venerdì 10 febbraio 2012
Resurrecting Schweitzer. Il Gesù messia apocalittico di Giorgio Jossa
Il saggio di Jossa La condanna del Messia (Paideia, 2010) è un lavoro ammirevole per l'abilità nel modo in cui si affronta e si prende posizione su una quantità notevole tra le questioni più controverse nella ricerca storica su Gesù (dialogando con il meglio della ricerca internazionale), intessendovi, pagina dopo pagina, la trama di una tesi chiara, coerente e persuasiva. Naturalmente, da vecchio sandersiano che sono, non posso che essere in disaccordo su moltissimi degli argomenti di Jossa. Quasi tutti, in effetti. Nondimeno si tratta di un libro importante, e si desidererebbe che fosse il preludio ad un futuro lavoro in cui l'autorevole storico partenopeo argomentasse in modo più analitico e sistematico la tesi qui brillantemente presentata.
Dal momento poi che un lavoro del prof. Jossa è già stato tradotto in inglese per una delle più prestigiose collane internazionali di studi neotestamentari (Jews or Christians?, WUNT, Mohr Siebeck), credo che anche questo libro potrebbe trovare buona accoglienza nel panorama anglosassone, specialmente americano (che so, per la Eerdmans).
Segue un florilegio di estratti da La condanna del Messia:
Se appare molto difficile parlare di pretesa messianica di Gesù nel quadro di un giudaismo assai poco caratterizzato dall’attesa messianica, ancora più problematico può essere distinguere in maniera troppo netta la predicazione non messianica di Gesù dalle attese messianiche dei suoi seguaci (p. 49)
Né i dottori e profeti come Giuda il Galileo, Teuda e il profeta egiziano né i ribelli come Giuda, Simone e Atronge, o Menahem e Simone bar Giora, possono essere realmente utilizzati come elementi comparativi per la pretesa messianica di Gesù (p. 73)
Il ridimensionamento della speranza messianica davidica di Israele ha preso anche una diversa direzione: quella dell’allargamento della speranza alle dimensioni cosmiche di un regno universale, non più identificato semplicemente con il regno d’Israele. Si tratta del riferimento delle fonti giudaiche di questo periodo a tutta una serie di personaggi celesti il cui compito non ha più a che fare soltanto con la rivolta al dominio straniero e il destino politico di Israele ma con la sorte di tutti gli uomini sullo sfondo del cosmo intero. Una delle novità più significative della ricerca attuale sul Gesù storico è infatti nel riconoscimento dell’esistenza di un’attesa messianica rivolta a personaggi di carattere non terreno, ma celeste (p. 73)
Se questo materiale immaginario era realmente diffuso all’epoca di Gesù, non è impossibile che Gesù abbia conosciuto queste speculazioni sui Messia celesti e ne abbia utilizzato le immagini per la sua lotta attuale contro il potere del demonio e la sua futura funzione di figlio dell’uomo (pp. 80-81)
Messia non è necessariamente colui che si definisce o viene indicato con questo titolo o con un titolo simile. Messia è per me quel personaggio (storico) che avrà un ruolo decisivo negli eventi della fine dei tempi. (p. 81)
Il battesimo di Gesù significa che evidentemente la sua adesione al gruppo di Giovanni, dopo la quale, come afferma il quarto vangelo, Gesù è rimasto un certo tempo nell’orbita del Battista. (…) Per un certo periodo, non sappiamo quanto lungo, Gesù deve aver fatto sue le posizioni di Giovanni, insistendo quindi anch’egli sulla prospettiva del giudizio, la necessità del pentimento e il rito del battesimo. Il tutto dominato ancora probabilmente dall’attesa di un ‘più forte’ che avrebbe battezzato non in acqua, ma in spirito santo o in spirito santo e fuoco, inaugurando così realmente i tempi escatologici. Come Giovanni, Gesù non avrebbe potuto quindi considerare la sua missione se non come quella di ‘uno dei profeti’ , e più in particolare come quella di un Elia (pp. 96-98)
