Sì? No? Totalmente? In parte? In che senso? E’ un errore grave? Va a contraddire la sua divinità, il suo essere il “rivelatore”? O è solo un errore umano, segno della autenticità e integrità della kenosi e dell’incarnazione del Verbo?
Questi sono interrogativi teologici e io – che, almeno in questo blog, teologo non vorrei essere – lascio dunque la parola a due teologi (Pannenberg – protestante – Rahner - cattolico) e a un biblista (Ben Meyer - cattolico. N.B. Ben Meyer non è John Paul Meier! Si tratta di un eccellente neotestamentarista deceduto nella metà degli anni '90, discepolo dichiarato – in materia di epistemologia – di Bernard Lonergan, ma purtroppo praticamente ignoto in Italia – la sua opera principale è The Aims of Jesus, 1979).
PANNENBERG:
“Non c’è alcun dubbio che Gesù si sia sbagliato annunciando che la signoria di Dio avrebbe avuto inizio nella sua stessa generazione. La fine del mondo non si verificò né nella generazione di Gesù né in quella dei discepoli, i testimoni della risurrezione. Qui ci troviamo di fronte al noto problema del ritardo della parusia, il problema dei duemila anni da allora trascorsi senza che giungesse la fine del mondo e la signoria universale di Dio.
L’aspettativa imminente di Gesù non rimase, tuttavia, incompiuta. Trovò compimento nel solo modo secondo cui sia possibile parlare del compimento di proclamazioni e promesse profetiche, ossia, in modo tale che il senso originale della profezia venga rivisto a partire da un evento che corrisponde ad essa, ma nondimeno presenta un carattere più o meno differente rispetto a ciò che poteva essere conosciuto dalla profezia stessa. Il messaggio pasquale cristiano testimonia questa modalità di adempimento dell’aspettativa imminente di Gesù. Essa fu compiuta da lui stesso, nella misura in cui la realtà escatologica della risurrezione dei morti comparve in Gesù stesso”.
(W. Pannenberg, Jesus – God and Man, SCM Press, London, 2002, p. 251 - traduzione mia)
RAHNER:
“Il suo rapporto verso Dio dato a lui e (solo) in lui, Gesù lo oggettiva e lo verbalizza per sé e per I suoi uditori mediante quell ache viene detta apocalittica, attesa prossima ed escatologica del presente.
(…) Se uno trascura la questione lasciata aperta da Gesù circa il senso ultimo del “presto” del veniente giorno di JHWH (…) allora egli può parlare di un “errore” nell’attesa prossima nutrita da Gesù, il quale in questo “errore” avrebbe solo condiviso il nostro destino, perché per l’uomo storico, e dunque anche per Gesù, è meglio “errare” così piuttosto che essere già a conoscenza di tutto. Se però presupponiamo e conserviamo l’esatto concetto ontologico-esistenziale di “errore”, non c’è motivo di parlare di un errore di Gesù nella sua attesa prossima: una coscienza autenticamente umana deve avere davanti a sé un futuro ignoto. L’attesa prossima nutrita da Gesù era per lui il vero modo nel quale egli doveva cogliere nella sua situazione la vicinanza di Dio chiamante a una decisione incondizionata.
(K. Rahner, Corso fondamentale sulla fede, San Paolo, Cinisello Balsamo, 1990, p. 324-25)
BEN MEYER:
“Ci sono alcune caratteristiche distintive ricorrenti nella profezia biblica (…). Appartiene al fenomeno della profezia biblica che messaggi riguardanti il futuro siano espressi in simboli (…). La sua [di Gesù] parola sul futuro prevedeva un dramma, simbolicamente caratterizzato, in due atti di crisi e risoluzione. La crisi era la tribolazione escatologica inaugurata dal suo stesso ripudio e dalla sua sofferenza. La risoluzione era il giorno del Figlio dell’uomo che avrebbe posto fine alla tribolazione con il trionfo del regno di Dio.
La tesi che propongo fa leva sulla natura della profezia. Nella profezia, ciò che viene inteso con il simbolo, è ciò che Dio, in nome del quale il profeta parla, intende. Ciò evidentemente non fa mai ingresso negli orizzonti e nelle prospettiva del profeta sotto la forma di conoscenza determinata del futuro. La questione “Gesù si sbagliò riguardo al futuro?” dovrebbe pertanto essere riformulata nella seguente: “Gesù aveva una conoscenza determinata di ciò che Dio intendeva mediante lo schema simbolico che Gesù era incaricato di annunciare?”. La risposta a questa questione sembra essere abbastanza chiaramente: no.
(…) Perché mai dovremmo pensare della profezia, nella misura in cui riguarda il futuro, come un tipo di conoscenza empirica per anticipazione? Nulla nella letteratura profetica suggerisce che la conoscenza profetica abbia questa natura. Non dovremmo immaginare in modo “naif” che qualunque profeta abbia mai avuto davanti al suo sguardo interiore quel genere di scenario che la storia potrebbe poi letteralmente seguire. (…) Tutta la profezia parla nella lingua del simbolo. C’è una irriducibile disparità tra questa lingua e e gli eventi effettivi. Tale disparità non è descritta correttamente come “errore”. Nessuno dei profeti si è sbagliato, meno che mai il più grande di essi.
(B. Meyer, Christus Faber. The Master-Builder & the House of God, Pickwick Publications, Allison Park,1992, p. 54-56 - traduzione mia)
[Sul problema dell' "attesa imminente" si può inoltre consultare la decina di pagine che ad esso dedica Heinrich Fries - il grande "padre" della teologia fondamentale cattolica -, nella sua Teologia fondamentale (Queriniana, Brescia, 1987 - volume purtroppo esaurito). Fries, tra le altre cose, cita (evidentemente approvandolo) un brano di Essere cristiani di Hans Kung, dove si dice "Gesù parlò in modo ovvio all’interno di una cornice di riferimento apocalittica e nelle forme concettuali del suo tempo. Questa cornice di comprensione è stata resa obsoleta dallo sviluppo storico, l’orizzonte apocalittico è svanito – questo deve essere chiaro. Dalla prospettiva del nostro tempo, dobbiamo dire: circa la questione dell’attesa imminente, si ha meno a che fare con un errore che con un modo temporalmente condizionato di guardare al mondo, che Gesù condivideva con i suoi contemporanei".]
E io?
Io diciamo che inclino verso Pannenberg.
Tuttavia trovo accattivante la pista di soluzione rahneriana, secondo cui l'attesa imminente, propria dell'apocalittica, fatta propria da Gesù, sarebbe una traduzione categoriale, secondo appunto le categorie culturali di cui egli poteva disporre, della sua costituzione ontologica profonda, totalmente relativa al Padre. Non solo un Dio-Abbà, dunque, ma un Dio-Abbà che, proprio perché tale, non può fare altro che venire presto, prestissimo.
P.S. per Lypocodium: nei commenti del post precedente ho appena aggiunto la risposta alla questione dell' "insight" di Gesù.
