mercoledì 4 novembre 2009

The historiographic significance of the Bradford (Caird) Family



L’editrice Paideia di Brescia ha appena tradotto e pubblicato un libro dell’esegeta inglese George Bradford Caird, Lingua e linguaggio figurato nella Bibbia (The Language and Imagery of the Bible), originariamente apparso nel lontano 1980. Un lavoro che l’Autore stesso definisce “un libro di testo di semantica elementare esemplificata attingendo all’Antico e al Nuovo Testamento” (p. 14).
Personalmente non ho avuto modo di leggerlo per intero, e nemmeno per buona parte, né in inglese né in italiano, e ritengo che non potrò rimediare a questa “mancanza” ancora per molto tempo.
Nondimeno, per quel che concerne la materia principale di questo blog, il libro di Caird, anzi la figura stessa di Caird, ha una indubbia importanza storiografica.
Cominciamo con la figura: G.B. Caird, docente alla gloriosa Università di Oxford (“I listened to other students talking about Caird ‘defending the walls of Oxford against the German invasion’”, riferisce pittorescamente M.J. Borg in “A Temperate Case for a Non-Eschatological Jesus” Foundations & Facets Forum 2 (1986) 81-102), è stato il Doktorvater di due dei più popolari Jesus Questers degli ultimi due decenni: l’ora vescovo anglicano N.T. Wright e il suo amicone americano Marcus J. Borg, coordinando le rispettive dissertazioni dottorali su Paolo e sulla politica di Gesù.
Venendo invece al libro, l’ultimo capitolo, il 14°, è dedicato a “La lingua dell’escatologia”. Ebbene, si tratta di un capitolo fondamentale proprio per l’influenza diretta e decisiva che ha avuto nel modo in cui i suoi "figliocci" Wright e Borg hanno concepito il rapporto tra Gesù e l’escatologia.
In questa sede non è evidentemente possibile entrare nei dettagli della questione, per cui preferisco lasciare la parola direttamente ai tre studiosi, riportando alcune citazioni significative.

CAIRD:
“La mia proposta può essere illustrata in tre proposizioni: (…) 1. Gli autori biblici credevano alla lettera che il mondo avesse avuto un inizio nel passato e avrebbe avuto una fine nel futuro. 2. Essi ricorrevano regolarmente al linguaggio della fine del mondo in senso metaforico per parlare di ciò che sapevano bene non essere la fine del mondo. 3. Come avviene con tutti gli altri usi della metafora, si deve tenere conto che è verisimile un fraintendimento nel segno della letteralità da parte dell’uditore, ed è possibile una certa confusione dei limiti fra veicolo e tenore da parte del parlante” (G.B. CAIRD, Op. cit., p. 311).

BORG:
“The threat tradition of the synoptics thus contains two elements. On the one hand, decisions taken for or against the mission of Jesus would have eternal consequences (e.g. Mk 9:43-48; Lk 10:12-15 par., 11:31-32 par.; 12:8-9 par.; Mt 25,31-46). But this was not imminent, nor was this the primary source of urgency. [Si tratta del punto n. 1 di Caird]. What was imminent was the historical consequence of continuing to pursue the quest for holiness as separation (…): the threatened destruction of Jerusalem and the Temple (..). That was the crisis Jesus announced to his contemporaries. (…) only the imagery of cosmic disorder and world judgment would have been adequate to speak of the destruction of Jerusalem and the Temple (…). The position maintained here, then, is that the transcendent imagery (…) which speaks of imminent universal disorder, is consistent with the threat of the destruction of Jerusalem and the Temple. Only such language was sufficient to express the significance of the destruction of Jerusalem [e quest è il punto n. 2 di Caird]”.
(M.J. BORG, Conflict, Holiness and Politics in the Teaching of Jesus, 2nd ed., Trinity Press International, Harrisburg, 1998, pp. 227-229; 1st ed. 1984).

WRIGHT:
“Within the mainline Jewish writings of this period (…), there is virtually no evidence that Jews were expecting the end of the space-time universe. There is abundant evidence that they, like Jeremiah and others before them, knew a good metaphor when they saw one, and used cosmic imagery to bring out the full theological significance of cataclysmic socio-political events” (N.T. WRIGHT, The New Testament and the People of God, SPCK/Fortress, London/Minneapolis, 1992, p. 333).
“(…) the imagery of Mark 13,24-5, 27 can be easily understood. These verses, as Caird urged, are not ‘flat and literal prose’. They do not speak of the collapse or end of the space-time universe. They are (…) typical Jewish imagery for events within the present order that are felt and perceived as ‘cosmic’ or, as we should say, as ‘earth-shattering’. More particularly, they are regular Jewish imagery for events that bring the story of Israel to its appointed climax. (…) The result of ‘the vindication of the son of man’ is that exile will at last be over (…). The promises to Jerusalem, to Zion, are now transferred to Jesus and his people. Meanwhile Jerusalem herself has become the great enemy, the city whose destruction signals the liberation of the true people of God” (N.T. WRIGHT, Jesus and the Victory of God, SPCK/Fortress, London/Minneapolis, 1996, pp. 362-363).

[Wright assolutizza il punto n. 2 di Caird, lasciando del tutto cadere il punto n. 1 – e introducendo in compenso – come si vede chiaramente –, al posto del “crasso letteralismo” che egli attribuisce all’interpretazione tradizionale dell’escatologia, una non meno “crassa” e sfacciata lettura apologetica, di cui bene ha detto Paula Fredriksen: “This hypothesis is coherent and parsimonious, offering the simplest explanation so far of the rise of Chrisitanity: Jesus created it” (P. FREDRIKSEN, “What You See Is What You Get: Context and Content in Current Research on the Historical Jesus” Theology Today 52 (1995) 75-97, p. 89)].

Al lettore il giudizio sulla plausibilità dell'interpretazione dell’escatologia offerta dalla famiglia Bradford.

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