Trovo imbarazzante che uno dei più rinomati studiosi di origini cristiane e giudaismo del secondo tempio, possa scrivere un articolo di pura fantasia, destinato a comparire in un’imponente e accreditata opera di riferimento.
Purtroppo questo è il caso dell’articolo dell’esimio prof. James H. Charlesworth “John the Baptizer and the Dead Sea Scrolls”, pubblicato nell’opera in tre volumi da lui stesso edita: The Bible and the Dead Sea Scrolls (Baylor University Press, 2006, vol. III, pp. 1-35).
Dopo ciò, il passo successivo di Charlesworth è valutare le innegabili divergenze: 1) il battesimo di Giovanni era praticato una volta soltanto, laddove le immersioni qumraniche erano quotidiane; 2) Giovanni esercitava una missione finalizzata al pentimento di Israele, mentre i qumraniti – con la loro teologia dualista, determinista ed esclusivista – consideravano come massa dannata tutti gli outsiders alla Yahad; 3) contrariamente a Qumran, alla comunità del Battista (??? – sic!) si accedeva in modo immediato ed essa non contemplava gerarchie interne, punizioni ed espulsioni.
Stabiliti pro & cons circa un legame tra il Battista e Qumran, Charlesworth passa a contestare, in modo non certo irresistibile, gli argomenti espressi da Joan Taylor contro tale collegamento, accusandola di valutare i paralleli attraverso una metodologia troppo rigida, ristretta e ovviamente… positivista! (immancabile babau di tutti i biblisti conservatori).
Se dunque i paralleli significativi ci sono, e non è pertanto possibile negare l’esistenza di un rapporto tra il Battista e Qumran, l’altrettanto evidente presenza delle divergenze, conduce Charlesworth all’inevitabile (?) conclusione che Giovanni fu a Qumran per un certo periodo, ma successivamente se ne distaccò.
A questo punto, sgomberato il terreno da ogni riserva positivista e fattosi scudo dell’opinione di Joseph Fitzmyer, secondo cui l’idea di un Battista con trascorsi a Qumran è una “plausibile hypothesis, one that I cannot prove, and one that cannot be disproved” - Charlesworth si sente finalmente autorizzato a sciogliere le briglia della sua fantasia, e, con un coup de théatre, passa direttamente a porre un quesito ardito… al quale ancora nessuno è riuscito a dare una risposta:
che cosa mai spinse Giovanni a lasciare Qumran?
Ed è qui che, tutto d’un tratto, i cieli si spalancano e il lettore vede discendere un deus ex machina sull'articolo:
“Adding historical imagination to what we have been told about the Baptizer by Josephus and the Evangelists, it is clear…”.
E’ chiaro cosa?…
E' chiaro che nel corso dei due anni di noviziato qumranico, Giovanni, forte della sua discendenza sacerdotale aronita, avrebbe in un primo tempo gioito nel declamare passaggi del rituale di rinnovamento dell’alleanza come 1QS 1,21-25 (“Abbiamo operato iniquamente … abbiamo peccato … noi e i nostri padri prima di noi …”), che tanto gli avrebbero ricordato le parole udite pronunciare da bambino al babbo Zaccaria durante i suoi turni nel tempio.
E più ancora il giovane Giovanni si sarebbe infervorato nel recitare benedizioni come 1QS 2,1-4 (“… e i sacerdoti benediranno tutti gli uomini della parte di Dio che perfetti camminano in tutte le sue vie e diranno: Vi benedica con ogni bene, e vi guardi da ogni male, … alzi su di voi il volto della sua grazia … “), nelle quali avrebbe certamente stimato come incluso anche il suo caro babbo Zaccaria.
Ma questo idillio era troppo bello per durare. Già a partire dalle righe immediatamente successive il suo cuore avrebbe cominciato a turbarsi. In 1QS 2,4c-10 si dice infatti che: “E i leviti malediranno tutti gli uomini della parte di Belial. Prenderanno la parola e diranno: Sia tu maledetto per tutte le tue empie opere colpevoli … Non abbia Dio misericordia quando lo invochi, né ti perdoni quando espii le tue colpe …”. Queste parole erano troppo dure per un “uomo buono” (così Flavio Giuseppe) come Giovanni: pronunciarle significava per lui maledire il babbo Zaccaria e tutte le persone che aveva amato.
Così, a poco a poco, la voce con cui Giovanni declamava queste maledizioni durante le riunioni dei Molti, cominciò a farsi sempre più bassa e impercettibile, finché un bel giorno il Maskil si accorse che egli non si associava più ai Molti nel pronunciare l’ “Amen, amen” conclusivo.
E qui il destino di Giovanni fu segnato per sempre. Tutto d’un tratto, da Figlio della Luce che era, egli si trovò ad essere un Figlio delle Tenebre, e venne espulso dalla comunità. E questo significò per Giovanni venire a trovarsi in una impasse esistenziale insolubile: da un lato, egli aveva rotto radicalmente con il comune mondo giudaico da cui proveniva, acquisendo una nuova identità sociale; dall’altro, questa identità acquisita non aveva più possibilità di esprimersi. E nemmeno poteva pensare di tornare indietro al mondo che aveva lasciato, oppure di andare in cerca di nuove identità rivolgendosi ad altri gruppi: da homo religiosus qual era, infatti, egli continuava a sentirsi vincolato a quei voti che solennemente aveva intrapreso di fronte a Dio, entrando a Qumran.