Con essa si intende il fatto che Gesù guardasse alla venuta del Regno di Dio non solo come a un evento futuro (meno che mai indefinitamente futuro, al punto da inglobare 2000 anni!), oltre che già presente, ma precisamente come un evento futuro IMMINENTE, appunto in quanto ha già fatto irruzione … e quando il fico mette le foglie, l’estate non tarda (meno che mai di 2000 anni).
Ora, questa nota dell’imminenza è un dato assolutamente innegabile della tradizione più antica, e i soli “storici” che la negano a Gesù (attribuendola alla comunità post-pasquale) sono quelli che fanno riferimento al Jesus Seminar. Consultate Meier, Sanders, Theissen, Schlosser e tutti gli altri migliori studiosi del Gesù storico e vedrete l’aspettativa imminente chiaramente affermata.
Lo studioso cattolico Bruce Malina (pioniere dell’applicazione degli studi antropologici a quelli biblici) addirittura afferma che un’ ottica di futuro distante o remoto era semplicemente estranea alle categorie mentali di un contadino mediterraneo, la cui attenzione si concentrava sul presente o, al più, sul futuro concepito come necessariamente imminente.
Ed è questa aspettativa escatologica imminente a cui un bravo teologo come Paolo Gamberini si riferisce quando scrive: “Gesù pensava che Dio nell’immediato futuro avrebbe agito in maniera ancora più profonda, creando cieli e terra nuovi. Avrebbe restaurato le dodici tribù di Israele, e la pace e la giustizia avrebbero prevalso. Gesù non si aspettava dunque una fine del mondo nel senso di distruzione, ma una trasformazione per opera del diretto intervento di Dio secondo lo spirito del Libro dei Giubilei, in cui si fa menzione di un nuovo tempio. La realtà cosmica e celeste, attesa da Gesù, non esclude la risurrezione dei morti” (…) Se da un lato deve essere esclusa una comprensione politica e militare del regno di Dio (messianismo davidico) da un altro bisogna evitare di comprendere il Regno come un semplice riordinamento o svelamento del mondo presente. Dio sta irrompendo ora nel presente, ma di più si sta preparando nel futuro: questo “magis” è di carattere cosmico e sociale e in esso i peccatori e tutti coloro che stanno ai margini troveranno un posto”(P. Gamberini, Questo Gesù, EDB, Bologna, 2005, p. 93).
Questo è il regno di Dio che Gesù ritiene già aver fatto irruzione con la sua stessa persona e ministero, e che sarebbe presto “sbocciato” in tutta la sua pienezza, tanto presto quanto l’estate segue alla comparsa delle foglie del fico: un regno di dimensioni indubbiamente cosmiche e miracolose (risurrezione dei morti, ritorno delle dieci tribù perdute d’Israele), ma anche politiche (romani ed erodiani avrebbero lasciato il posto a una nuova modalità di esercizio del potere - come servizio – i cui rappresentati sarebbero stati i Dodici discepoli di Gesù) e sociali (i peccatori e tutti coloro che vivono ai margini vi avrebbero partecipato e ai primi posti).
Ora, questo Regno, quale Gesù lo concepiva, è semplicemente un fatto che non venne mai.
Ciò che venne è la risurrezione di Gesù stesso (che diede un ulteriore impulso escatologico ai discepoli: “se Gesù è risorto, allora la fine dei tempi è già iniziata!) e la conseguente formazione della Chiesa come “Israele escatologico” ora aperto anche alle Genti (conformemente ad una particolare linea tra le concezioni escatologiche giudaiche).
Ma ciò non è propriamente ciò che Gesù aveva annunciato e si attendeva. Dunque come stanno le cose: Gesù si è sbagliato? Sì? No? Totalmente? In parte? In che senso? E’ un errore grave? Va a contraddire la sua divinità, il suo essere il “rivelatore”? O è solo un errore umano, segno della autenticità e integrità della kenosi e dell’incarnazione del Verbo?
Questi sono interrogativi teologici e io – che, almeno in questo blog, teologo non vorrei essere – lascio dunque la parola a due teologi (Pannenberg – protestante – Rahner - cattolico) e a un biblista (Ben Meyer - cattolico. N.B. Ben Meyer non è John Paul Meier! Si tratta di un eccellente neotestamentarista deceduto nella metà degli anni '90, discepolo dichiarato – in materia di epistemologia – di Bernard Lonergan, ma purtroppo praticamente ignoto in Italia – la sua opera principale è The Aims of Jesus, 1979).
PANNENBERG:
“Non c’è alcun dubbio che Gesù si sia sbagliato annunciando che la signoria di Dio avrebbe avuto inizio nella sua stessa generazione. La fine del mondo non si verificò né nella generazione di Gesù né in quella dei discepoli, i testimoni della risurrezione. Qui ci troviamo di fronte al noto problema del ritardo della parusia, il problema dei duemila anni da allora trascorsi senza che giungesse la fine del mondo e la signoria universale di Dio.
L’aspettativa imminente di Gesù non rimase, tuttavia, incompiuta. Trovò compimento nel solo modo secondo cui sia possibile parlare del compimento di proclamazioni e promesse profetiche, ossia, in modo tale che il senso originale della profezia venga rivisto a partire da un evento che corrisponde ad essa, ma nondimeno presenta un carattere più o meno differente rispetto a ciò che poteva essere conosciuto dalla profezia stessa. Il messaggio pasquale cristiano testimonia questa modalità di adempimento dell’aspettativa imminente di Gesù. Essa fu compiuta da lui stesso, nella misura in cui la realtà escatologica della risurrezione dei morti comparve in Gesù stesso”.
(W. Pannenberg, Jesus – God and Man, SCM Press, London, 2002, p. 251 - traduzione mia)
RAHNER:
“Il suo rapporto verso Dio dato a lui e (solo) in lui, Gesù lo oggettiva e lo verbalizza per sé e per I suoi uditori mediante quell ache viene detta apocalittica, attesa prossima ed escatologica del presente.
(…) Se uno trascura la questione lasciata aperta da Gesù circa il senso ultimo del “presto” del veniente giorno di JHWH (…) allora egli può parlare di un “errore” nell’attesa prossima nutrita da Gesù, il quale in questo “errore” avrebbe solo condiviso il nostro destino, perché per l’uomo storico, e dunque anche per Gesù, è meglio “errare” così piuttosto che essere già a conoscenza di tutto. Se però presupponiamo e conserviamo l’esatto concetto ontologico-esistenziale di “errore”, non c’è motivo di parlare di un errore di Gesù nella sua attesa prossima: una coscienza autenticamente umana deve avere davanti a sé un futuro ignoto. L’attesa prossima nutrita da Gesù era per lui il vero modo nel quale egli doveva cogliere nella sua situazione la vicinanza di Dio chiamante a una decisione incondizionata.
