Ho grande rispetto per i metodi scientifici con i quali i miei colleghi studiosi di NT indagano i testi, mi permetto tuttavia di porre degli interrogativi teologici. (...)
Come andrebbero i testi del NT, qualora si vogliano leggere nel senso dei loro autori e nel senso di ciò di cui essi parlano. In tal caso, da oggetti della ricerca essi diventerebbero soggetti del discorso e noi diventeremmo in primo luogo “uditori della parola”.
Che cosa infatti vogliono dirci i testi del NT? Essi vogliono annunciarci il vangelo di Gesù Cristo, vogliono raccontarci e comunicarci il Vangelo per risvegliare la fede. Naturalmente si possono esaminare i drammi storici di Shakespeare anche dal punto di vista storico-critico per quanto riguarda la storia dei re a cui sono dedicati. Ma si può poi comprenderne la drammaticità?
Per chiarire la cosa in modo un po’ forte ricorro ad un incubo. Mi immagino di salire sul pulpito di una chiesa per annunciare il vangelo e, se possibile, per suscitare la fede. Non ci sono però uditori delle mie parole. Sui banchi siede uno storico che analizza criticamente i fatti di cui io parlo, uno psicologo che analizza la mia psiche così come la rivelo attraverso il mio discorso, un antropologo culturale che osserva il mio stile personale, poi un sociologo che indaga la classe sociale di appartenenza della quale mi considera un rappresentante, e così via. Tutti analizzano me e quello che io voglio dire, ed ecco la cosa peggiore: nessuno mi contraddice, nessuno vuole discutere con me quello che io ho detto.
(dalla lectio magistralis Comprendi quello che leggi?, testo inedito scritto da J. Moltmann per il Festival della teologia, tradotto e letto da Daria Dibitonto)
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