In poche parole: Giovanni si trovava bloccato in uno stato di liminalità permanente.
E con questo viene finalmente svelato l'arcano delle bizzarre notizie evangeliche sulla dieta e l'abbigliamento di Giovanni. Poveraccio! Sentendosi ancora vincolato ai giuramenti fatti allorché era entrato nella Yahad, egli non poteva accettare di ricevere né cibo né vestiti da chiunque non fosse un Figlio della Luce (e questo nonostante la causa della sua espulsione fosse stata proprio l’incapacità di accettare il dualismo determinista di Figli della Luce/Figli delle Tenebre), i quali da parte loro si guardavano però bene dall’andarlo a trovare, lasciandolo ben volentieri da solo a morire di fame.
E così il povero Giovanni Senzaterra si trovò a doversi cibare e vestire con quel che gli riusciva di trovare in natura: locuste, miele selvatico, pelo di cammello.
Fortuna volle che egli venisse poi raggiunto da una potente chiamata profetica, che lo trasformò di colpo in un leader carismatico capace di incendiare le folle con i suoi appelli al pentimento e le sue invettive, nelle quali si faceva peraltro ben sentire il vecchio vizietto qumranico di maledire gli altri ebrei (“razza di vipere”), anche se nel caso di Giovanni tali gentilezze non erano gratuite, bensì riservate a coloro che liberamente rifiutavano il suo messaggio. In ogni caso, attingendo alla propria amara esperienza, il nuovo Battista profeta avrebbe iconoclasticamente spronato "those who came to him to break free of the usual social categories" ossia "to abandon their proud claim to be children of Abraham"; sebbene, per conto suo, egli ancora non riuscisse ad accettare la più piccola cosa da un Figlio delle Tenebre.
Ma ecco che proprio nelle ultime venti righe prima della conclusione Charlesworth tira la stoccata finale:
“There is a possible sequel to this attractive scenario”
Aaaargh… si teme il peggio,
e il peggio arriva con il nome di BANNUS.
“As with the Baptizer, Bannus may also have once been a member of the Qumran Community but left it, or was expelled from it”.
Ebbene sì, ecco un altro povero ossesso costretto dai suoi stessi voti a indossare solo quello che trova sugli alberi e a mangiare solo quel che cresce da sé , nonché ad immergersi senza posa nell’acqua fredda.
A questo punto il lettore ha già preparato il cappio al collo, nel leggere che
“Bannus is not only a name, it is a description”.
Sì, questa è la fine. Lo sta per dire, lo sta per dire:
Bannus means… Banned!
Dillo, James, avanti: spara senza pietà!
E invece no.
Con un sussulto di sobrietà, Charlesworth si limita ad osservare che Bannus deriva probabilmente da bnn’h, ossia “bather”, il che è a dire, in pratica, “baptizer”.
Pericolo scampato. Grazie, Jim.
Le righe che ancora rimangono offrono solo un conciso riepilogo di quanto esposto nelle precedenti trenta pagine, nel quale Charlesworth si premura di ribadire al lettore – se non fosse abbastanza chiaro -, che:
“The historian must attempt some synthesis and use SOME historical imagination that accounts for all the relevant data”.
Al lettore del volume 3 di The Bible and the Dead Sea Scrolls, il compito di giudicare se questa “recensione” sia una parodia dell’articolo di Charlesworth, o se è l’articolo di Charlesworth ad essere una parodia degli studi storici.
Sono io ad aver mancato di rispetto ad un grande studioso? O è un grande studioso ad aver preso in giro i suoi lettori, propinando loro trenta pagine di “immaginazione”?
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Per comodità dei lettori, offro di seguito un sommario dell’articolo di Charlesworth.
Immaginiamo che Giovanni provenisse effettivamente da famiglia sacerdotale (almeno questo in fin dei conti sono disposti ad accettarlo in molti) e che suo padre si chiamasse effettivamente Zaccaria. Immaginiamo che Lc 1,80 anziché essere una “cerniera” redazionale che si congiunge a 3,1 , contenga un ricordo storico. Immaginiamo che, nel deserto, Giovanni sia stato proprio a Qumran. Immaginiamo che lì abbia ricevuto un’iniziazione completa. Immaginiamo che gioì nel pronunciare le benedizioni del Rotolo della Comunità, e che, nel farlo, egli pensasse sicuramente di benedire di fatto anche papà Zaccaria. Immaginiamo però che il suo affetto per papà Zaccaria e per le altre persone che aveva amato gli impedì di digerire le maledizioni del Rotolo della Comunità. Immaginiamo che a poco a poco, durante le riunioni, smise di pronunciarle. Immaginiamo che sia stato beccato ed espulso. Immaginiamo che sebbene egli ripudiasse il dualismo deterministico (non ci sono Figli delle Tenebre), continuò nondimeno a sentirsi vincolato a quei giuramenti che lo supponevano (non si accetta nulla da un Figlio delle Tenebre). Immaginiamo che fu questa schiavitù a obbligare Giovanni a cibarsi di locuste e miele selvatico e a vestirsi di pelo di cammello. Immaginiamo tutto questo, ed ecco che abbiamo di fronte a noi una plausibile spiegazione di come Giovanni abbia potuto abbandonare quella comunità di Qumran nella quale abbiamo immaginato egli fosse entrato. Il tutto soddisfa per giunta il criterio di "plausibilità contestuale immaginaria", in quanto possiamo immaginare che un fenomeno identico si sia verificato nel caso di Banno.