(K. Rahner, Corso fondamentale sulla fede, San Paolo, Cinisello Balsamo, 1990, p. 324-25)
BEN MEYER:
“Ci sono alcune caratteristiche distintive ricorrenti nella profezia biblica (…). Appartiene al fenomeno della profezia biblica che messaggi riguardanti il futuro siano espressi in simboli (…). La sua [di Gesù] parola sul futuro prevedeva un dramma, simbolicamente caratterizzato, in due atti di crisi e risoluzione. La crisi era la tribolazione escatologica inaugurata dal suo stesso ripudio e dalla sua sofferenza. La risoluzione era il giorno del Figlio dell’uomo che avrebbe posto fine alla tribolazione con il trionfo del regno di Dio.
La tesi che propongo fa leva sulla natura della profezia. Nella profezia, ciò che viene inteso con il simbolo, è ciò che Dio, in nome del quale il profeta parla, intende. Ciò evidentemente non fa mai ingresso negli orizzonti e nelle prospettiva del profeta sotto la forma di conoscenza determinata del futuro. La questione “Gesù si sbagliò riguardo al futuro?” dovrebbe pertanto essere riformulata nella seguente: “Gesù aveva una conoscenza determinata di ciò che Dio intendeva mediante lo schema simbolico che Gesù era incaricato di annunciare?”. La risposta a questa questione sembra essere abbastanza chiaramente: no.
(…) Perché mai dovremmo pensare della profezia, nella misura in cui riguarda il futuro, come un tipo di conoscenza empirica per anticipazione? Nulla nella letteratura profetica suggerisce che la conoscenza profetica abbia questa natura. Non dovremmo immaginare in modo “naif” che qualunque profeta abbia mai avuto davanti al suo sguardo interiore quel genere di scenario che la storia potrebbe poi letteralmente seguire. (…) Tutta la profezia parla nella lingua del simbolo. C’è una irriducibile disparità tra questa lingua e e gli eventi effettivi. Tale disparità non è descritta correttamente come “errore”. Nessuno dei profeti si è sbagliato, meno che mai il più grande di essi.
(B. Meyer, Christus Faber. The Master-Builder & the House of God, Pickwick Publications, Allison Park,1992, p. 54-56 - traduzione mia)
[Sul problema dell' "attesa imminente" si può inoltre consultare la decina di pagine che ad esso dedica Heinrich Fries - il grande "padre" della teologia fondamentale cattolica -, nella sua Teologia fondamentale (Queriniana, Brescia, 1987 - volume purtroppo esaurito). Fries, tra le altre cose, cita (evidentemente approvandolo) un brano di Essere cristiani di Hans Kung, dove si dice "Gesù parlò in modo ovvio all’interno di una cornice di riferimento apocalittica e nelle forme concettuali del suo tempo. Questa cornice di comprensione è stata resa obsoleta dallo sviluppo storico, l’orizzonte apocalittico è svanito – questo deve essere chiaro. Dalla prospettiva del nostro tempo, dobbiamo dire: circa la questione dell’attesa imminente, si ha meno a che fare con un errore che con un modo temporalmente condizionato di guardare al mondo, che Gesù condivideva con i suoi contemporanei".]
E io?
Io diciamo che inclino verso Pannenberg.
Tuttavia trovo accattivante la pista di soluzione rahneriana, secondo cui l'attesa imminente, propria dell'apocalittica, fatta propria da Gesù, sarebbe una traduzione categoriale, secondo appunto le categorie culturali di cui egli poteva disporre, della sua costituzione ontologica profonda, totalmente relativa al Padre. Non solo un Dio-Abbà, dunque, ma un Dio-Abbà che, proprio perché tale, non può fare altro che venire presto, prestissimo.
P.S. per Lypocodium: nei commenti del post precedente ho appena aggiunto la risposta alla questione dell' "insight" di Gesù.
mercoledì 18 giugno 2008
Lettera aperta a un vescovo di Spagna. Quando ad essere scomunicata è la storia.
Due post fa, ho evidenziato come la teologia cattolica stia sostanzialmente recependo i contributi di quella corrente di studi che, benché in modo non troppo significativo, viene denominata “Third Quest”.
Ora, ciò che ho messo in luce in quel post è e rimane vero.
Ad es., sto leggendo l’introduzione alla cristologia del padre gesuita Thomas Rausch, Who is Jesus? Liturgical Press, Collegeville, 2003 (opera decisamente divulgativa, ma proprio per questo significativa), e non posso fare a meno di stupirmi piacevolmente dell’ampio spazio che l’Autore dedica alla presentazione storica del contesto giudaico, del movimento di Gesù in connessione con quello di Giovanni e del ministero vero e proprio di Gesù … e tutto questo – udite udite! – senza dedicare neanche un paragrafo alla più classica delle questione cristologiche: i “titoli” di Figlio di Dio, Figlio dell’uomo, Messia.
Tuttavia è con grande amarezza e preoccupazione che devo riferire di un importante e grave caso in controtendenza con quanto ho esposto. Un caso in cui, per la verità, non si tratta nemmeno di recepire o rifiutare la “Third Quest”, bensì in cui ad essere in gioco è la legittimità tout court della ricerca storica su Gesù.
Ora, ciò che ho messo in luce in quel post è e rimane vero.
Ad es., sto leggendo l’introduzione alla cristologia del padre gesuita Thomas Rausch, Who is Jesus? Liturgical Press, Collegeville, 2003 (opera decisamente divulgativa, ma proprio per questo significativa), e non posso fare a meno di stupirmi piacevolmente dell’ampio spazio che l’Autore dedica alla presentazione storica del contesto giudaico, del movimento di Gesù in connessione con quello di Giovanni e del ministero vero e proprio di Gesù … e tutto questo – udite udite! – senza dedicare neanche un paragrafo alla più classica delle questione cristologiche: i “titoli” di Figlio di Dio, Figlio dell’uomo, Messia.
Tuttavia è con grande amarezza e preoccupazione che devo riferire di un importante e grave caso in controtendenza con quanto ho esposto. Un caso in cui, per la verità, non si tratta nemmeno di recepire o rifiutare la “Third Quest”, bensì in cui ad essere in gioco è la legittimità tout court della ricerca storica su Gesù.
Mi sto riferendo alla sconcertante polemica in atto in Spagna contro il libro del sacerdote e professore José Antonio Pagola: Jesus. Aproximacion historica (Ppc, Madrid, 2007, pag. 540).
Non si tratta semplicemente di un caso analogo a quello che qui da noi ha visto studiosi ecclesiastici come Cantalamessa e De Rosa criticare aspramente il lavoro di Mauro Pesce e Corrado Augias.
Finché infatti si tratta di critiche di semplici studiosi – non importa quanto ecclesiasticamente rappresentativi - , va benissimo: nessuno contesta ad un biblista o a un teologo il diritto di essere in disaccordo con il lavoro di uno storico. Grave, anzi gravissimo, sarebbe tuttavia se la critica provenisse non più da un biblista o da un teologo privato, bensì da un vescovo, ossia dal massimo grado di autorità esistente nella Chiesa.
