I due ultimi libri di Giorgio Jossa mi lasciano abbastanza insoddisfatto su molti punti sui quali vorrei soffermarmi, ma non ne ho purtroppo il tempo. Mi concedo giusto qualche osservazione a partire da un’affermazione che Jossa fa di passaggio nel suo Gesù. Storia di un uomo, allorché tratta delle presunte “libertà” che Gesù si prende nei confronti della legge mosaica, e nella fattispecie delle norme di purità.
A pag. 94 si legge: “Gesù ha mostrato scarsa attenzione a queste norme. Già lo stare a tavola con i pubblicani e i peccatori, trattandosi di persone probabilmente impure, doveva porre inevitabilmente anche problemi di purità”. Questo ragionamento purtroppo è completamente inficiato da una confusione fondamentale.
Jonathan Klawans (Impurity and Sin in Ancient Judaism, 2000) ha illustrato molto bene come in tutta una serie di opere bibliche ed intertestamentarie (Levitico, Numeri, Ezra, Nehemia, Rotolo del Tempio, Documento di Damasco, Libro dei Giubilei) siano chiaramente distinguibili, e permangono come tali, due diverse forme di impurità: una impurità rituale legata agli ambiti naturali della sessualità, della nascita e della morte; e una impurità morale causata da “abomini” come l’idolatria, l’omicidio e peccati sessuali.
Nel primo caso si tratta di una impurità non-peccaminosa, bensì inevitabile e perfino doverosa, che si propaga per contatto, ma in modo non-permanente e facilmente removibile, e che ha come effetto l’esclusione temporanea dal santuario o, in certi casi, dalla comunità. Nel secondo caso, si tratta di un’impurità peccaminosa, non trasmettibile e per nulla incompatibile con l’accesso al tempio (ma capace di contaminarlo moralmente – e non ritualmente –, anche a distanza, come pure la terra d’Israele in genere, fino a determinare l’esilio), e rimovibile non mediante abluzioni, ma solo con la punizione (che può essere la morte) e l’espiazione.
Una fusione di queste due distinte forme di impurità, sembra essere stata tipica solo della comunità di Qumran, nella quale il peccato era considerato causa di impurità rituale e, viceversa, l’impurità rituale peccaminosa. All’opposto dei qumraniti, i successivi maestri tannaitici svilupparono ulteriormente la distinzione biblica in quella che Klawans definisce una “compartimentalizzazione” delle due impurità.
Tornando a Jossa, il problema nella sua affermazione è la mancata realizzazione del fatto che, di per sé, il frequentare un peccatore non comprometteva affatto la purità rituale. In linea generale, Gesù non avrebbe dovuto compiere alcuna pratica di purificazione per il fatto di essere entrato in contatto con un ladro o un pubblicano, come pure con un pagano (le preoccupazioni che diversi scritti hanno per i gentili come fonte d’impurità riguardano infatti la sfera morale: la loro idolatria, le loro perversioni sessuali). E tantomeno Gesù, venendo in contatto con costoro, avrebbe compromesso la sua purità morale, dal momento che questa era una realtà individuale e non-trasferibile, e che oltretutto egli si associava a loro non certo per approvarne le azioni, bensì per correggerle così da reintegrare quelle “pecore perdute” nell’Israele in-via-di-restaurazione.
Né si può assumere gratuitamente che i “peccatori”, per il solo fatto di essere tali, fossero automaticamente irriguardosi delle basilari norme di purità rituale. Cosa impedisce di pensare che un peccatore come Zaccheo non ci tenesse ad immergersi dopo aver avuto rapporti sessuali? O per quale ragione si dovrebbe assumere che un peccatore se ne infischiasse della kashrut e banchettasse a base di porco e coniglio? E in ogni caso, quand’anche questi peccatori fossero stata gente che se ne fregava completamente della purità rituale (o che, nel caso del prostitute, non potessero farci niente), per riguadagnare la purità perduta nell’accostarsi a loro, Gesù non avrebbe dovuto perdere che pochissimo tempo e fatica (il fatto che i vangeli non ci dipingano un Gesù nell’atto di immergersi è perfettamente spiegabile con l’assoluta banalità e non-memorabilità di tale pratica).
In conclusione: i contatti che Gesù ebbe con i “peccatori” - avessero o meno conseguenze per la sua purità rituale (ma non certo per il loro essere “peccatori”) - non costituiscono in alcun modo un argomento per stabilire quale opinione e atteggiamento egli avesse rispetto alle norme bibliche di purità. Parlare a questo riguardo di "prese di libertà" è completamente fuori luogo, dal momento che la Torah non prescrive affatto di non contrarre impurità, ma solo come purificarsene una volta contratte. Non è detto che associandosi ad un peccatore egli si contaminasse ritualmente, e anche se ciò fosse accaduto (come pure è probabile), egli avrebbe facilmente saputo riacquistare lo stato di purità, sicché tutto ciò che se ne potrebbe concludere è solo che la preoccupazione per la purità rituale non era per lui un'ossessione tale da impedirgli di cercare di convertire un peccatore. Il che è ben poca cosa.