Iniziando un ministero autonomo, Gesù imprime però una svolta decisiva alla predicazione del battista. E’ qui che non posso seguire Meier e ritengo abbia invece ragione Hollenbach (e con lui J.D. Crossan). (…) Più che sul prossimo giudizio di Dio al quale prepararsi col pentimento e il battesimo, Gesù insiste sull’imminenza di un intervento salvifico di Dio da accogliere con fede (…) Questo significa che già quando ha lasciato Giovanni ed è venuto in Galilea ad annunciare che il regno di Dio era vicino, Gesù non si è presentato più come ‘uno dei profeti’, o anche un Elia, come faceva ancora Giovanni, che invitava al pentimento in vista del giudizio, e come hanno creduto ancora di lui, secondo Mc 8,28, alcuni dei suoi ascoltatori, ma come il profeta escatologico, cioè l’ultimo dei profeti, che annunciava la buona novella dell’imminente arrivo del regno. (pp. 98-99)
Nella valutazione del carattere della sua attività miracolosa appare una chiara revisione del tradizionale messianismo giudaico da parte di Gesù. (…) Gli atti messianici non consistono nella cacciata dei romani dalla terra d’Israele, ma nella vittoria su Satana e nella liberazione dal suo dominio da parte di Gesù. (…) L’avvento del regno di Dio non richiede anzitutto la liberazione dal dominio straniero. La visione teocratica di Giuda il Galileo è nettamente rifiutata. (p. 107)
Proprio nel momento in cui Gesù invitava i suoi discepoli a riconoscerlo come Messia egli aveva anche rinviato la venuta definitiva del regno a un tempo più lontano. E aveva cominciato quindi a prendere ancor più le distanze da una idea messianica troppo legata alle speranze terrene di Israele. E’ la seconda svolta della predicazione di Gesù. (p. 110)
Credo che un accenno alla probabilità di una sua sofferenza e al fatto quindi che egli avrebbe concluso la sua missione non come Messia terreno re di Israele ma come figlio dell’uomo celeste chiamato al giudizio divino Gesù abbia cominciato a farlo proprio avviandosi verso Gerusalemme, dove tutto lasciava pensare che la sua missione si sarebbe conclusa tragicamente (pp. 110-111).
Le difficoltà evidenti che incontrava la sua azione col conflitto crescente con i farisei hanno fatto sì che la venuta del regno gli è apparsa più lontana ed egli ha visto la manifestazione della sua identità messianica solo come manifestazione della futura gloria del figlio dell’uomo. Una gloria che non poteva non comportare il passaggio per la sofferenza e la morte (p. 111)
La pretesa messianica di Gesù non ha più un carattere terreno, ma celeste. La gloria che egli attende non è la gloria del re davidico nel riscatto d’Israele, ma quella del testimone celeste nel giudizio del mondo. (…) L’origine davidica del Messia, che con ogni probabilità Gesù possedeva realmente, non è affatto negata, ma si palesa del tutto insufficiente a indicarne la gloria futura (…) Se un’immagine si può proporre per la figura del Messia, non è quella del re David dei profeti e dei salmi, ma quella degli angeli Michele e Melchisedeq dei testi di Qumran. E se un titolo spetta a questo Messia, non è quello di figlio di David dei Salmi di Salomone, ma quello di figlio dell’uomo delle parabole di Enoch. (pp. 111-113)
Gesù conserva fino in fondo la certezza della vittoria finale di Dio e della sua partecipazione ad essa. Alla celebrazione del banchetto escatologico nel regno di Dio egli sarà presente (…) Nella morte imminente Gesù non ha visto soltanto il fallimento della sua missione terrena, ma il compimento misterioso, e per certi versi incomprensibile, della volontà salvifica di Dio. L’avvento del regno non è previsto come imminente su questa terra e richiede necessariamente il passaggio di Gesù per la sofferenza e morte. (pp. 113-114)
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