Ebbene, purtroppo, questo è proprio ciò che è avvenuto in Spagna grazie al vescovo di Tarazona mons. Demetrio Fernandez. Ex-docente di cristologia all’Istituto Teologico di Toledo, Fernandez ha ritenuto di dover ricorrere addirittura ad una nota ufficiale pur di mettere al sicuro le pecorelle della sua diocesi “piccola e umile, che vive, come tutte, influenzata dai fenomeni di massa, tante volte provocati con grande apparato mediatico” dalle sottili insidie del libro di Pagola che (con ben otto edizioni nei soli primi sei mesi!) rischia di seminare confusione e di arrecare un considerevole danno, specialmente alla fede dei più semplici. “Il libro di Pagola farà danno” – così s’intitola, significativamente, la nota del vescovo iberico.
Ma perché mai farà danno? Cosa c’è di così pericoloso e inaccettabile nel lavoro del professore e sacerdote della diocesi di San Sebastian? Essenzialmente questo: che “il Gesù di Pagola non è il Gesù della fede della Chiesa”.
Non si tratta semplicemente di un caso analogo a quello che qui da noi ha visto studiosi ecclesiastici come Cantalamessa e De Rosa criticare aspramente il lavoro di Mauro Pesce e Corrado Augias.
Finché infatti si tratta di critiche di semplici studiosi – non importa quanto ecclesiasticamente rappresentativi - , va benissimo: nessuno contesta ad un biblista o a un teologo il diritto di essere in disaccordo con il lavoro di uno storico. Grave, anzi gravissimo, sarebbe tuttavia se la critica provenisse non più da un biblista o da un teologo privato, bensì da un vescovo, ossia dal massimo grado di autorità esistente nella Chiesa.
Ebbene, purtroppo, questo è proprio ciò che è avvenuto in Spagna grazie al vescovo di Tarazona mons. Demetrio Fernandez. Ex-docente di cristologia all’Istituto Teologico di Toledo, Fernandez ha ritenuto di dover ricorrere addirittura ad una nota ufficiale pur di mettere al sicuro le pecorelle della sua diocesi “piccola e umile, che vive, come tutte, influenzata dai fenomeni di massa, tante volte provocati con grande apparato mediatico” dalle sottili insidie del libro di Pagola che (con ben otto edizioni nei soli primi sei mesi!) rischia di seminare confusione e di arrecare un considerevole danno, specialmente alla fede dei più semplici. “Il libro di Pagola farà danno” – così s’intitola, significativamente, la nota del vescovo iberico.
Ma perché mai farà danno? Cosa c’è di così pericoloso e inaccettabile nel lavoro del professore e sacerdote della diocesi di San Sebastian? Essenzialmente questo: che “il Gesù di Pagola non è il Gesù della fede della Chiesa”.
Mons. Fernandez vede il tentativo di Pagola guastato dalla tecnica della demitizzazione promossa da Bultmann, e fatta propria - afferma - da diversi altri autori, come Schillebeeckx e Sobrino; si tratta, in sostanza, di “applicare acriticamente il metodo storico-critico (in sé stesso valido, ma con i suoi limiti) selezionando quello che quadra con l’a-priori che uno si è formato”.
Secondo il Vescovo di Tarazona, “lungo questa via possiamo presentare un Gesù a nostra misura e a nostro gusto, e farlo per di più con gli argomenti della critica storica. Tuttavia questo Gesù deve sottomettersi criticamente alla fede della Chiesa. Detto chiaramente, in questo modo si presenta un Gesù nel quale si selezionano alcuni tratti, se ne ampliano altri, se ne sopprimono molti, senza nessun riferimento alla fede della Chiesa che in maniera viva ci ha trasmesso lungo il corso dei secoli il Gesù Cristo autentico, l’unico che può salvare”.
Il libro di Pagola è quindi colpevole di un “silenzio totale sulla riflessione che la Chiesa ha realizzato nel corso della storia, in modo particolare nei sette concili ecumenici della Chiesa indivisa durante il primo millennio. E’ come se la Chiesa avesse adulterato il messaggio e dovessimo così raggiungere le fonti più pure per incontrare di nuovo il Gesù perduto – e tutto questo con il pretesto della storicità”.
Secondo mons. Fernandez, nel corso dell’opera appare continuamente la grande “tentazione ariana” con cui Gesù viene ridotto ad un uomo sì eccezionale, ma non consustanziale al Padre.
Di fronte a tentazioni del genere, Fernandez sente il dovere di riaffermare a chiare lettere che, a dispetto dei silenzi di Pagola [sottolineo: silenzi, non negazioni!] “Gesù sapeva di essere Dio” e che “ha avuto coscienza della sua morte redentrice”, offrendo la sua vita in riscatto per tutti e come riparazione all’offesa arrecata a Dio dal peccato.
Infine, il vescovo di Tarazona, rinvia le proprie pecorelle ad una serie di più ampie e altrettanto distruttive recensioni del libro di Pagola, scritte da vari teologi e ospitate in una apposita sezione del sito della diocesi.
Quella del docente di cristologia José Antonio Sayes, ad es., riprende e amplia la linea critica del Vescovo, allorché rimprovera Pagola rammentandogli che “ciò che deve fare un teologo non è eliminare i dati della Scrittura e della Tradizione. Così non si fa teologia” e denunciando come “la categoria che domina questa gesuologia (e non cristologia) è quella di una “esperienza” immanentista priva di capacità di confessare che il Verbo, seconda persona della Trinità, è entrato veramente nella storia per divinizzarci in Cristo e liberarci dalla schiavitù del peccato”.
[annoto anche che Sayes, oltre ad affermare cose del tipo che il metodo della “cristologia implicita”, da Pagola non utilizzato, porterebbe a riconoscere che Gesù “si presenta come Dio costantemente” – mettendo così sottosopra il concetto di cristologia implicita e rendendolo una farsa - o a richiamarsi tranquillamente a detti giovannei come testimonianza della coscienza di Gesù della propria divinità, riesce persino nell’impresa di sostenere che “Gesù Cristo si mostra come Dio quando afferma di sé stesso di essere il Figlio dell’uomo che viene sopra le nubi del cielo”, stuprando così il concetto di “Messia sovrumano” – indipendentemente dalla questione della sua gesuanità - con buona pace degli enochici (cf. il Libro delle Parabole, in cui Enoc viene identificato come il Figlio dell’uomo) ].
Ora, a mons. Fernandez e ai "suoi" teologi, io vorrei chiedere soltanto una cosa: PERCHE’?
Perché questa consapevole falsità e menzogna nel denunciare, nello stroncare e nel bandire un libro per ciò che esso NON E’ ? Diteci, ve ne preghiamo, perché mai uno studioso – sacerdote o laico che sia – che volesse scrivere un libro su Gesù da un punto di vista rigorosamente STORICO, perché mai costui dovrebbe essere tenuto a fondare la propria ricostruzione sulla dottrina ecclesiale, perché mai dovrebbe svolgere il proprio lavoro in riferimento ai sette concili ecumenici della Chiesa indivisa, perché mai dovrebbe sottomettere criticamente alla fede della Chiesa il Gesù STORICO che egli riesce a raggiungere?
Diteci per quale assurda ragione uno storico deve veder stroncato il proprio libro con il rimprovero che “così non si fa teologia” (!!) e sentirsi accusato per una metodologia incapace di “confessare che il Verbo, seconda persona della Trinità, è entrato veramente nella storia”.
Perché, reverendi studiosi e monsignori, state rinnegando in un solo colpo quarant’anni e più di dialogo e sinergia della teologia cattolica con il metodo storico-critico? Perché volete insegnare e ammonire i vostri fedeli che il tentativo di accostarsi a Gesù secondo da una prospettiva storica è illegittimo e incompatibile con la fede?
Secondo il Vescovo di Tarazona, “lungo questa via possiamo presentare un Gesù a nostra misura e a nostro gusto, e farlo per di più con gli argomenti della critica storica. Tuttavia questo Gesù deve sottomettersi criticamente alla fede della Chiesa. Detto chiaramente, in questo modo si presenta un Gesù nel quale si selezionano alcuni tratti, se ne ampliano altri, se ne sopprimono molti, senza nessun riferimento alla fede della Chiesa che in maniera viva ci ha trasmesso lungo il corso dei secoli il Gesù Cristo autentico, l’unico che può salvare”.
Il libro di Pagola è quindi colpevole di un “silenzio totale sulla riflessione che la Chiesa ha realizzato nel corso della storia, in modo particolare nei sette concili ecumenici della Chiesa indivisa durante il primo millennio. E’ come se la Chiesa avesse adulterato il messaggio e dovessimo così raggiungere le fonti più pure per incontrare di nuovo il Gesù perduto – e tutto questo con il pretesto della storicità”.
Secondo mons. Fernandez, nel corso dell’opera appare continuamente la grande “tentazione ariana” con cui Gesù viene ridotto ad un uomo sì eccezionale, ma non consustanziale al Padre.
Di fronte a tentazioni del genere, Fernandez sente il dovere di riaffermare a chiare lettere che, a dispetto dei silenzi di Pagola [sottolineo: silenzi, non negazioni!] “Gesù sapeva di essere Dio” e che “ha avuto coscienza della sua morte redentrice”, offrendo la sua vita in riscatto per tutti e come riparazione all’offesa arrecata a Dio dal peccato.
Infine, il vescovo di Tarazona, rinvia le proprie pecorelle ad una serie di più ampie e altrettanto distruttive recensioni del libro di Pagola, scritte da vari teologi e ospitate in una apposita sezione del sito della diocesi.
Quella del docente di cristologia José Antonio Sayes, ad es., riprende e amplia la linea critica del Vescovo, allorché rimprovera Pagola rammentandogli che “ciò che deve fare un teologo non è eliminare i dati della Scrittura e della Tradizione. Così non si fa teologia” e denunciando come “la categoria che domina questa gesuologia (e non cristologia) è quella di una “esperienza” immanentista priva di capacità di confessare che il Verbo, seconda persona della Trinità, è entrato veramente nella storia per divinizzarci in Cristo e liberarci dalla schiavitù del peccato”.
[annoto anche che Sayes, oltre ad affermare cose del tipo che il metodo della “cristologia implicita”, da Pagola non utilizzato, porterebbe a riconoscere che Gesù “si presenta come Dio costantemente” – mettendo così sottosopra il concetto di cristologia implicita e rendendolo una farsa - o a richiamarsi tranquillamente a detti giovannei come testimonianza della coscienza di Gesù della propria divinità, riesce persino nell’impresa di sostenere che “Gesù Cristo si mostra come Dio quando afferma di sé stesso di essere il Figlio dell’uomo che viene sopra le nubi del cielo”, stuprando così il concetto di “Messia sovrumano” – indipendentemente dalla questione della sua gesuanità - con buona pace degli enochici (cf. il Libro delle Parabole, in cui Enoc viene identificato come il Figlio dell’uomo) ].
Ora, a mons. Fernandez e ai "suoi" teologi, io vorrei chiedere soltanto una cosa: PERCHE’?
Perché questa consapevole falsità e menzogna nel denunciare, nello stroncare e nel bandire un libro per ciò che esso NON E’ ? Diteci, ve ne preghiamo, perché mai uno studioso – sacerdote o laico che sia – che volesse scrivere un libro su Gesù da un punto di vista rigorosamente STORICO, perché mai costui dovrebbe essere tenuto a fondare la propria ricostruzione sulla dottrina ecclesiale, perché mai dovrebbe svolgere il proprio lavoro in riferimento ai sette concili ecumenici della Chiesa indivisa, perché mai dovrebbe sottomettere criticamente alla fede della Chiesa il Gesù STORICO che egli riesce a raggiungere?
Diteci per quale assurda ragione uno storico deve veder stroncato il proprio libro con il rimprovero che “così non si fa teologia” (!!) e sentirsi accusato per una metodologia incapace di “confessare che il Verbo, seconda persona della Trinità, è entrato veramente nella storia”.
Perché, reverendi studiosi e monsignori, state rinnegando in un solo colpo quarant’anni e più di dialogo e sinergia della teologia cattolica con il metodo storico-critico? Perché volete insegnare e ammonire i vostri fedeli che il tentativo di accostarsi a Gesù secondo da una prospettiva storica è illegittimo e incompatibile con la fede?
Perché volete negarci la possibilità di distinguere – non separare! – il Gesù della storia dal Cristo della fede? Perché volete ricondurre i vostri fedeli in uno stato di minorità, impedendo loro di fare storia secondo i criteri e i metodi propri della disciplina storica e comunemente in uso?
Che cos’è – vi prego di spiegarcelo - questo metodo storico che, per essere serio e scientifico, dovrebbe non prescindere dalla fede? Che cosa volete dire con ciò? Che non è possibile guardare alla fede depositata nei testi neotestamentari pregiudizialmente, come a una distorsione e falsificazione del messaggio di Gesù? Se è questo che intendete, sono certamente d’accordo.
Che cos’è – vi prego di spiegarcelo - questo metodo storico che, per essere serio e scientifico, dovrebbe non prescindere dalla fede? Che cosa volete dire con ciò? Che non è possibile guardare alla fede depositata nei testi neotestamentari pregiudizialmente, come a una distorsione e falsificazione del messaggio di Gesù? Se è questo che intendete, sono certamente d’accordo.
Ma è veramente solo questo che volete dire, o, come mi sembra, state avanzando una pretesa molto diversa e di ben altra portata: che cioè non sia possibile accostarsi al Gesù storico prescindendo dalla fede della Chiesa, quale è andata sviluppandosi nella tradizione e nei grandi concili – è questo dunque che state suggerendo?
E allora avanti, coraggio, scrivetecela direttamente voi, dettatela direttamente voi agli storici, “dall’alto”, questa storia di Gesù!
E allora avanti, coraggio, scrivetecela direttamente voi, dettatela direttamente voi agli storici, “dall’alto”, questa storia di Gesù!
Questo Gesù di cui non si può dire che attendesse il Regno di Dio, e che guardasse ad esso come alla soluzione per la crisi sociale e politica del suo tempo, per il semplice fatto che il regno di Dio non era nient’altro che lui stesso, l’autobasileia; questo Gesù di cui non si può dire – come fa Pagola – che fu “un credente fedele”, poiché egli sapeva benissimo di essere Dio, la seconda persona della Trinità discesa sulla terra per espiare i peccati degli uomini; questo Gesù di cui non si può dire che fosse un profeta ebreo con la missione di radunare e restaurare Israele nella imminente e già sopraggiunta ora escatologica, poiché egli era venuto invece a fondare la Chiesa, fornendole perfino l’ordinamento giuridico necessario per la sua futura millenaria esistenza (alla faccia dell’eschaton).
Perché, perché fate questo? Sì, lo sappiamo benissimo che “i semplici” potrebbero sentirsi smarriti e turbati, trovandosi tra le mani un libro semplicemente storico su Gesù; e questo perché essi non hanno mai nemmeno immaginato che il Gesù risorto, glorificato e dogmaticamente definito che essi adorano (e che è certo reale e vero!) potesse non essere sic et simpliciter il Gesù che camminava per le vie della Galilea. E so benissimo che non è semplice spiegarlo, anzi è un lavoro ingrato.
Ma voi che fate? Vi tirate indietro? Non ci provate nemmeno a raccogliere la sfida che questi tempi vi pongono? Perché? Pensate forse che Dio vi abbia abbandonati, che non cammini più insieme al suo popolo, che lo Spirito abbia esaurito il suo soffio?
Davvero pensate che l’unica soluzione sia emettere documenti ufficiali con cui rassicurare i più semplici tra i figli della Chiesa che il Gesù della fede coincide perfettamente con il Gesù della storia, condannando invece quei figli che sono un po’ meno semplici, e osano fare delle distinzioni, a passare per eretici dentro le mura di casa e per imbecilli al di fuori (in quanto pur sempre pecore di tali pastori) ?
E’ davvero questa la strada giusta?
P.S. per chi non si fosse imbattuto nel libro di José Antonio Pagola – come ritengo probabile, anche se immagino verrà tradotto ben presto anche da noi - specifico che si tratta di un’opera divulgativa, ma molto ben scritta (come riconoscono anche i detrattori – e, del resto, si fa così anche con Crossan), che si muove su un piano rigorosamente storico, rifacendosi ai risultati prodotti dai lavori di tutti i più importanti studiosi degli ultimi vent’anni.
Come ho detto, si tratta di un lavoro divulgativo: quasi mai si vede l’Autore impegnarsi personalmente nel dimostrare qualche tesi o nell’analizzare criticamente questa o quella tradizione; da questo punto di vista, Pagola è un ordinato compilatore dei risultati prodotti dalla più recente ricerca, selezionati e valorizzati attraverso quella che è la lente principale attraverso cui Pagola guarda Gesù: la dimensione di giustizia sociale della vicenda di Gesù e del Regno di Dio da lui annunciato.
Perché, perché fate questo? Sì, lo sappiamo benissimo che “i semplici” potrebbero sentirsi smarriti e turbati, trovandosi tra le mani un libro semplicemente storico su Gesù; e questo perché essi non hanno mai nemmeno immaginato che il Gesù risorto, glorificato e dogmaticamente definito che essi adorano (e che è certo reale e vero!) potesse non essere sic et simpliciter il Gesù che camminava per le vie della Galilea. E so benissimo che non è semplice spiegarlo, anzi è un lavoro ingrato.
Ma voi che fate? Vi tirate indietro? Non ci provate nemmeno a raccogliere la sfida che questi tempi vi pongono? Perché? Pensate forse che Dio vi abbia abbandonati, che non cammini più insieme al suo popolo, che lo Spirito abbia esaurito il suo soffio?
Davvero pensate che l’unica soluzione sia emettere documenti ufficiali con cui rassicurare i più semplici tra i figli della Chiesa che il Gesù della fede coincide perfettamente con il Gesù della storia, condannando invece quei figli che sono un po’ meno semplici, e osano fare delle distinzioni, a passare per eretici dentro le mura di casa e per imbecilli al di fuori (in quanto pur sempre pecore di tali pastori) ?
E’ davvero questa la strada giusta?
P.S. per chi non si fosse imbattuto nel libro di José Antonio Pagola – come ritengo probabile, anche se immagino verrà tradotto ben presto anche da noi - specifico che si tratta di un’opera divulgativa, ma molto ben scritta (come riconoscono anche i detrattori – e, del resto, si fa così anche con Crossan), che si muove su un piano rigorosamente storico, rifacendosi ai risultati prodotti dai lavori di tutti i più importanti studiosi degli ultimi vent’anni.
Come ho detto, si tratta di un lavoro divulgativo: quasi mai si vede l’Autore impegnarsi personalmente nel dimostrare qualche tesi o nell’analizzare criticamente questa o quella tradizione; da questo punto di vista, Pagola è un ordinato compilatore dei risultati prodotti dalla più recente ricerca, selezionati e valorizzati attraverso quella che è la lente principale attraverso cui Pagola guarda Gesù: la dimensione di giustizia sociale della vicenda di Gesù e del Regno di Dio da lui annunciato.
[personalmente trovo che l’accento sociale sia effettivamente calcato un po’ troppo rispetto a quello che io trovo essere il punto veramente centrale e fondante dell’annuncio di Gesù: l’escatologia imminente. Ma questo non è un gran problema].
In realtà, pur muovendosi, come ho detto, all’interno di un piano rigorosamente storico (benché in modo divulgativo), lo sguardo che Pagola getta a Gesù non è sempre quello neutrale del “puro storico” (alla Sanders) bensì uno sguardo con una certa sensibilità teologica, all’interno del quale la personalità, il comportamento e la vicenda di Gesù vengono evidenziate come modello di esistenza cristiana.
Infatti - scrive l’Autore nell’introduzione - “Non basta confessare che Gesù è l’incarnazione di Dio se poi non ci si preoccupa di sapere com’era, cosa viveva o come agiva quest’uomo nel quale Dio si è incarnato. A poco serve difendere dottrine sublimi su di lui, se non camminiamo sui suoi passi” (p. 7).
Tuttavia questa sorta di “dimensione teologica” latente nel libro (ma in modo discreto), e che probabilmente ne ha decretato pure il successo, non dà assolutamente a luogo ad alcuno spunto polemico contro la dottrina cristologica tradizionale della Chiesa.
Ed è proprio questo che rende davvero assurde le critiche del Vescovo Fernandez & Co.: Pagola si muove semplicemente al di qua della prospettiva cristologica, senza mai trarre dalla sua esposizione storica implicazioni dogmatiche di sorta, esattamente come dovrebbe fare ogni storico serio, qualunque sia la sua fede o non fede personale. Perché dunque questa “scomunica” contro Pagola, e non invece contro – fatte le debite proporzioni - Un ebreo marginale di J.P. Meier?
P.P.S. La "carta pastoral" contro il libro di José Antonio Pagola, pubblicata da mons. Fernandez, vescovo di Tarazona, può essere letta al seguente link: http://www.diocesistarazona.org/otros/dfp2.pdf.
Qui invece si possono trovare le altre recensioni di altri tre teologi (Rico Paves, Sayes, Iraburu) e del vicario episcopale di Valladold (Arguello): http://www.diocesistarazona.org/Recensiones%20Libro%20de%20Pagola.htm.
Infine, nell'ultimo numero della rivista internazionale di teologia Concilium "Gesù come il Cristo - nel crocevia delle culture" (3/2008), il teologo José Ignacio Gonzalez Faus si sofferma sul "caso Pagola" all'interno del suo articolo "Conflitti cristologici col magistero", che può essere letto qui http://www.queriniana.it/PDF/CNC031611.pdf (nel medesimo numero di Concilium, vi è anche una bibliografia fondamentale sul Gesù storico, curata dallo stesso Pagola).
In realtà, pur muovendosi, come ho detto, all’interno di un piano rigorosamente storico (benché in modo divulgativo), lo sguardo che Pagola getta a Gesù non è sempre quello neutrale del “puro storico” (alla Sanders) bensì uno sguardo con una certa sensibilità teologica, all’interno del quale la personalità, il comportamento e la vicenda di Gesù vengono evidenziate come modello di esistenza cristiana.
Infatti - scrive l’Autore nell’introduzione - “Non basta confessare che Gesù è l’incarnazione di Dio se poi non ci si preoccupa di sapere com’era, cosa viveva o come agiva quest’uomo nel quale Dio si è incarnato. A poco serve difendere dottrine sublimi su di lui, se non camminiamo sui suoi passi” (p. 7).
Tuttavia questa sorta di “dimensione teologica” latente nel libro (ma in modo discreto), e che probabilmente ne ha decretato pure il successo, non dà assolutamente a luogo ad alcuno spunto polemico contro la dottrina cristologica tradizionale della Chiesa.
Ed è proprio questo che rende davvero assurde le critiche del Vescovo Fernandez & Co.: Pagola si muove semplicemente al di qua della prospettiva cristologica, senza mai trarre dalla sua esposizione storica implicazioni dogmatiche di sorta, esattamente come dovrebbe fare ogni storico serio, qualunque sia la sua fede o non fede personale. Perché dunque questa “scomunica” contro Pagola, e non invece contro – fatte le debite proporzioni - Un ebreo marginale di J.P. Meier?
P.P.S. La "carta pastoral" contro il libro di José Antonio Pagola, pubblicata da mons. Fernandez, vescovo di Tarazona, può essere letta al seguente link: http://www.diocesistarazona.org/otros/dfp2.pdf.
Qui invece si possono trovare le altre recensioni di altri tre teologi (Rico Paves, Sayes, Iraburu) e del vicario episcopale di Valladold (Arguello): http://www.diocesistarazona.org/Recensiones%20Libro%20de%20Pagola.htm.
Infine, nell'ultimo numero della rivista internazionale di teologia Concilium "Gesù come il Cristo - nel crocevia delle culture" (3/2008), il teologo José Ignacio Gonzalez Faus si sofferma sul "caso Pagola" all'interno del suo articolo "Conflitti cristologici col magistero", che può essere letto qui http://www.queriniana.it/PDF/CNC031611.pdf (nel medesimo numero di Concilium, vi è anche una bibliografia fondamentale sul Gesù storico, curata dallo stesso Pagola).
mercoledì 11 giugno 2008
Ma la Third Quest esiste?
Ma la Third Quest esiste?
Sono d’accordo con Piccolo Zaccheo sul fatto che, fondamentalmente, non è mai esistito nulla come una First, Second e Third Quest. Ciò che è esistito sono solo lavori storici più o meno accomunati, di volta in volta, da certi metodi, criteri, presupposti. First, Second e Third Quest sono soltanto categorie storiografiche utili a livello introduttivo per un orientamento generale, per cogliere una serie di punti fondamentali, ma spesso inadeguate e inservibili non appena si va un po’ più a fondo.
Personalmente, cerco di evitare il più possibile di impiegare l’etichetta “Third Quest”. L’ho fatto nel post precedente, perché comunque ci sono persone che utilizzano tale etichetta, e, nella misura in cui si dialoga con loro, è possibile ricorrervi. Nonostante ciò, io ritengo che, specialmente nel modo spesso impreciso con cui viene impiegata dagli stessi studiosi, la categoria “Third Quest” sia poco utile se non proprio inservibile.
Sono d’accordo con Piccolo Zaccheo sul fatto che, fondamentalmente, non è mai esistito nulla come una First, Second e Third Quest. Ciò che è esistito sono solo lavori storici più o meno accomunati, di volta in volta, da certi metodi, criteri, presupposti. First, Second e Third Quest sono soltanto categorie storiografiche utili a livello introduttivo per un orientamento generale, per cogliere una serie di punti fondamentali, ma spesso inadeguate e inservibili non appena si va un po’ più a fondo.
Personalmente, cerco di evitare il più possibile di impiegare l’etichetta “Third Quest”. L’ho fatto nel post precedente, perché comunque ci sono persone che utilizzano tale etichetta, e, nella misura in cui si dialoga con loro, è possibile ricorrervi. Nonostante ciò, io ritengo che, specialmente nel modo spesso impreciso con cui viene impiegata dagli stessi studiosi, la categoria “Third Quest” sia poco utile se non proprio inservibile.
Che cosa è infatti “Third Quest”, quali sono i punti salienti di questa presunta corrente?
1) Mancanza di interessi teologici. Gli studi sul Gesù storico che vanno sotto l’etichetta di “Second Quest”, pur essendo in sé stessi di tipo storico, nascevano a partire da una prospettiva teologica, quella per cui, a partire da Kaesemann, si va retrospettivamente alla ricerca della dimensione storica racchiusa nel Kerygma. In sostanza, la “Second Quest” aveva un’origine teologico-fondamentale. Al contrario, la “Third Quest”, anche quando è rappresentata da studiosi confessionali e perfino ecclesiastici, non è mossa da alcun interesse teologico, è solo e unicamente pura storia. Questo sembra effettivamente essere il caso dei lavori di autori – solo per fare due o tre nomi - come Sanders, Fredriksen, e anche Meier. Tuttavia vi sono ancora studiosi, come Witherington, Penna, Dunn e Schlosser, che continuano a mantenere una certa prospettiva teologica “retrospettiva”, nella misura in cui si propongono di andare alla ricerca della “cristologia di Gesù” e di individuare la sua autoconsapevolezza (che è appunto un interrogativo tipicamente di origine teologica).
2) Considerazione positiva del Giudaismo del Secondo Tempio. Anche gli autori della Second Quest, ovviamente, interpretavano Gesù in relazione al suo ambiente giudaico, tuttavia questo assolveva non di rado la funzione di “fondo scuro” su cui far risaltare la novità di Gesù. Da questo punto di vista, Sanders ha effettivamente rappresentato un punto di cesura nella storia della ricerca, mettendo fine a tutta una serie di caricature del Giudaismo, e affermando la necessità di guardare al Giudaismo del Secondo tempio come al contesto positivo (e non negativo) grazie al quale (e non contro il quale) comprendere Gesù.
3) Ridimensionamento, riformulazione o abbandono del criterio di dissomiglianza. Questa è semplicemente l’altra faccia della medaglia del punto di cui sopra. La precedente accentuazione del criterio di dissomiglianza (appartiene sicuramente al Gesù storico solo ciò che è dissimile e non derivabile dal Giudaismo del suo tempo e dalla predicazione della chiesa primitiva) come principio a partire dal quale cominciare la ricostruzione del Gesù storico (cf. Norman Perrin), faceva necessariamente apparire Gesù come un essere fondamentalmente eccentrico ed estraneo rispetto al proprio ambiente, così da ottenere, in sostanza, un “Gesù contro il giudaismo” piuttosto che un “Gesù nel giudaismo”. Al contrario, la “Third Quest” si caratterizza per A) un ridimensionamento o abbandono del criterio di dissomiglianza come criterio “guida”, in favore della costruzione di un ipotesi generale che inserisca positivamente Gesù nel giudaismo del suo tempo, e che renda ragione al contempo degli esiti peculiari della sua predicazione (la nascita del proto-cristianesimo), come accade nei lavori di Sanders, Fredriksen, Allison, Wright. B) la riformulazione del criterio di dissomiglianza in un criterio di plausibilità contestuale, attraverso il quale le tradizioni gesuane vengono considerate nella loro conformità al contesto giudaico e, al contempo, nella loro relativa specificità rispetto ad esso (cf. Theissen).
4) Abbandono o ridimensionamento di una considerazione “atomistica” del materiale evangelico. Diversi esponenti della Third Quest non procedono più mediante un’analisi “tradizione per tradizione”, con cui i diversi loghia vengono passati al setaccio dei vari criteri e, laddove possibile, ricondotti alla loro ipotetica forma primitiva. Esempi eclatanti di questo abbandono dell’ “approccio atomistico” sono i lavori di Sanders, Fredriksen, Allison e Wright. Tuttavia un esponente eccellente della Third Quest quale John Paul Meier procede proprio mediante un’analisi a dir poco “pachidermica” dei singoli detti, e – da una prospettiva totalmente diversa - abbiamo il Jesus Seminar con la sua ricerca dei detti e fatti autentici di Gesù (cf. The Five Gospels), o anche un Crossan, il quale imposta il suo lavoro su una scrematura generale di tutto il materiale gesuano attraverso una ben precisa (ma anche molto contestabile) stratificazione delle (assai numerose) fonti, congiuntamente al criterio di molteplice attestazione (con la discutibile implicazione di escludere a-priori tradizioni che potrebbero tranquillamente soddisfare criteri come quello di dissomiglianza o di plausibilità contestuale e quello di imbarazzo,qualora queste siano attestate da una sola fonte indipendente).
5) L’impiego di una vasta gamma di fonti per la ricostruzione del Gesù storico. John Dominic Crossan è certamente l’emblema più eclatante di questa nuova tendenza della ricerca, che, qui in Italia, è stata ben recepita (benché non sulla stessa linea complessiva di Crossan) da Mauro Pesce. Persino in un libro sostanzialmente di orientamento conservatore e di taglio divulgativo come quello di Armand Puig i Tarrech è possibile imbattersi in numerose citazioni dei vangeli di Tommaso, di Pietro ed altri ancora. Il vangelo di Tommaso viene considerato da alcuni autori (vedi Patterson) come addirittura la fonte principale per la ricostruzione del Gesù storico insieme all’ipotetico strato primitivo sapienziale di Q. Da altri, viene semplicemente tenuto in considerazione come possibile fonte di alcune tradizioni indipendenti rispetto a quelle sinottiche. Altri ancora, tuttavia, come Meier, negano che Tommaso, e tutti gli “apocrifi” in genere, possano contenere tradizioni indipendenti di qualche valore per lo studio del Gesù storico.
6) L’impiego delle scienze sociali e antropologiche. Molti autori contemporanei fanno abbondante uso dei metodi e dei risultati delle scienze sociali e antropologiche (fondamentali in tal senso i lavori di autori come Bruce Malina, Richard Rohrbaugh, Denis Duling e del Context Group in genere). Crossan ricorre a piene mani all’antropologia culturale, Theissen e Horsely sono gli esempi migliori e più noti dell’applicazione della sociologia allo studio del Gesù storico, e anche in uno studioso “classico” come Dale Allison possiamo notare il ricorso centrale al paradigma “millenaristico” per interpretare la figura di Gesù. Anche in Italia è arrivato un importante esempio di tale linea della ricerca: il volume “Il nuovo Gesù storico”, a cura di B. Malina, W. Stegemann e G. Theissen, edito da Paideia. Tuttavia molti autori continuano a fare ricerca in modo sostanzialmente indipendente dagli studi sociologici e antropologici, ad es. Sanders, Wright, Meier, Schlosser.
In conclusione, sebbene questi sei punti caratterizzino effettivamente in modo significativo il complesso delle opere sul Gesù storico apparse negli ultimi venti-venticinque anni, tuttavia è evidente che nessuno di essi è effettivamente oggetto di un vero e proprio consenso. Se definiamo la Third Quest - come sarebbe corretto fare a partire da come viene definita da colui che ha inventato l’etichetta stessa, ossia N.T. Wright – in relazione alla tendenza a vedere Gesù positivamente all’interno del Giudaismo del Secondo Tempio, è necessario escludere autori come Crossan, Patterson, Mack, Downing e il Jesus Seminar in genere, per i quali la giudaicità di Gesù è di portata marginale (Crossan) o perfino nulla (Mack).
E, ripeto, escludere questa linea di studiosi dalla corrente “Third Quest” è in effetti corretto e doveroso; peccato però che siano molti tra gli stessi studiosi (e non solo qualche approssimativo divulgatore) a inserire nella Third Quest autori come Crossan e Borg (ma Borg in effetti – come riconosce anche Wright – sotto certi aspetti ci può stare), e dal momento che questa inclusione di Crossan e dello stesso Jesus Seminar nella Third Quest si è fatta tutt’altro che rara, è necessario domandarsi quanto sia effettivamente utile l’impiego di tale etichetta storiografica.
E anche le altre divergenze (soprattutto: ipotesi complessiva VS studio atomistico dei logia; ampio ventaglio di fonti VS limitazione sostanziale ai vangeli canonici; ricorso alle scienze sociali e antropologiche VS impiego del metodo storico-critico “classico”) contribuiscono a rendere ulteriormente approssimativo l’impiego del comun denominatore “Third Quest”.
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